Ficino, La Venere celeste e la Venere vulgare

Marsilio Ficino si rifà alla dottrina platonica dell’amore e la sviluppa interpretando l’amore sia come mezzo per arrivare a Dio attraverso la bellezza – fonte di unione di Dio con gli uomini e degli uomini con Dio – sia come principio di vita.

 

M. Ficino, Sopra lo Amore ovvero Convito di Platone, capp. VII, VIII, XI

 

Veggiamo ancora due Veneri: l’una è la forza di questa Anima di conoscere le cose superiori: l’altra è la forza sua di procreare le cose inferiori. La prima non è propria dell’Anima: ma è un’imitazione della contemplazione Angelica. La seconda è propria della Anima... Siano dunque due Veneri nell’Anima, la prima celeste, la seconda vulgare: amendue abbino lo Amore: la celeste abbia lo Amore a cogitare la divina Bellezza: la vulgare abbia lo Amore a generare la Bellezza medesima nella materia del Mondo... Il primo Amore chiamiamo alcuna volta Iddio, perché egli si dirizza alle sustanze divine...; il secondo Amore chiamiamo sempre Demonio, perché e’ pare che abbia un certo affetto verso il corpo, col quale egli è inchinevole in verso la provincia inferiore del Mondo. E questo affetto è alieno da Dio, e conveniente alla natura de’ Demonii.

[...]

Queste due Veneri e questi due Amori non solo sono nell’Anima del Mondo, ma nelle anime delle Spere, Stelle, Demonii e uomini... E in noi non sono solamente due amori: ma cinque. Li due Amori estremi sono Demoni chiamati: li tre Amori di mezzo non solamente Demoni, ma eziandio affetti. Certamente nella Mente dell’uomo è uno eterno Amore di vedere la bellezza divina: e per gli stimoli di questo seguitiamo gli studi di Filosofia, e gli offizi della giustizia e della pietà. È ancora nella potenza del generare uno occulto stimolo a generar figliuoli: e questo Amore è perpetuo, dal quale siamo continuamente incitati a scolpire nella effige dei figliuoli qualche similitudine della superna bellezza. Questi due amori sono in noi perpetui. Quelli due Demonii, i quali dice Platone alle anime nostre sempre essere presenti... l’uno si chiama Calodemon, che significa buon Demonio: l’altro Cacodemon, che s’intende malo Demonio: invero amendue sono buoni: imperocché la procreazione dei figliuoli è necessaria e onesta, come la ricerca della verità... In mezzo di questi due in noi sono tre Amori: i quali perché non sono nell’animo fermissimi come questi due, ma cominciano, crescono, scemano, mancano, piú rettamente si chiamano moti e affetti, che Demonii... Certamente quando la figura di qualche corpo, per essere la materia ben preparata, è massime tale, quale nella sua Idea la divina Mente la contiene, facendosi innanzi agli occhi, per gli occhi nello spirito penetra: e di subito allo animo piace: perché consuona a quelle ragioni, le quali come esempio di essa cosa si contengono nella nostra Mente, e nella potenzia del generare, e sono da principio da Dio in noi infuse. Di qui nascono quelli tre Amori: perché noi siamo generati e allevati con inclinazione a l’una delle tre vite: cioè, o alla vita contemplativa, o attiva, o voluttuosa... Ogni amore comincia dal vedere: ma lo Amore del contemplativo, dal vedere surge nella Mente. Lo Amore del voluttuoso, dal vedere discende nel tatto. L’Amore dello attivo, nel vedere si rimane. L’Amore del contemplativo, si accosta piú al Demonio supremo che a lo infimo. Quello del voluttuoso piú allo infimo. Quello dello attivo si accosta egualmente a l’uno come a l’altro. Questi tre amori pigliano tre nomi. Lo Amore del contemplativo si chiama divino: dello attivo, umano: del voluttuoso, bestiale.

[...]

Acciocché i beni ci durino, noi desideriamo rifare i beni periti e i beni periti non si rifanno se non per la generazione. Di qui è nato lo stimolo di generare in ciascuno. La generazione perché fa le cose mortali nel continuare simili alle divine, certamente è dono divino... Dimandate voi che cosa sia lo Amore degli uomini, e a che giovi: egli è appetito di generare nel subietto bello per conservare vita perpetua nelle cose mortali... Cresciuto il corpo, quello Amore sospinge il seme: e provocalo alla libidine di procreare figliuoli: acciò che quello che in se medesimo non può sempre stare, riservandosi nel figliuolo simile a sé, cosí si mantenga in sempiterno...

 

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol. VI, pagg. 597-599