Platone, L’Idea di Bene (repubblica)

Platone afferma la necessità di cogliere con il ragionamento l’Idea di Bene, perché essa sta a fondamento della visione intellettuale della realtà, cosí come il Sole sta a fondamento della visione degli enti sensibili. Importante il breve riassunto della dottrina delle Idee (507 b-c). Socrate parla in prima persona; i suoi interlocutori sono Adimanto e Glaucone, fratelli di Platone.

 

Repubblica, 504 e-508 e

 

1      [504 e] Non è ridicolo fare di tutto perché cose da poco siano le piú esatte e pure possibile, e giudicare le maggiori indegne della maggiore esattezza? – Certamente, disse [il concetto è degno]. Ma veniamo a quella che tu dici la massima disciplina e al suo oggetto. Credi che ti si potrà lasciar andare, continuò, senza chiederti che cosa è? – No certamente, feci io, ma chiedilo pure. Comunque ne hai sentito parlare non di rado: adesso o non ci rifletti oppure mediti di crearmi delle [505 a] noie con le tue obiezioni. E inclino piuttosto a questa seconda supposizione, poiché hai sentito dire spesso che oggetto della massima disciplina è l’idea del bene; è da essa che le cose giuste e le altre traggono la loro utilità e il loro vantaggio. E pressappoco tu sai ora che voglio dire questo, e inoltre che di essa non abbiamo una conoscenza adeguata; ma se non ne abbiamo conoscenza, anche ammesso che conoscessimo perfettissimamente tutto il resto senza di questa, vedi bene che non ne ritrarremmo alcun giovamento, come non lo ritrarremmo se possedessimo una cosa senza il bene. [b] Credi che ci sia vantaggio a possedere una qualunque cosa, se non è buona? o a intendere tutto ad eccezione del bene, senza intendere per nulla il bello e il bene? – Per Zeus!, rispose, io no.

2      D’altra parte tu sai anche che per i piú il bene è piacere, ma per i piú raffinati è intelligenza. – Come no? – E che, mio caro, coloro che pensano cosí, non possono spiegare che cosa sia l’intelligenza, ma sono costretti infine a dichiarare che è quella del bene. – Ed è molto ridicolo!, rispose. – Come non può esserlo, feci [c] io, se, mentre ci rimproverano di non conoscere il bene, ce ne parlano come se lo conoscessimo? Dichiarano che è intelligenza del bene, come se noi comprendessimo ciò che intendono dire quando pronunciano il nome del “bene”. – Verissimo, rispose. – E coloro che definiscono bene il piacere? Forse che sbagliano meno degli altri? Non sono costretti anche loro a riconoscere che esistono piaceri cattivi? – Sicuro. – Si trovano dunque a riconoscere, credo, che le identiche cose sono buone e cattive. Non è [d] vero? – Indubbiamente. – E qui non sorgono evidentemente grandi e numerose dispute? – E come no? – Ancora: non è pure evidente che, trattandosi di cose giuste e belle che sono soltanto apparenza senza essere effettivamente tali, molti tuttavia sceglierebbero di farle, di possederle e di far credere di possederle? mentre, se si tratta di beni, nessuno si contenta piú di ottenere i beni apparenti, ma cerca quelli effettivi? e che, in questo àmbito, ognuno non esita a sprezzare l’apparenza? – Certo, rispose. – Ora, l’oggetto che ogni anima persegue e che pone come mèta di tutte le sue azioni, indovinandone [e] l’importanza, ma sempre incerta e incapace di coglierne pienamente l’essenza e di averne una salda fede come ha negli altri oggetti, onde perde anche l’eventuale vantaggio [506 a] di questi, dobbiamo dire che un tale oggetto, tanto importante, deve rimanere ugualmente ignorato anche da quelle eminenti personalità dello stato alle quali rimetteremo ogni cosa? – No, affatto, rispose. – Credo però, continuai, che per le cose giuste e belle, se si ignora in che relazione siano con il bene, sarebbe un guardiano ben scarso chi ignorasse tale relazione. E profetizzo che prima di conoscere questa relazione nessuno le conoscerà bene. – Giusta profezia, rispose. – Godrà dunque [b] di un ordine perfetto la nostra costituzione, se le sovrintende un simile guardiano, che abbia queste conoscenze?

3      Per forza, rispose. Ma tu ora, Socrate, dici che il bene sia scienza o piacere o qualcosa di diverso? – Oh!, caro il mio uomo, replicai, lo sapevo bene, ed era palese da tempo che non ti avrebbe soddisfatto l’opinione degli altri a questo proposito. – Non mi sembra giusto, Socrate, disse, che uno che da tanto tempo si occupa di questi argomenti sappia riportare le opinioni altrui e la [c] propria no. – E ti sembra giusto, feci io, che uno parli delle cose che non sa come se le sapesse? – Come se le sapesse, rispose, no, affatto. È giusto però voler parlare da uomo veramente convinto della sua opinione. – E non ti sei accorto, continuai, che le opinioni non accompagnate dalla scienza sono tutte brutte? Di esse le migliori sono cieche. Ti sembra che coloro che hanno una vera opinione su qualcosa, ma sono sprovvisti di intelletto, presentino qualche differenza da ciechi che camminano dritto per una strada? – Nessuna differenza, rispose. Vuoi dunque contemplare cose brutte, cieche e storte, quando ti è possibile sentirne da altri di splendide e belle? – No, per Zeus!, Socrate, fece Glaucone, non ritirarti come se fossi alla fine. Noi ci sentiremo soddisfatti se tratterai del bene allo stesso modo con cui hai trattato della giustizia, della temperanza e delle altre virtú. – Anch'io, risposi, mio caro amico, ne sarò molto soddisfatto, ma temo che non ci riuscirò e che, pur mettendocela tutta, farò una brutta figura e mi esporrò allo scherno. Su, benedetti [e] amici, lasciamo stare per il momento che cosa sia mai il bene in sé: mi sembra una cosa troppo alta perché possiamo raggiungere ora, con lo slancio presente, il concetto che ne ho io. Invece voglio dire, se ne siete contenti pure voi, quello che sembra la prole del bene, cui molto somiglia. Se però non ne siete contenti, lasciamolo perdere. – Su, dillo!, fece. Pagherai il tuo debito un'altra volta, [507 a] spiegandoci che cosa è il padre. - Vorrei poter pagarvelo, risposi, e che voi poteste riscuoterlo tutto, anziché, come adesso, i soli frutti. Prendetevi dunque questo frutto e la prole del bene in sé. State però attenti che, senza volere, in qualche modo non vi imbrogli, rendendovi falsificato il computo del frutto. - Staremo attenti, rispose, come potremo. Ma tu limitati a parlare. - Lo farò, dissi, soltanto quando mi sarò messo d'accordo con voi e vi avrò fatto ricordare quello che s'è detto prima e quello che già s'è detto piú volte in altre occasioni. - Che cosa?, [b] chiese. – Noi affermiamo che ci sono molte cose belle, e belle le definiamo col nostro discorso; e diciamo che ci sono molte cose buone e cosí via. – Lo affermiamo. – E poi anche che esistono il bello in sé e il bene in sé; e cosí tutte le cose che allora consideravamo molte, ora invece le consideriamo ciascuna in rapporto a una idea, che diciamo una, e ciascuna chiamiamo “ciò che è”. – È cosí. – E diciamo che quelle molte cose si vedono, ma non si colgono con l’intelletto, e che le idee invece si colgono con l’intelletto, ma non si vedono. – Senza [c] dubbio. – Ora, qual è in noi l’organo che ci fa vedere le cose visibili? – La vista, rispose. – E, continuai, non è l’udito che ci fa udire le cose udibili? e non sono gli altri sensi a farci sentire tutte le cose sensibili? – Sicuramente. – Ora, hai riflettuto, feci io, quanto maggiore pregio l’artefice dei sensi abbia voluto conferire a quello di vedere e di essere visti? – No proprio, rispose. – Ma esamina la cosa in questo modo. L’udito e la voce richiedono il concorso di un elemento diverso, il primo per udire, la seconda per essere udita? – E se questo [d] terzo elemento non è presente, forse che l’uno non udrà e l’altra non sarà udita? – Non richiedono il concorso di nulla, rispose. – E, credo, feci io, nemmeno molte altre facoltà, per non dire nessuna, richiedono alcunché di simile. O ne puoi citare qualcuna? – Io no, rispose. – Ma non pensi che lo richiede la facoltà della vista e del visibile? – Come? – Ammettiamo che negli occhi abbia sede la vista e che chi la possiede cominci a servirsene, e che in essi si trovi il colore. Ma se non è presente un terzo elemento, che la natura riserva proprio a questo [e] cómpito, tu ti rendi conto che la vista non vedrà nulla e che i colori resteranno invisibili. – Qual è questo elemento di cui parli? – Quello, risposi, che tu chiami luce. – Dici la verità, ammise. – Di una specie non insignificante sono dunque il senso della vista e la facoltà [508 a] di essere veduti, se sono stati congiunti con un legame piú prezioso di quello che tiene insieme le altre combinazioni, a meno che non sia cosa spregevole la luce. – Spregevole?, disse. Tutt’altro!

4      – A quale dunque tra gli dèi del cielo puoi attribuire questo potere? un dio la cui luce permette alla nostra vista di vedere nel miglior modo e alle cose visibili di farsi vedere? – Quello, rispose, che tu e gli altri riconoscete: è chiaro che la tua domanda si riferisce al sole. – Ora, il rapporto tra la vista e questo dio non è per natura cosí? – Come? – La vista, né come facoltà in se stessa né come organo in cui ha sede e che chiamiamo [b] occhio, non è il sole. – No, certamente, – Eppure, a mio parere, tra gli organi dei sensi è quello che piú ricorda nell’aspetto il sole. – Sí, certo. – E la facoltà di cui dispone non l’ha perché dispensata dal sole, come un fluido che filtra in essa? – Senza dubbio. – E non è vero anche che il sole non è la vista, ma, essendone causa, è da essa stessa veduto? – È cosí, ammise. – Puoi dir dunque, feci io, che io chiamo il sole prole [c] del bene, generato dal bene a propria immagine. Ciò che nel mondo intelligibile il bene è rispetto all’intelletto e agli oggetti intelligibili, nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili. – Come?, fece, ripetimelo. – Non sai, ripresi, che gli occhi, quando uno non li volge piú agli oggetti rischiarati nei loro colori dalla luce diurna, ma a quelli rischiarati dai lumi notturni, si offuscano e sembrano quasi ciechi, come se non fosse nitida in loro la vista? – Certamente, rispose. – Ma [d] quando, credo, uno li volge agli oggetti illuminati dal sole, vedono distintamente e la vista, che ha sede in questi occhi medesimi, appare nitida. – Sicuro! – Allo stesso modo considera anche il caso dell’anima, cosí come ti dico. Quando essa si fissa saldamente su ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, ecco che lo coglie e lo conosce, ed è evidente la sua intelligenza; quando invece si fissa su ciò che è misto di tenebra e che nasce e perisce, allora essa non ha che opinioni e s’offusca, rivolta in sú e in giú, mutandole, le sue opinioni e rassomiglia a persona senza intelletto. – Le somiglia proprio. – Ora, [e] questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce dà la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’idea del bene; e devi pensarla causa della scienza e della verità, in quanto conosciute.

 

(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 329-334)