Kelsen, Diritto e giustizia

La giustizia è la dimensione morale del diritto. Essa è l’“idea” platonica o la “cosa in sé” kantiana nel campo del diritto.

 

H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Wien, 1934; trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Einaudi, Torino 1967, pagg. 57-58

 

Come categoria morale, il diritto non significa altro che “giustizia”. Questa è semplicemente l’espressione dell’ordinamento sociale giusto, d’un ordinamento che raggiunge completamente il suo scopo in quanto soddisfa tutti. La tendenza verso la giustizia psicologicamente considerata è la tendenza eterna dell’uomo alla felicità che egli non può trovare come individuo e che per ciò ricerca nella società. La felicità sociale si chiama giustizia.

In verità tale parola è anche usata nel senso di positiva conformità col diritto e particolarmente di legalità. In questo senso appare “ingiusto” il fatto che una norma generale venga applicata in un caso e non invece in un altro che tuttavia è considerato analogo; e questo fatto appare “ingiusto” prescindendo dal valore della norma generale stessa. Secondo questo modo di dire, il giudizio di giustizia esprime soltanto il valore relativo della conformità con la norma. “Giusto” è qui soltanto una parola diversa per dire “legale”.

“Giustizia” nel significato che le è proprio e che la differenzia dal diritto esprime però un valore assoluto. Il suo contenuto non può essere determinato dalla dottrina pura del diritto. Anzi, esso non è in alcun modo determinabile dalla conoscenza razionale, e ciò è ben dimostrato dalla storia dello spirito umano che da millenni si sforza inutilmente di risolvere questo problema. Infatti la giustizia, che deve essere rappresentata come un ordinamento superiore che sta di fronte al diritto positivo e che è diverso da questo, nella sua validità assoluta sta al di là della realtà o come la cosa in sé trascendente sta al di là dei fenomeni. Il dualismo di giustizia e diritto ha lo stesso carattere metafisico del dualismo ontologico e come questo, cosí anche quello, ha una duplice funzione a seconda della tendenza ottimistica o pessimistica, conservatrice o rivoluzionaria con cui si presenta: secondo che in un caso si affermi che il dato, cioè l’ordinamento dello Stato e della società, coincide con l’ideale o in un altro caso si neghi questa coincidenza dicendo che è in contrasto. Come è impossibile (secondo quanto già si può presupporre) determinare mediante la conoscenza scientifica, cioè per mezzo di una conoscenza razionale orientata verso l’esperienza, l’essenza dell’idea o della cosa in sé, cosí è impossibile rispondere per la stessa via alla domanda: in che cosa consiste la giustizia. Tutti i tentativi di questo tipo hanno condotto finora a formule completamente vuote: “fa’ il bene ed evita il male”, “a ciascuno il suo”, “mantieniti nei giusto mezzo”. Anche l’imperativo categorico è completamente privo di contenuto. Se per la determinazione del dovere come valore assoluto ci si rivolge alla scienza questa non sa dirci altro: tu devi ciò che devi. È questa una tautologia dietro la quale si nasconde in varia forma e in laborioso travisamento il principio logico dell’identità, il giudizio che il buono è buono e non cattivo, che il giusto è giusto e non ingiusto, che a è uguale ad a e non è non a. La giustizia, ideale della volontà e della azione; fatta oggetto di conoscenza, deve trasformarsi inopinatamente nell’idea della verità che trova la sua espressione negativa nel principio di identità. Questo snaturamento del problema è la conseguenza inevitabile della logicizzazione di un oggetto a tutta prima estraneo alla logica.

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. IV, pagg. 113-114