KANT, CRITICA DI OGNI TEOLOGIA FONDATA SU PRINCIPI SPECULATIVI DELLA RAGIONE

 

Se per teologia intendo la conoscenza dell'Essere originario, essa è fondata o sulla pura ragione (theologia rationalis) o su una rivelazione (revelata). La prima concepisce il suo oggetto o semplicemente con la ragion pura, mediante meri concetti trascendentali (ens originarium realissimum, ens entium), e dicesi teologia trascendentale; ovvero, mediante un concetto, che essa ricava dalla natura (della nostra anima), con la suprema intelligenza, e dovrebbe dirsi teologia naturale. Chi ammette soltanto una teologia trascendentale è detto deista; chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette che in ogni caso noi possiamo conoscere con la semplice ragione l'esistenza di un Essere originario, di cui per altro il nostro concetto è semplicemente trascendentale, cioè solo di un essere, che ha ogni realtà, ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma, che la ragione è in grado di poter determinare di più l'oggetto secondo l'analogia con la natura, ossia come un essere che per intelletto e libertà contenga in sé il primo principio di tutte le altre cose. Quello si rappresenta, dunque, in tale essere solo una causa del mondo (senza dire se mediante la necessità della sua natura, o mediante la libertà); questo, un creatore del mondo.

 

La teologia trascendentale o intende di dedurre l'esistenza dell'essere originario da un'esperienza in generale (senza determinare nulla di più intorno al mondo a cui essa appartiene), e si dice cosmoteologia; o crede di conoscere la sua esistenza mediante semplici concetti, senza il soccorso della minima esperienza, e vien detta ontoteologia. La teologia naturale conclude agli attributi e all'esistenza di un Creatore del mondo movendo dalla costituzione, ordine e unità, che si dà in esso mondo, in cui bisogna ammettere due specie di causalità, e la loro regola, ossia natura e libertà. Quindi da questo mondo sale all'intelligenza suprema, ? come principio di ogni ordine e perfezione naturale, ? come principio di ogni ordine e perfezione mortale. Nel primo caso si dice teologia fisica, nel secondo teologia morale.

 

Poiché per il concetto di Dio si è abituati a intendere non semplicemente, presso a poco, una natura eterna ciecamente agente come radice di tutte le cose, ma un Essere supremo che mediante intelletto e libertà dev'essere il creatore delle cose, e poiché anche soltanto questo concetto ci interessa, a rigore al deista si potrebbe negare ogni fede in Dio, e lasciargli unicamente l'affermazione di un essere originario ? di una causa suprema. Intanto, poiché nessuno, pel solo fatto che non crede di poter affermare qualche cosa, può esser accusato di volerla negare, così è più discreto e più giusto dire: il deista crede in un Dio, ma il teista crede in un Dio vivente (summa intelligentia). Ora indagheremo le possibili fonti di tutti questi tentativi della ragione.

 

Io mi contento qui di definire la conoscenza teoretica come una conoscenza per cui conosco ciò che esiste; la conoscenza pratica invece come quella, onde io mi rappresento ciò che deve esistere. Secondo tale distinzione, l'uso teoretico della ragione è quello, per cui io conosco a priori ciò che è; il pratico, invece, quello per cui si conosce a priori ciò che deve accadere. Ora, se è indubbiamente certo, ma pur nondimeno soltanto condizionato, che qualcosa è ? deve essere, una certa condizione determinata ? può tuttavia essere per ciò assolutamente necessaria, ovvero può esser presupposta soltanto come arbitraria e contingente. Nel primo caso la condizione è postulata (per thesin), nel secondo supposta (per hypothesin). Poiché ci sono leggi pratiche che sono assolutamente necessarie (quelle morali), se queste presuppongono necessariamente un'esistenza come condizione della possibilità della loro forza obbligatoria, questa esistenza deve esser postulata, per la ragione che il condizionato, da cui il ragionamento va a questa condizione determinata, è esso stesso conosciuto a priori come assolutamente necessario. Noi mostreremo altra volta, per le leggi morali, che esse non presuppongono soltanto, ma anche, poiché, d'altra parte, sono assolutamente necessarie, postulano a ragione, ma certo solo praticamente, l'esistenza di un Essere supremo: per ora mettiamo tuttavia da parte questa deduzione. Poiché, se si parla solamente di ciò che è (non di ciò che dev'essere), il condizionato, che ci è dato nell'esperienza, è sempre pensato anche come contingente, la condizione rispettiva non può quindi esser riconosciuta come assolutamente necessaria, ma serve solo come una ipotesi relativamente necessaria ? piuttosto occorrente, benché in se stessa e a priori arbitraria, per la conoscenza razionale del condizionato. Se, dunque, nella conoscenza teoretica, deve essere conosciuta la necessità assoluta di una cosa, questo potrà solo accadere per concetti a priori, ma giammai come necessità di una causa in rapporto a un'esistenza data dalla esperienza. Una conoscenza teoretica è speculativa se si riferisce a un oggetto, ? a tal concetto di un oggetto, a cui non si può giungere in veruna esperienza. Essa è contrapposta alla conoscenza naturale, che non si riferisce ad altri oggetti ? predicati da quelli che possono esser dati in una esperienza possibile. Il principio, per cui da ciò che accade (dal contingente empirico), come da effetto, si conchiude ad una causa, è un principio della conoscenza naturale, ma non della speculativa. Se, infatti, si astrae da esso in quanto principio contenente la condizione dell'esperienza possibile in generale, e, tralasciando ogni elemento empirico, lo si vuole enunciare del contingente in generale, non si ha più la meno-ma giustificazione di una proposizione sintetica come questa, per indi vedere come io da ciò che esiste possa passare a qualcosa di affatto diverso (che si dice causa); anzi, il concetto di una causa, come quello di contingente, in tale uso semplicemente speculativo perde ogni significato, la cui realtà oggettiva possa indicarsi in concreto.

 

Ora, se dall'esistenza delle cose del mondo si conchiude alla loro causa, questo non appartiene all'uso naturale, bensì all'uso speculativo della ragione: perché il primo non riferisce a qualche causa le cose stesse (sostanza), ma soltanto quel che accade, ossia i loro stati, in quanto empiricamente contingenti; laddove, che la sostanza stessa (la materia), sia, quanto alla esistenza, contingente, dovrebbe essere una conoscenza speculativa della ragione. Ma se anche si trattasse solo della forma del mondo, della specie del suo rapporto e del suo cangiamento, e io volessi conchiudere da ciò a una causa distinta interamente dal mondo; questo, da capo, sarebbe un giudizio della mera ragione speculativa, perché l'oggetto, qui, non è punto oggetto d'una esperienza possibile. Ma allora il principio di causalità, che non vale se non dentro il campo dell'esperienza, e fuori di questo è senza uso, anzi senza significato, sarebbe affatto distolto dalla sua destinazione.

 

Ora, io affermo che tutti i tentativi di un uso meramente speculativo della ragione rispetto alla teologia sono affatto infecondi e per la loro intima natura nulli e vani; ma che i princìpi del suo uso naturale non conducono per nulla a una teologia, e che pertanto, se non si mettono a fondamento ? non si prendono a guida leggi morali, non è possibile che ci sia mai una teologia della ragione. Tutti, infatti, i princìpi sintetici della ragion pura sono di uso immanente; ma alla conoscenza di un Essere supremo si richiede un uso trascendente di essi, al quale il nostro intelletto non è punto attrezzato. Se dovesse condurci all'Essere originario la legge, di valore empirico, della causalità, anche quest'Essere dovrebbe rientrare nella catena degli oggetti dell'esperienza; ma allora, come tutti i fenomeni, sarebbe esso stesso, a sua volta condizionato. Che, se anche fosse concesso il salto al di là dei limiti dell'esperienza mediante la legge dinamica del rapporto degli effetti con le loro cause; qual concetto potrebbe darci questo procedimento? Non certo un concetto di un Essere supremo, poiché l'esperienza non ci offre mai il massimo tra tutti gli effetti possibili (come quello che dee render testimonianza della sua causa). Che se ci è permesso, per non lasciare nessun vuoto nella nostra ragione, riempire questa lacuna della completa determinazione mediante la semplice idea della somma perfezione e della originaria necessità, questo può bensì esser concesso per favore, ma non si può domandarlo per diritto di una prova incontrastabile. La prova fisico-teologica, dunque, potrebbe forse confermare magari le altre prove (se ce ne sono), unendo la speculazione con l'intuizione; ma, per se stessa, essa piuttosto prepara l'intelletto alla conoscenza teologica, e gli dà per ciò una retta e naturale direzio ne, anzi che poter da sé adempiere a un tale ufficio. Di qui ben si vede che le questioni trascendentali non consentono se non risposte trascendentali, ossia fondate su meri concetti a priori, senza la minima mescolanza empirica. Ma qui la questione evidentemente è sintetica, e richiede un estendimento della nostra conoscenza al di là dei limiti dell'esperienza, fin all'esistenza di un essere, che deve corrispondere alla nostra semplice idea, a cui nessuna esperienza può riuscire mai adeguata. Ora, secondo le nostre antecedenti dimostrazioni, ogni conoscenza sintetica a priori non è possibile se non in quanto essa esprime le condizioni formali di una esperienza possibile, e tutti i princìpi son dunque soltanto di valore immanente, cioè si riferiscono unicamente ad oggetti della conoscenza empirica ? fenomeni. Di guisa che né anche per via del progresso trascendentale si conchiude nulla allo scopo della teologia di una ragione semplicemente speculativa.

 

Che se si preferisce mettere in dubbio tutte le antecedenti dimostrazioni dell'Analitica, anzi che lasciarsi strappare la convinzione del valore degli argomenti che per tanto tempo si sono usati, non si potrebbe per altro ricusarsi a satisfare la mia esigenza, quando io domando che mi si giustifichi almeno questo: come e per quale illuminazione si crede di poter sorvolare su ogni esperienza possibile in forza di semplici idee. Io pregherei che mi si dispensasse da novelle prove ? da rielaborazione delle antiche. Perché, quantunque qui, in verità, non si abbia precisamente molto da scegliere, in quanto che, alla fine, tutte le prove speculative si riducono semplicemente a una sola, l'ontologica, e però io non abbia certo da temere d'essere importunato troppo dalla fecondità dei dominatici propugna tori di quella ragione libera da' sensi; quantunque, inoltre, senza credermi per questo troppo bellicoso, io non voglia ricusare la sfida di scoprire in ogni tentativo di questa sorta l'errore logico che vi si annida e frustare così la sua pretensione; pure la speranza di miglior fortuna non è perciò distrutta mai completamente in coloro, che si siano una volta abituati a convinzioni dogmatiche; e quindi me ne sto alla sola equa pretesa, che si giustifichi in modo generale e con la natura dell'intelletto umano, nonché di tutte le altre fonti di conoscenza, come altri voglia mettersi ad estendere del tutto a priori la propria conoscenza e spingerla al punto, a cui nessuna esperienza possibile è più sufficiente, e però nessun mezzo rimane per assicurare a un concetto escogitato da noi stessi la sua realtà oggettiva. Comunque l'intelletto possa esser pervenuto a questo concetto, l'esistenza tuttavia del suo oggetto non potrà esser trovata nello stesso concetto analiticamente, perché la conoscenza dell' esistenza di un oggetto appunto in questo consiste, che esso è posto fuori del pensiero, in se stesso. Ma è affatto impossibile uscir da sé da un concetto, e, senza seguire la connessione empirica (onde, per altro, son sempre dati soltanto fenomeni) giungere alla scoperta di nuovi oggetti e di esseri trascendenti.

 

Ma, benché nel suo uso semplicemente speculativo la ragione resti a gran pezza inferiore a questo suo sì grande disegno, di giungere cioè all'esistenza di un Essere supremo, essa nondimeno ha il vantaggio grandissimo di rettificare la conoscenza di esso, nel caso che ella possa essere attinta d'altronde, di metterla d'accordo seco stessa e con tutte le concezioni intelligibili, e di purificarla da tutto ciò che potrebbe essere contrario al concetto di un Essere originario, e da ogni miscuglio di limitazioni empiriche. La teologia trascendentale pertanto, nonostante la sua insufficienza, resta tuttavia di un uso negativo importante, ed è una costante censura della nostra ragione, se questa ha da fare semplicemente con idee pure, che appunto perciò non ammettono altra misura che la trascendentale. Giacché, se mai sotto altro rapporto, poniamo sotto quello pratico, il presupposto di un Essere supremo e a tutto sufficiente affermasse la sua validità senza contraddizione, allora sarebbe della maggiore importanza determinare esattamente, dal lato trascendentale, questo come il concetto di un Essere necessario e realissimo, e scartarne tutto ciò che ripugna alla suprema realtà, e che appartiene al fenomeno (all'antropomorfismo nel senso più largo), e sgombrare insieme tutte le affermazioni opposte, siano esse ateistiche, deistiche o antropomorfistiche; ciò che è ben facile in una tale trattazione critica, in quanto i princìpi stessi, onde è messa sott'occhio l'impotenza della ragione umana rispetto all'affermazione della esistenza di un tale Essere, bastano di necessità anche a dimostrare l'impossibilità di ogni affermazione contraria. Giacché come si vuole, con la pura speculazione della ragione, arrivare a conoscere che non c'è un Essere supremo, primo principio di tutto, o che ad esso non conviene nessuna delle proprietà, che, pei loro effetti, ci rappresentiamo come analoghe alle realtà dinamiche di un essere pensante, o che, nell'ultimo caso, dovrebbero essere anche soggette a tutte le limitazioni che il senso inevitabilmente impone alle intelligenze che conosciamo per esperienza?

 

L'essere supremo resta dunque per l'uso semplicemente speculativo della ragione un semplice, ma perfetto ideale, un concetto, che chiude e corona la conoscenza umana intera, e la cui realtà oggettiva, è vero, non è dimostrata, ma non può né anche esser contrastata; e se ci ha da esser una teologia morale, in grado di supplire a questo difetto, allora la teologia trascendentale, prima solo problematica, dimostra la sua indispensabilità, per la determinazione del suo concetto e per l'incessante censura d'una ragione molto spesso ingannata dal senso, e non sempre d'accordo con le sue proprie idee. La necessità, l'infinità, l'unità, l'esistenza fuori del mondo (non come anima del mondo), l'eternità senza le condizioni del tempo, l'onnipresenza senza le condizioni dello spazio, l'onnipotenza, e così via, sono meri predicati trascendentali; e quindi il concetto purificato di essi, onde ogni teologia ha tanto bisogno, può esser solo preso dalla teologia trascendentale.

 

(Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 400-406)