Frege, Sulla parola vero

Frege riassume in questa lettura la sua analisi della parola “vero”, che risulta “vuota di contenuto”. Essa esprime solo la “forza assertoria”, ma per ora il suo uso è ineliminabile.

 

G. Frege, Scritti postumi, trad. it. di E. Picardi, Bibliopolis, Napoli, 1986, pagg. 393-395

 

Forse quanto segue potrà essere utile a taluno come chiave per comprendere i miei risultati:

Nell'atto di riconoscere qualcosa come vero giudichiamo. Quel che viene riconosciuto come vero è un pensiero. Non e possibile riconoscere come vero un pensiero prima d'averlo afferrato. Un pensiero vero è già vero prima di venir afferrato da un essere umano. Il pensiero non ha bisogno di un essere umano come di un portatore. Lo stesso pensiero può venir afferrato da piú persone. Il pensiero riconosciuto come vero non è modificato dal giudizio. Quando si giudica è sempre possibile enucleare il pensiero che viene riconosciuto vero; il giudicare non fa parte di questo pensiero. La parola “vero” non è un termine di proprietà nel senso usuale. Se alle parole “l'acqua di mare” aggiungo predicativamente la parola “salata” formo un enunciato che esprime un pensiero. Per chiarire meglio che qui si vuol solo esprimere il pensiero e non si intende asserire nulla, volgo l'enunciato nella forma subordinata “Che l'acqua di mare è salata”. Alternativamente, potrei anche farlo proferire da un attore che recita la sua parte sulla scena; infatti si sa che l'attore, che recita la sua parte, parla solo apparentemente con forza assertoria. Conoscere il senso della parola “salata” è essenziale per comprendere l'enunciato, poiché essa fornisce un contributo al pensiero; infatti, nelle parole “l'acqua di mare” non avremmo un enunciato e dunque neppure l'espressione di un pensiero. In modo completamente diverso stanno le cose con “vero”. Se aggiungo predicativamente questa parola alla frase “che l'acqua di mare è salata” formo certamente un enunciato che esprime un pensiero. Per la stessa ragione di prima volgo anche questa frase nella forma subordinata: “Che è vero che l'acqua di mare è salata”. Ma il pensiero qui espresso coincide col senso dell'enunciato “che l'acqua di mare è salata”. La parola “vero” non dà col suo senso alcun contributo essenziale al pensiero. Se asserisco “L'acqua di mare è salata” asserisco la stessa cosa che ne asserissi “È vero che l'acqua del mare è salata”. Di qui si comprende che l'asserzione non sta nella parola “vero”, ma nella forza assertoria con cui l'enunciato viene proferito. Si potrebbe quindi credere che la parola “vero” non ha alcun senso; ma in tal caso non avrebbe senso neppure l'enunciato in cui la parola “vero” figura quale predicato. Possiamo dire soltanto: la parola “vero” ha un senso che non reca alcun contributo al senso dell'enunciato in cui figura come predicato.

Ma proprio per ciò questa parola appare adatta a indicarci l'essenza della logica. Ogni altro termine di proprietà sarebbe poco adatto a tale scopo, proprio a causa del suo senso specifico. La parola “vero” sembra dunque rendere possibile l'impossibile, e cioè far apparire come contributo al pensiero quel che corrisponde alla forza assertoria. E questo tentativo ci indirizza, nonostante il suo fallimento, anzi proprio a causa del suo fallimento, alla peculiarità della logica, la quale appare per questo fondamentalmente diversa dall'etica e dall'estetica. Infatti la parola “bello” indica davvero l'essenza dell'estetica, cosí come “buono” indica quella dell'etica; “vero”, invece, fa solo un tentativo fallito di indirizzarci alla logica, poiché quel che conta davvero non sta nella parola “vero”, ma nella forza assertoria con cui un enunciato viene proferito.

Certi tratti che, come la negazione o la generalità, fanno parte del pensiero, sembrano avere un nesso piú intimo con la forza assertoria e con la verità. Ma quest'illusione svanisce poiché li troviamo comparire anche senza forza assertoria, per esempio nell'antecedente di un condizionale o sulla bocca di un attore sulla scena.

Come si spiega dunque che la parola “vero”, per quanto sembri essere vuota di contenuto, è tuttavia indispensabile? Non la si potrebbe almeno evitare del tutto nella fondazione della logica, se ingenera soltanto confusione? I1 fatto che non sia possibile farlo è dovuto all'imperfezione della lingua. Se avessimo una lingua logicamente perfetta forse non avremmo piú bisogno della logica o potremmo leggerla dalla lingua. Ma da ciò siamo ben lontani. Il lavoro logico è proprio in gran parte una lotta contro i difetti logici della lingua, che però, a sua volta, è uno strumento indispensabile per noi. Solo dopo aver portato a termine il nostro lavoro logico avremo a disposizione uno strumento piú perfetto.

Ciò che contiene nel modo piú chiaro un'indicazione circa l'essenza della logica è dunque la forza assertoria con cui un pensiero viene proferito. A essa non corrisponde alcuna parola, alcuna parte dell'enunciato; le stesse parole possono essere pronunziate ora con ora senza forza assertoria. Dal punto di vista linguistico la forza assertoria è legata al predicato.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. II, pagg. 709-710