FICHTE, NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

 

Alla domanda generale se l’uomo sia o non sia libero, non può esserci risposta generale; appunto perché l’uomo è libero nel senso volgare della parola, e cioè esordisce con l’esitare e il tentennare tra le varie soluzioni; nel vero e alto senso della parola può essere libero e anche non esserlo. Nella realtà pratica il modo come uno risponde a questa domanda rispecchia nettamente il suo vero “io”. Chi non è se non un anello nella catena dei fenomeni, può illudersi un istante di essere libero, ma se ci rifletterà su seriamente vedrà quest’illusione andar tosto in fumo; ma ecco che come ha conosciuto se stesso così stima debba essere tutta l’umanità. Chi vive una vita impregnata di verità e derivata direttamente da Dio è libero e crede alla propria e all’altrui libertà. Chi crede in un “io” fisso permanente morto, vi crede solo in quanto egli stesso è morto intimamente; essendo morto, tosto che se ne renda conto, non può pensar diversamente. Egli stesso e la sua razza umana dal principio alla fine gli appaiono come una derivata necessaria da un primo membro da presupporsi. Questa supposizione è il suo vero pensiero, e il suo vero sentimento, il punto in cui il suo pensiero e la sua vita confluiscono; ed è perciò la sorgente di tutti i rimanenti suoi pensieri e giudizi intorno all’umanità, vuoi nel passato, cioè nella storia, vuoi nell’avvenire, cioè nell’aspettazione, vuoi nel presente, cioè nella vita reale sua e degli altri. Questo “credere nella morte”, in contrasto con un popolo originariamente vivo, noi chiamiamo esotismo. Questo esotismo, appena abbia preso cittadinanza fra i tedeschi, si rivelerà nella loro vita pratica sotto forma di tranquillo adagiarsi nel proprio “io”, riconosciuto come necessario e immutabile, sotto forma di rinuncia a perfezionare sé o gli altri per mezzo della libertà, di tendenza a sfruttare sé e gli altri quali sono, spremendone il maggior vantaggio possibile; sarà insomma il riconoscimento che l’umanità, senza eccezioni e senza differenze, è tutta quanta colpevole, riconoscimento che tosto si ripercuoterà in tutte le forme dell’esistenza, e di cui io ho già altrove esaurientemente parlato. A voi di rileggere quelle pagine e di giudicare quanto se ne addica al presente. Questo modo di pensare e di agire deriva dalla morte interiore solo quando essa ha coscienza di sé; finché invece si ignora, serba fede nella libertà, la quale in sé è giusta e solo diventa fallace applicata al suo io attuale. Da questo che io dico risulta quanto sia svantaggiosa la conoscenza quando esiste una intima corruttela. Finché il corrotto è incosciente egli è continuamente assillato dall’appello della libertà, e, così punto e incalzato, offre un appiglio ai tentativi di conversione. La conoscenza dell’ineluttabilità dà invece compiutezza alla sua perfidia, e quasi l’arrotonda e la leviga, concedendole una rassegnazione gioconda, la pace della buona coscienza, il compiacimento di sé. Avviene proprio ciò che si aspettano: essi non possono più emendarsi; tutt’al più potranno servire per mantenere nei buoni un disgusto incoercibile pel male o la rassegnazione al volere di Dio; ad altro al mondo non potranno certo giovare. Ed ecco finalmente, in tutta la sua chiarezza, ciò che noi, in tutte queste precedenti trattazioni, intendemmo per “tedesco”. Il vero tratto distintivo fra gli uomini consiste in questo: o si crede che nell’individuo ci sia un elemento assolutamente primitivo e originale, si crede nella libertà, in una perfettibilità infinita, nel progresso eterno della razza umana, o non si crede a nessuna di queste cose, anzi si crede di vedere e di capire chiaramente che nella vita si effettua giusto il contrario di esse. Tutti coloro che, creando essi stessi o producendo, vivono la vita nuova, o se non son da tanto, almeno respingono risolutamente il nulla e se ne stanno in trepida attesa di essere afferrati dal flutto della vita viva, o se neanche a questo possono giungere, quanto meno presentono la libertà, e, anziché odiarla o temerla, l’amano: tutti costoro sono uomini vivi, e, considerati come popolo, sono un popolo originale, il popolo per eccellenza, sono TEDESCHI. Tutti coloro che si rassegnano ad essere un prodotto secondario, un ramo, si conoscono e si riconoscono come tali e tali infatti sono nella realtà, e sempre più, per quella lor credenza, lo diverranno, sono un’appendice della vita, che esisteva prima di essi, e accanto ad essi continua a fluire per proprio impulso: sono l’eco di una voce già spenta; come popolo sono estranei al popolo originale, e per lui sono stranieri, forestieri. Dalla nazione che, fino ad oggi, si chiama il popolo per eccellenza, i tedeschi, ultimamente, almeno fino ad oggi, è zampillato fuori roba originale e si è rivelata la forza di crear cose nuove. Ed ecco che a questa nazione, una filosofia, cui son cadute le bende, mette avanti uno specchio perché essa riconosca in limpida visione che cosa, senza la sua consapevolezza, abbia fatto di lei la natura, a che cosa la destini. Ed ecco che la si invita a completarsi e, secondo quella limpida visione e con arte meditata e libera, a diventare totalmente quale deve essere, rifacendo le alleanze e chiudendo definitivamente il cerchio dei suoi cittadini. Il principio secondo cui essa deve tracciare i suoi confini e chiudere il cerchio delle genti tedesche le fu tracciato dalla natura: chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi.

 

(Fichte, Discorsi alla Nazione tedesca, VII discorso)