Vattimo, Verso il pensiero debole

In questa lettura Vattimo traccia le linee del pensiero debole, dalla “dialettica dissolutiva” all’interno del marxismo, al “pensiero della differenza” suggerito da Heidegger, contro il pensiero della totalità e ogni altro tipo di metafisica.

 

G. Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole

 

Si propone qui, attraverso grossi riferimenti “emblematici” a Sartre e a Benjamin, uno schema assai semplice: il pensiero dialettico novecentesco, avendo recepito le ragioni del rovesciamento marxiano dell’idealismo, si presenta come pensiero della totalità della riappropriazione, rivendicando come materialismo il riscatto di ciò che la cultura dei dominatori ha escluso. Ma “la parte maledetta”, ciò che è stato escluso dalla cultura dei dominatori, non si lascia tanto facilmente ricomprendere in una totalizzazione: gli esclusi hanno fatto esperienza del fatto che la stessa nozione di totalità è una nozione signorile, dei dominatori. Di qui, nel rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana, una permanente tendenza che si può chiamare “dissolutiva”, che ha la sua peculiare espressione nella dialettica negativa di Adorno, nella mistura di materialismo e teologia di Benjamin, nell’utopismo di Bloch.

Su questa tendenza dissolutiva e sulle questioni che essa riflette e apre si inserisce il pensiero della differenza. (Si inserisce vuol dire: un itinerario di pensiero che, senza negare la propria caratteristica personale, si sforzi di farsi guidare dalla “cosa stessa”, incontra proprio in relazione a questo problema della tendenza micrologico-dissolutiva della dialettica le tematiche della differenza). Non si tratta di un “inserimento” casuale: numerosi fili legano, anche sul piano della storia effettiva, i marxisti critici come Benjamin, Adorno, Bloch, e il giovane Lukács, per non parlare di Sartre, all’esistenzialismo da cui anche il pensiero della differenza proviene. Quest’ultimo, nella sua forma piú radicale, ha la sua espressione in Heidegger. La tesi che si propone deve dunque essere completata cosí: nello sviluppo del pensiero dialettico novecentesco, si fa luce una tendenza dissolutiva che lo schema dialettico non riesce piú a controllare; questa tendenza è visibile nella micrologia benjaminiana, nella “negatività” adorniana, e nell’utopismo di Bloch. Il significato di questa tendenza consiste nel mettere in luce che l’approccio dialettico al problema dell’alienazione e della riappropriazione è ancora profondamente complice dell’alienazione che dovrebbe combattere: l’idea di totalità e quella di riappropriazione, capisaldi di ogni pensiero dialettico sono ancora nozioni metafisiche non criticate. Al venire in chiaro di questa consapevolezza contribuisce in modo determinante Nietzsche, con la sua analisi della soggettività metafisica in termini di dominio, e con l’annuncio che Dio è morto e cioè che le strutture forti della metafisica – archai, Gründe, evidenze prime e destini ultimi – erano solo forme di rassicurazione del pensiero in epoche in cui la tecnica e l’organizzazione sociale non ci avevano ancora resi capaci, come accade ora, di vivere in un orizzonte piú aperto, meno “magicamente” garantito. I concetti reggenti della metafisica – come l’idea di una totalità del mondo, di un senso unitario della storia, di un soggetto autocentrato capace eventualmente di appropriarsene – si rivelano come mezzi di disciplinamento e rassicurazione non piú necessari nel quadro delle attuali capacità di disposizione della tecnica. Anche la .scoperta della superfluità della metafisica (in termini marcusiani, della repressione addizionale) resterebbe tuttavia esposta al rischio di risolversi in una nuova metafisica (per esempio: umanistica, naturalistica, vitalistica), se si limitasse a sostituire un essere “vero” a quello svelato falso dalla critica – sia essa di Nietzsche o di Marcuse.

A questo rischio, a cui soggiace in definitiva il pensiero dialettico, utopico o negativo che sia, si sfugge solo se si associa alla critica della metafisica come ideologia legata all’insicurezza e al dominio che da essa deriva la radicale ripresa del problema dell’essere iniziata da Heidegger.

In apparenza, e piú che in apparenza, ma comunque in prima approssimazione, il problema che Heidegger pone in Sein und Zeit è analogo a quello posto dalla critica dell’ideologia: non possiamo prender come ovvia la nozione di ente, giacché la sua ovvietà è già il risultato di una serie di “posizioni”, di accadimenti, o – dice Heidegger – di aperture storico-culturali (e, in senso heideggeriano, destinali) che, esse anzitutto (prima della ovvietà-obiettiva dell’ente), costituiscono il senso dell’essere. Sembra dunque che, anche per Heidegger come per i critici dell’ideologia, si tratti di riappropriarsi delle condizioni di possibilità, di ciò che sta alle spalle dell’ovvio-obiettivo e lo determina come tale. Ma l’elaborazione di questo problema conduce fin dall’inizio Heidegger a scoprire altro: non una struttura trascendentale di tipo kantiano (o husserliano) né una totalità dialettica hegelo-marxiana da cui il senso degli enti sia determinato; bensí l’insostenibilità (prima nella “cosa stessa” che nella nostra teoria) di uno dei tratti che da sempre la tradizione metafisica ha assegnato all’essere, cioè la stabilità nella presenza, l’eternità, l’“entità” o ousía. È la stabilità dell’essere nella presenza che si rivela anzitutto, fin da Sein und Zeit, come il frutto di una “confusione”, di una “dimenticanza” perché deriva dal modellare l’essere sugli enti, come se fosse solo il carattere piú generale, di tutto ciò che si dà nella presenza.

Aprire il discorso sulla differenza dell’essere dagli enti, quella che si chiama la differenza ontologica, conduce alla fine molto piú lontano di quanto Heidegger stesso si aspettasse. Questa differenza significa infatti anzitutto che l’essere non è; che siano, si può dire degli enti; l’essere, piuttosto, accade. Noi diciamo essere distinguendolo veramente dagli enti solo quando pensiamo come l’essere l’accadere storico-culturale, l’istituirsi e il trasformarsi degli orizzonti entro cui di volta in volta gli enti divengono accessibili all’uomo e l’uomo a se stesso. Non è óntos on il dato sensibile nella sua immediatezza, certo; ma nemmeno il trascendentale, come voleva il neokantismo diffuso nella filosofia con cui Heidegger si misurava. L’analisi dell’Esserci, della sua gettatezza, del suo carattere sempre di volta in volta emotivamente situato e qualificato, conduce Heidegger a temporalizzare radicalmente l’a priori. Ciò che possiamo dire dell’essere è solo, a questo punto, che esso è tras-missione, invio: Ueber-lieferung e Geschick. Il mondo si esperisce in orizzonti che sono costruiti da una serie di echi, di risonanze di linguaggio, di messaggi provenienti dal passato, da altri (gli altri accanto a noi come le altre culture). L’a priori che rende possibile la nostra esperienza del mondo è Ge-schick, destino-invio, o Ueberlieferung, trasmissione. L’esser vero non è ma si invia (si mette in strada e si manda), si tras-mette. La differenza fra essere ed enti è anche, forse principalmente, il tratto peculiare di differimento che caratterizza l’essere (e la sua stessa problematica stessità: pensiamo a Identität und Diferenz). Di questo differimento è intessuto anche il rapporto tra essere e linguaggio, che per Heidegger diventa decisivo a partire dagli anni trenta, e che lo accomuna, ma ancora una volta su un piano di maggior radicalità, con altri orientamenti filosofici novecenteschi (per i quali Apel, come si sa, ha parlato di “trasformazione semiotica del kantismo”). Quel che c’è di piú radicale in Heidegger è che la scoperta del carattere linguistico dell’accadere dell’essere si riverbera sulla concezione dell’essere stesso, che risulta spogliato dei tratti forti attribuitigli dalla tradizione metafisica. L’essere che può accadere non ha i tratti dell’essere metafisico con la sola aggiunta della “eventualità”; si configura, si dà a pensare, con tratti radicalmente diversi.

 

G. Vattimo e P. Rovatti, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 19875, pagg. 17-20