Kierkegaard, Il passaggio dalla morale alla fede

Kierkegaard osserva che Abramo si pone al di sopra dell’etica come insieme di valori a cui tutti fanno riferimento e anche al di sopra del linguaggio, che esiste per esprimere questa dimensione generale che ogni uomo ha in comune con gli altri. Dove egli si pone non può esservi che il silenzio e la solitudine.

 

S. Kierkegaard, Timore e tremore

 

È evidente la differenza che separa l’eroe tragico da Abramo. L’eroe tragico rimane ancora nei confini della morale. Per lui ogni espressione della morale ha il suo télos in una espressione superiore della morale; egli riduce il rapporto morale tra padre e figlio o tra figlio e padre a un sentimento, la cui dialettica si riferisce all’idea di moralità. Non è possibile, quindi, che qui si tratti di una sospensione teleologica della morale, in quanto tale.

Con Abramo, è tutta un’altra cosa. Col suo atto egli ha varcato i confini di tutta la sfera morale. Il suo télos è piú in alto, al di sopra dell’etica; in vista di questo télos egli sospende la morale. Perché vorrei sapere come è possibile ricondurre la sua azione al Generale, e se è possibile scoprire, fra la sua condotta e il Generale, un rapporto qualsiasi che non sia quello di aver oltrepassato questo ultimo. Egli non agisce per salvare un popolo, né per difendere l’idea dello stato, né per placare gli dei irritati. Se fosse possibile parlare del corruccio della divinità, quella collera si rivolgerebbe solo contro Abramo, il cui comportamento è tanto strettamente privato e tanto estraneo al Generale. Cosí mentre l’eroe tragico è grande per la sua virtú morale, Abramo lo è per una virtú affatto personale. Nella sua vita la morale non trova espressione piú elevata di questa: il padre deve amare suo figlio. Se nella condotta di Abramo vi fosse traccia del Generale, ciò sarebbe concentrato in Isacco e come nascosto nei suoi fianchi, e griderebbe allora per bocca sua: “Non lo fare, tu distruggi tutto!”.

Perché dunque Abramo lo fa? Per volontà, di Dio, come anche, in modo assolutamente identico, per volontà propria. Egli lo fa per volontà di Dio, perché Dio esige questa prova dalla sua fede, e per volontà propria, per poterla fornire, quella prova. L’unità di questa doppia situazione è ben indicata dalla parola che l’ha sempre designata: è una prova, una tentazione. Ma che cosa vuol dire una tentazione? Vuol dire qualcosa che pretende, di solito, distogliere l’uomo dal suo dovere. Ma qui essa è la moralità stessa, vogliosa di impedire ad Abramo di compiere la volontà di Dio. Che cos’è allora il dovere? L’espressione della volontà di Dio.

A questo punto, se si vuol comprendere Abramo, appare la necessità di una nuova categoria. Il paganesimo ignora questo genere di rapporto con la divinità; l’eroe tragico non entra in relazione privata con essa. Per lui la morale è il divino, onde il paradosso lo riconduce al Generale per via di mediazione.

Abramo si rifiuta alla mediazione. In altri termini: non può parlare. Dal momento in cui parlo, io esprimo il Generale e, se taccio, nessuno può comprendermi. Se Abramo vuol esprimersi nel Generale, deve dire che la sua situazione è quella del dubbio religioso; perché non c’è nessuna espressione piú alta, ricavata dal Generale, che sia al di sopra del Generale che egli trasgredisce.

Perciò egli mi spaventa, pur suscitando la mia ammirazione. Chi rinnega se stesso e si sacrifica al dovere, rinuncia al finito per afferrare l’infinito. E va con sicurezza. L’eroe tragico rinuncia al certo per il piú certo e lo sguardo di chi lo contempla si posa fiducioso su di lui. Ma colui che rinuncia al Generale per afferrare una cosa piú elevata che non è il Generale, che cosa fa mai? E se non fosse altro che una crisi? E se la cosa è possibile, ma l’individuo si inganna, che salvezza ci può essere per lui? Egli soffre tutto il dolore dell’eroe tragico, annienta la sua gioia terrestre, rinuncia a tutto, e, forse nel medesimo istante, si chiude la via della gioia sublime, tanto preziosa ai suoi occhi da averla voluta conquistare ad ogni prezzo. Lo spettatore non può assolutamente comprenderlo, né contemplarlo con fiducia. Forse ciò che è nelle intenzioni dell’uomo di fede non può essere compiuto, perché non può essere concepito. E se pur è eseguibile, ma l’Individuo si inganna, sulla volontà divina, che salvezza gli rimane? L’eroe tragico ha bisogno di lacrime e reclama le lacrime. E quale uomo che contemplasse Agamennone con uno sguardo d’invidia avrebbe gli occhi asciutti e potrebbe non piangere con lui? Ma quale anima potrebb’essere tanto disviata da osar piangere con Abramo? L’eroe tragico compie il suo atto in un preciso momento del tempo; ma con la sua azione, egli vive e compie nelle generazioni future un azione non meno grande: visita l’anima piegata sotto la tristezza, colui il cui petto oppresso non può respirare né soffocare per i sospiri, nel turbamento dei suoi pensieri nutriti di lacrime; si mostra a costui, strappa il triste sortilegio, scioglie i legami, asciuga le lacrime; perché l’oppresso dimentica le proprie sofferenze in quelle dell’eroe. Non è possibile piangere su Abramo. Ci si avvicina a lui con un horror religiosus, come Israele si avvicina al Sinai.

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pagg. 1291-1292