KANT, CONTRO LEIBNIZ E LOCKE


I concetti possiamo paragonarli logicamente, senza curarci punto di sapere a che luogo appartengono i loro oggetti, se cioè sieno noumeni per l'intelletto o fenomeni per la sensibilità. Ma, se noi con questi concetti vogliamo arrivare agli oggetti, è necessaria prima di tutto una riflessione trascendentale, per sapere la facoltà conoscitiva di cui devono essere oggetti, se l'intelletto puro o la sensibilità. Senza la quale riflessione io faccio un uso troppo insicuro di questi concetti, e ne vengon fuori tanti pretesi princìpi sintetici che la ragione critica non può riconoscere, e che si fondano unicamente su una anfibolia trascendentale, cioè su uno scambio dell'oggetto puro dell'intelletto col fenomeno. In mancanza di una tale topica trascendentale, e sviato quindi dalla anfibolia dei concetti della riflessione, il celebre Leibniz costruì un sistema intellettuale del mondo, ossia credette di conoscere addirittura l'interna natura delle cose, confrontando tutti gli oggetti solo con l'intelletto e con i concetti formali astratti del suo pensiero. La nostra tabella dei concetti della riflessione ci offre l'inaspettato vantaggio di metterci sott'occhio i caratteri distintivi della dottrina di lui in tutte le sue parti, e insieme il principio direttivo di questa sua peculiar maniera di pensare, il quale non poggiava se non su un malinteso. Egli confrontò tutte le cose fra di loro semplicemente mediante concetti, e trovò, come era naturale, che non c'erano differenze, tranne quelle per cui l'intelletto distingue l'uno dall'altro i suoi concetti puri.

 

Le condizioni della intuizione sensibile, che portano in sé la loro special differenza, egli non le considerò come originarie; poiché la sensibilità era per lui soltanto una specie di rappresentazione confusa, e non già una fonte speciale di rappresentazioni; il fenomeno per lui era la rappresentazione della cosa in sé, rappresentazione, sia pure, differente per forma logica dalla conoscenza per mezzo dell'intelletto, poiché quello, nel suo solito difetto di analisi, porta nel concetto della cosa una certa mescolanza di rappresentazioni accessorie, che l'intelletto poi sa eliminare. In una parola: Leibniz intellettualizzò i fenomeni, come Locke, col suo sistema di noogonia (se m'è lecito servirmi di questa espressione), aveva sensibilizzato tutti i concetti dell'intelletto, riducendoli a nient'altro che a concetti empirici o astratti della riflessione. Invece di cercare nell'intelletto e nel senso due fonti affatto diverse di rappresentazioni, ma che soltanto nella loro unione possono giudicare in maniera oggettivamente valida delle cose, ciascuno di questi grandi uomini si attenne soltanto a quella di esse, che a suo avviso si riferiva immediatamente alle cose in sé, laddove l'altra non faceva che confondere o ordinare le rappresentazioni della prima. Leibniz intanto confrontò fra loro semplicemente nell'intelletto gli oggetti dei sensi come cose in generale. In primo luogo, in quanto essi da questo devono esser giudicati come identici o come diversi. Poiché dunque egli aveva innanzi agli occhi unicamente i loro concetti, e non i rispettivi posti nell'intuizione, dove soltanto gli oggetti possono esser dati, e trascurava del tutto il luogo trascendentale di cotesti concetti (se l'oggetto sia da annoverare tra i fenomeni, o tra le cose in sé); egli non poteva non riuscire al risultato di estendere il suo principio degli indiscernibili, che vale unicamente dei concetti delle cose in generale, anche agli oggetti dei sensi (mundus phaenomenon) e non credere di aver cosi prodotto una non piccola dilatazione della conoscenza della natura. Certo, se io conosco una goccia d'acqua in tutte le sue determinazioni intrinseche, come cosa in sé, non posso ammettere che essa sia differente da un'altra, se l'intero concetto di questa sia identico a quello della prima. Ma, se essa è un fenomeno nello spazio, non ha più il suo luogo semplicemente nell'intelletto (tra i concetti), bensì nell'intuizione esterna sensibile (nello spazio); e quivi i luoghi fisici rispetto alle determinazioni intrinseche delle cose sono affatto indifferenti, e un luogo = b può accogliere una cosa, tanto nel caso che essa sia perfettamente simile ed eguale ad un'altra che è nel luogo = a, quanto nel caso che ne sia intrinsecamente assai diversa. La differenza di luogo, senza altre condizioni, già per sé rende non solo possibile, ma anche necessaria la molteplicità e distinzione degli oggetti come fenomeni. Quella apparente legge dunque non è una legge della natura. Essa è unicamente una regola analitica, o paragone delle cose per via di semplici concetti. In secondo luogo, il principio, che i reali (come semplici affermazioni) non sono mai tra loro logicamente opposti, è una proposizione verissima rispetto al rapporto dei concetti, ma non ha nessun significato rispetto alla natura, né rispetto a una qualunque cosa in sé (di cui non possediamo verun concetto). Infatti, l'opposizione reale, ha luogo dovunque A - B = 0, ossia dove un reale, unito con un altro in un soggetto, annulla l'effetto dell'altro: ciò che ci mettono continuamente sott'occhio tutti gli ostacoli e le reazioni della natura, che intanto, poiché dipendono da forze, devono esser dette realitates phaenomena. La meccanica generale può perfino indicare la condizione empirica di tale opposizione in una legge a priori, prendendo il caso della opposizione delle direzioni: condizione, di cui il concetto trascendentale di reale non sa nulla. Quantunque il signor von Leibniz non abbia per l'appunto enunciato questa proposizione con la solennità di un principio nuovo, egli si serviva tuttavia di essa per nuove affermazioni, e i suoi seguaci la misero espressamente nel loro sistema leibnizio-wolffiano. Secondo questo principio, per esempio, tutti i mali non sono se non conseguenza dei limiti delle creature, cioè negazioni, poiché queste sono l'unica cosa che si opponga alla realtà (ed è realmente così nel semplice concetto di una cosa in generale, ma non nelle cose come fenomeni). Parimenti, i seguaci di lui trovano non pure possibile, ma anche naturale, di riunire in un Ente tutte le realtà senza darsi pensiero d'alcuna opposizione, poiché essi non ne conoscono alcun'altra all'infuori della contraddizione (per cui il concetto stesso di una cosa viene annullato), ma non quella del reciproco annullamento, per cui un principio reale annulla l'effetto dell'altro, e per cui soltanto nella sensibilità incontriamo le condizioni per rappresentarla.

 

In terzo luogo, la monadologia leibniziana non ha altro principio che questo: che questo filosofo si rappresentava la differenza dell'interno ed esterno semplicemente in relazione all'intelletto. Le sostanze in generale devono avere qualcosa d'interno, e però scevro da tutte le relazioni esterne, e, per conseguenza, anche dalla composizione. Il semplice è dunque il fondamento dell'interno delle cose in sé. Ma l'interno del loro stato non può né anche consistere nel luogo, nella forma, nel contatto o nel movimento (determinazioni che sono tutte relazioni esterne); e quindi non possiamo attribuire alle sostanze altro stato interno che quello, onde noi determiniamo internamente il nostro senso stesso, cioè lo stato delle rappresentazioni. Così infatti sorsero le monadi, che debbono formare gli elementi costitutivi di tutto l'universo, ma la cui forza attiva consiste in rappresentazioni, con cui esse propriamente non operano se non in se stesse.

 

Ma appunto perciò anche il suo principio della possibile reciprocità d'azione delle sostanze tra loro doveva essere un'armonia prestabilita, e non poteva essere un influsso fisico. Infatti, poiché ogni cosa ha che fare soltanto col proprio interno, ossia con le sue rappresentazioni, lo stato delle rappresentazioni d'una sostanza non poteva stare in nessunissimo rapporto attivo con quello di un'altra sostanza, ma ci voleva una terza causa, operante in comune su tutte, a mettere in corrispondenza l'un con l'altro i loro stati, e non per una assistenza occasionale e arrecata separatamente in ciascun caso particolare (systema assistentiae), bensì per l'unità dell'idea di una causa valida per tutti i casi, in cui le sostanze dovessero ricevere tutte la loro esistenza e permanenza, e quindi anche la loro mutua corrispondenza secondo leggi generali.

 

In quarto luogo, la sua famosa dottrina del tempo e dello spazio, in cui egli intellettualizzò queste forme della sensibilità, era derivata unicamente dalla stessa illusione appunto della riflessione trascendentale. Se io mi voglio, per mezzo del semplice intelletto, rappresentare le relazioni esterne delle cose, ciò può aver luogo soltanto mediante un concetto della loro azione reciproca; e se io debbo collegare uno stato con un altro stato appunto della stessa cosa, ciò può avvenire soltanto nell'ordine dei principi e delle conseguenze. Così dunque Leibniz concepì lo spazio come un certo ordine nell'azione reciproca delle sostanze, e il tempo come la conseguenza dinamica dei loro stati. Ma ciò che l'uno e l'altro paiono avere di peculiare e d'indipendente dalle cose, ei lo ascrisse alla confusione di questi concetti, che faceva sì che quella che è una semplice forma delle relazioni dinamiche, fosse considerata come un'intuizione speciale, per sé stante e antecedente alle cose stesse. Lo spazio e il tempo erano dunque la forma intelligibile dell'unione delle cose in sé (sostanze e loro stati). Ma le cose erano sostanze intelligibili (substantìae noumeno). Nondimeno egli volle far valere questi concetti come fenomeni, poiché non ammetteva per la sensibilità un modo proprio d'intuizione, ma ogni rappresentazione, anche empirica, degli oggetti, la cercava nell'intelletto e ai sensi non lasciava se non il vile ufficio di confondere e deformare le rappresentazioni di quello.

 

Ma se noi, per mezzo dell'intelletto puro, potessimo dire qualcosa di sintetico anche di cose in sé (ciò che peraltro è impossibile), non potrebbe certo tuttavia riferirsi ai fenomeni, che non rappresentano cose in sé. Io dunque in quest'ultimo caso dovrò nella riflessione trascendentale raffrontare i miei concetti sempre soltanto nelle condizioni della sensibilità, e così lo spazio e il tempo non saranno determinazioni delle cose in sé, ma dei fenomeni: e ciò che possono essere le cose in sé, io non lo so, e non mi serve di saperlo, perché una cosa non mi si può presentare mai se non nel fenomeno.

 

Altrettanto osservo anche degli altri concetti della riflessione. La materia è substantìa phaenomenon. Ciò che le appartiene internamente, io lo cerco in tutte le parti dello spazio che essa occupa, e in tutte le azioni che esercita, e che naturalmente non possono esser mai se non fenomeni dei sensi esterni. Io dunque non ho niente di assolutamente interno, ma qualcosa di interno ho solo in un senso meramente relativo, che, esso stesso, a sua volta, consta di relazioni esterne. Se non che, l'assolutamente interno, secondo l'intelletto puro, della materia è anche una semplice fantasia: perché essa non è mai un oggetto per l'intelletto puro; che anzi l'oggetto trascendentale, il quale può esser principio di questo fenomeno che diciamo materia, è un semplice quid, di cui non intenderemmo mai che cosa sia, quand'anche uno potesse dircelo. Noi infatti non possiamo capire se non quello che importa nell'intuizione qualcosa corrispondente alle nostre parole. Se i nostri lamenti che noi non scorgia mo punto l'interno delle cose, devono significare che noi non concepiamo, mediante l'intelletto puro, quello che le cose che ci appaiono possono essere in sé, essi sono al tutto ingiusti ed irragionevoli; perché pretendono che senza i sensi si conoscano tuttavia le cose, e si possa quindi intuirle, e per conseguenza che noi si abbia una facoltà conoscitiva affatto diversa, non solo per grado, ma anche per intuizione e per specie da quella dell'uomo; insomma, che si debba essere, non uomini, ma esseri, dei quali noi stessi non possiamo dire se siano mai possibili, e tanto meno come siano costituiti.

 

Nell'interno della natura entra l'osservazione e l'analisi dei fenomeni, e non è dato sapere fino a che punto si giungerà col tempo. Ma quelle questioni trascendentali, che oltrepassano la natura, noi non potremmo con tutto ciò risolverle giammai, quand'anche ci fosse svelata tutta la natura, perché1 non ci è dato mai di osservare il nostro proprio spirito con un'altra intuizione, che non sia quella del nostro senso interno. Infatti, in esso giace il segreto dell'origine della nostra sensibilità. Il suo riferimento a un oggetto, e ciò che sia il principio trascendentale di questa unità, giacciono senza dubbio troppo profondamente nascosti, perché noi, che conosciamo noi stessi soltanto mercé il senso interno, e però come fenomeno, possiamo adoperare uno strumento d'indagine così disadatto a scoprire qualcos'altro che sempre nuovi fenomeni, la cui causa non sensibile noi tuttavia vorremmo ben volentieri indagare. Ciò che questa critica delle conclusioni tratte dalle semplici operazioni della riflessione ci presenta inoltre di utile, è, che essa dimostra all'evidenza la nullità di tutte le conclusioni intorno agli oggetti posti tra loro a confronto puramente nell'ambito dell'intelletto; e conferma insieme quello che noi abbiamo principalmente inculcato: che, sebbene i fenomeni non siano compresi, come cose in sé, tra gli oggetti dell'intelletto puro, essi nondimeno sono i soli, in cui la nostra conoscenza può attingere realtà oggettiva, in cui cioè ai concetti corrisponda un'intuizione.

 

Quando noi riflettiamo solo logicamente, allora noi paragoniamo unicamente i nostri concetti tra loro nell'intelletto, per vedere se i due concetti paragonati hanno proprio lo stesso contenuto, se si contraddicono o no, se qualcosa è compresa internamente nel concetto, o se vi si aggiunge, e quale dei due è dato, quale invece deve considerarsi soltanto come un modo di pensare il dato. Ma, se io applico questi concetti a un oggetto in generale (nel senso trascendentale), senza determinare, inoltre, se esso sia oggetto di intuizione sensibile o intellettuale, ecco subito certe limitazioni (per non uscire da questo concetto), le quali ne rovesciano ogni uso empirico1, e appunto perciò dimostrano che la rappresentazione di un oggetto, come cosa in generale, non è soltanto in qualche modo insufficiente, ma, senza una determinazione sensibile di essa e indipendentemente da condizioni empiriche, in se stessa contraddittoria; che dunque bisogna o astrarre da ogni oggetto (nella logica), o, se se ne ammette uno, pensarlo sotto la condizione dell'intuizione sensibile; che, quindi, l'intelligibile richiederebbe un'intuizione affatto particolare, che non abbiamo, e in mancanza della quale per noi esso non è niente; e che, d'altra parte, né anche i fenomeni possono essere oggetti in sé. Se infatti io penso semplicemente cose in generale, la differenza delle relazioni esterne non può certamente costituire una differenza delle cose stesse, anzi essa piuttosto la presuppone; e se il concetto di una cosa non è punto diverso internamente da quello di un'altra, io non fo altro che mettere una stessa cosa in relazioni diverse. Inoltre, per addizione di una semplice affermazione (realtà) ad un'altra, viene bensì aumentato il positivo, e niente gli è sottratto o tolto; quindi il 1 E stato proposto (Kants., IV, 462) di correggere: "uso non empirico". Ma quel che segue dimostra invece l'esattezza del testo, volendo Kant dire appunto che altrimenti non sarebbe più possibile l'uso empirico di quei concetti, ossia il loro riferimento a un oggetto dell'esperienza; e bisognerebbe quindi astrarre da ogni oggetto dell'esperienza e non ammetterne più nessuno. I concetti della riflessione, come abbiamo mostrato, per una sorta di equivoco esercitano sull'uso dell'intelletto un influsso tale, che sono stati in grado di condurre uno dei più acuti filosofi a un preteso sistema di conoscenza intellettuale, che presume di determinare i suoi oggetti senza il sussidio dei sensi. Appunto perciò la spiegazio ne della causa d'errore dell'anfibolia di questi concetti nel produrre falsi prìncipi, è di grande utilità per determinare in modo attendi bile, e assicurare, i limiti dell'intelletto.

 

Si deve dire per vero, che ciò che conviene o contraddice in generale a un concetto, conviene anche, o contraddice, a ogni particolare che è contenuto sotto quel concetto (dictum de omni et nullo); ma sarebbe assurdo cangiare questo principio logico in quest'altro: ciò che non è contenuto in un concetto generale, non è contenuto neppure nei particolari, che sono ad esso subordinati; giacché questi sono concetti particolari, appunto perché contengono in sé più che non si pensi nel generale. Orbene, il sistema intellettuale di Leibniz è tutto edificato sopra quest'ultimo principio; esso cade quindi insieme con questo, e cade pure ogni ambiguità che ne deriva nell'uso dell'intelletto.

 

II principio degli indiscernibili si fondava propriamente sul presupposto, che se nel concetto di una cosa in generale non si incontra una certa differenza, essa non si incontrerà nemmeno nelle cose stesse; e però saranno assolutamente una sola (numero eadem) tutte le cose, che già nel loro concetto (per qualità o per quantità) non dif feriscano tra loro. Ma, poiché nel semplice concetto di una cosa qualsiasi s'è fatta astrazione di talune condizioni necessarie alla sua intuizione, così, per una singolare precipitazione, si finisce col con siderare ciò da cui si è fatta astrazione, come qualche cosa che non si incontrerà mai in nessuna parte, e col non concedere alla cosa se non ciò che è contenuto nel suo concetto.

 

Il concetto di uno spazio di un piede cubo, lo pensi io dove e quante volte voglia, in sé è affatto identico. Se non che, due piedi cubi nello spazio sono nondimeno, semplicemente per i loro luoghi, differenti (numero diversa); e questi sono condizioni dell'intuizione, in cui l'oggetto di tal concetto vien dato, e che, se non appartengono al concetto, appartengono bensì tuttavia all'intera sensibilità. Conformemente, nel concetto di una cosa non c'è punto contraddizione, quando niente di negativo è unito con un elemento affermativo, e concetti meramente affermativi non possono unendosi far capo a una negazione.

 

(Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 219 e ss.)