VON CLAUSEWITZ, CHE COS'E' LA GUERRA?


1. Introduzione

Ci proponiamo di esaminare dapprima i singoli elementi che costituiscono il nostro soggetto, di studio, poi le singole parti del medesimo, infine il tutto nella sua intima connessione: procedendo, cioè, dal semplice al complesso. È tuttavia necessario, in questo studio più che in qualunque altro, cominciare con un colpo d'occhio d'insieme, poiché la natura del soggetto esige in questo caso, più che in ogni altro, di tener conto contemporaneamente sia delle parti, sia del complesso.

 

2. Definizione

Non daremo della guerra una grave definizione scientifica; ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello.
La guerra non è che un duello su vasta scala. La moltitudine di duelli particolari di cui si compone, considerata nel suo insieme, può rappresentarsi con l'azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, a mezzo della propria forza fisica, costringere l'avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza.
La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà.
La forza si arma delle invenzioni delle arti e delle scienze per misurarsi contro la forza. Essa è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere menzionate, alle quali si dà il nome di diritto delle genti, ma che non hanno capacità di affievolirne essenzialmente l'energia.
La forza intesa nel suo senso fisico (poiché all'infuori dell'idea di Stato e di Legge non vi è forza morale) costituisce dunque il mezzo; lo scopo è di imporre la nostra volontà al nemico.
Per raggiungere con sicurezza tale scopo occorre che il nemico sia posto nella impossibilità di difendersi; e questo è, per definizione, il vero obbiettivo dell'atto di guerra, esso rappresenta lo scopo, e lo respinge, in certo qual modo, come alcunché di non appartenente alla guerra propriamente detta.

 

3. Impiego assoluto della forza

Gli spiriti umanitari potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l'avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell'arte militare.
Per quanto seducente ne sia l'apparenza, occorre distruggere tale errore poiché, in questioni così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d'animo quelli maggiormente perniciosi.
Poiché l'impiego della forza fisica in tutta la sua portata non esclude affatto la cooperazione dell'intelligenza, colui che impiega tale forza senza restrizione, senza risparmio di sangue, acquista il sopravvento sopra un avversario che non faccia altrettanto e gli detta in conseguenza la propria legge; ed entrambi i principi di azione tendono così verso l'assoluto, senza trovare altri limiti che nei contrappesi insiti in essi.
È cosi che la questione dev'essere considerata: e rappresenta uno sforzo non solo vano, ma illogico, il lasciare da parte l'elemento forza per avversione ad esso.
Se le guerre fra nazioni civili, sono meno crudeli e devastatrici di quelle fra i selvaggi, ciò deriva dalle individue condizioni sociali degli Stati e da quelle degli Stati considerati nei reciproci rapporti.
La guerra nasce da queste condizioni e da questi rapporti sociali che la determinano, la limitano, la moderano; ma tali modificazioni non sono inerenti alla guerra, costituiscono solo elementi contingenti: mai si potrà introdurre un principio moderatore nell'essenza stessa della guerra, senza commettere una vera assurdità.
La lotta fra gli uomini si fonda su due differenti elementi: il sentimento ostile e l'intenzione ostile. Nella nostra definizione della guerra ci siamo basati sul secondo perché più generale; non possiamo infatti pensare all'odio, anche il più selvaggio, quello che si avvicina all'istinto, separandolo dall'intenzione ostile, mentre esistono spesso intenzioni ostili non accompagnate, o almeno non essenzialmente accompagnate, da inimicizia preconcetta. Presso i popoli barbari predominano i progetti basati sull'istinto, presso quelli civili, per contro, i progetti basati sulla riflessione; ma questa differenza non deriva dalla natura intima della barbarie o della civiltà, bensì dalle circostanze, dalle istituzioni ecc. che l'accompagnano. Non esiste necessariamente in ogni singolo caso, ma la si riscontra nei maggior numero dei casi. In una parola, le più violente passioni possono accendersi anche fra i popoli più civili. Si vede quindi come sia lungi dal vero il figurarsi la guerra fra Stati civili come un semplice e razionale atto di governo, e il considerarla come avulsa da ogni passione, sì che, in definitiva, non abbia bisogno dell'azione fisica delle masse di combattenti, e possa far calcolo soltanto sui loro rapporti astratti, si da ridurre la guerra ad una specie di operazione algebrica.

La teoria cominciava però, ad incamminarsi su questa strada, quando i fenomeni delle recenti guerre rettificarono le idee. La guerra, essendo atto di violenza, ha necessarie attinenze col sentimento; se essa non ne trae origine, vi farà capo tuttavia più o meno, a seconda non del grado di civiltà, ma della grandezza e durata degli interessi in conflitto.

È chiaro che se i popoli civili non uccidono i prigionieri, non distruggono città e villaggi, ciò deriva dal fatto che l'intelligenza ha in essi parte maggiore nella condotta della guerra ed ha loro rivelato l'esistenza di mezzi d'impiego della forza più efficaci di quelli derivanti dalle manifestazioni brutali dell'istinto.

L'invenzione della polvere, il perfezionamento costante delle armi da fuoco dimostrano già sufficientemente che la tendenza alla distruzione dell'avversario, insita nel concetto della guerra, non è stata in realtà stornata, o alterata, dal progresso civile.

Confermiamo dunque: "La guerra è un atto di forza, all'impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un'azione reciproca che logicamente deve condurre all'estremo". Ecco dunque un primo rapporto di azione reciproca e un primo criterio illimitato, cui l'analisi ci conduce.

 

4. Lo scopo è di ridurre il nemico all'impotenza
Abbiamo detto che scopo dell'azione guerresca è mettere l'avversario nella impossibilità di difendersi: vogliamo ora dimostrare che ciò è necessario almeno in teoria.

Perché l'avversario sia costretto ad accedere alla nostra volontà, dobbiamo costringerlo in una situazione il cui svantaggio sia superiore al sacrificio che da lui esigiamo: ma è naturale che questo svantaggio non debba essere, o almeno non debba apparire, transitorio, poiché in tal caso l'avversario attenderebbe un momento più propizio, anziché cedere. E perciò, ogni cambiamento apportato a questa situazione dal prolungarsi dell'attività bellica deve tendere a peggiorarla, almeno per quanto è prevedibile.

Ora, la posizione più svantaggiosa in cui uno Stato belligerante può trovarsi, è quella di esser ridotto all'impotenza. Se l'avversario, deve essere, a mezzo dell'azione bellica, costretto a compiere la nostra volontà, dobbiamo dunque o porlo realmente in stato d'impotenza, o metterlo in situazione tale che, secondo ogni probabilità sia sul punto di esserlo.

La guerra deve dunque mirare sempre a disarmare, o ad abbattere che dir si voglia, l'avversario.

Essa non suppone però il lavoro di una forza attiva contro una massa inerte, giacche un atteggiamento completamente passivo è incompatibile con qualsiasi condotta di guerra: consiste invece sempre nell'urto di due forze attive contrapposte, e quanto si è detto, circa lo scopo finale dell'attività bellica si applica ad entrambi i belligeranti. È, quindi, una nuova azione reciproca: finché non abbiamo abbattuto l'avversario, dobbiamo temere noi stessi di esserne abbattuti; non siamo più liberi; l'avversario ci impone la sua legge. come noi gli imponiamo la nostra.

Secondo rapporto di azione reciproca, che conduce ad un secondo criterio illimitato.

 

5. Tensione estrema tra le forze

Se vogliamo abbattere l'avversario, dobbiamo proporzionare il nostro sforzo alla sua capacità di resistenza. Questa si esprime col prodotto di due fattori inseparabili: entità dei' mezzi disponibili e forza di volontà. L'entità dei mezzi potrebbe venire approssimativamente determinata, poiché dipende (sebbene non completamente) in gran parte da elementi numerici La forza di volontà è invece assai meno determinabile; si può tutt'al più congetturarla secondo l'importanza delle cause di guerra. Ammettendo di giungere per tal via ad una estimazione verosimile della capacità di resistenza avversaria, possiamo prenderla come misura dello sforzo da compiere, per dargli tale entità da assicurarci la preponderanza in ogni caso, o, se i nostri mezzi non sono a ciò sufficienti, dargli pur sempre la maggiore entità possibile. Ma l'avversario farà la stessa cosa. Nuova gara reciproca che tende teoricamente all'estremo: terzo rapporto di azione reciproca e terzo criterio illimitato che riscontriamo.

 

6. Modificazione della realtà

Nel campo delle considerazioni astratte, il ragionamento non può perciò avere riposo, finché non sia giunto all'estremo. Ciò deriva dall'assoluto esistente nella ipotesi di due forze contrastanti, abbandonate a loro stesse e non obbedienti che alle loro intrinseche leggi. E quindi, se dal puro concetto astratto della guerra volessimo dedurre un punto assoluto in fatto di scopo e di mezzi da impiegare, dalle costanti interdipendenti saremmo condotti ad, estremi i quali sarebbero semplici giuochi del pensiero, seguenti un filo appena visibile di sottigliezze logiche. Tenendoci nel campo dell'assoluto ed evitando con un tratto di penna gli ostacoli, per mantenere con logica rigorosa la proposizione "che in ogni caso dobbiamo attenderci di essere condotti agli estremi e fare uno sforzo estremo", si giungerebbe a stabilire leggi puramente speculative, prive di ogni pratico valore. Anche ammesso che la tensione delle forze fino all'estremo costituisca qualche cosa di concreto e di realizzabile, occorre tener presente che lo spirito umano difficilmente si adatterebbe in pratica a simili fantasticherie della deduzione logica. In molti casi si dovrebbe verificare uno spiegamento di forze superfluo, in contrasto con altri principi dell'arte di governo, ed uno sforzo di volontà sproporzionato alla entità degli scopi e quindi impossibile, poiché la forza della volontà umana non trae origine mai da sottigliezze cerebrali. Se invece noi lasciamo l'astrazione per considerare la realtà, tutto cambia. Nel, campo dell'astrazione predomina l'ottimismo. Vi si dovrebbe presumere che i due avversari non solo mirino alla perfezione, ma altresì la raggiungano. Ma perché in realtà questo si verifichi, occorrerebbe: 1. - che la guerra fosse un atto completamente isolato, sorgente improvviso, senza collegarsi con la vita statale antecedente; 2. - che la guerra si riassumesse in una sola decisione o in decisioni sia pur multiple ma simultanee; 3. - che la guerra potesse chiudere in se stessa un risultato definitivo e non fosse influenzata dalla previsione della situazione politica che deve succederle.

 

7. La guerra non è mai un atto isolato

Circa il primo punto, occorre osservare che nessuno dei belligeranti è per l'altro una personalità astratta, anche nei riguardi di quello dei due fattori della resistenza che è imponderabile, e cioè la volontà. Questa non è infatti del tutto indeterminata: dal come si manifesta oggi sì può dedurre ciò che sarà domani. La guerra non nasce istantaneamente e non si espande in un batter d'occhio: si può quindi giudicare l'avversario da quello che è o che fa, e non da quello che a rigor di termini dovrebbe essere e dovrebbe fare. Ora, la imperfezione degli organismi umani è tale che si resta sempre al di qua dell'ideale, e queste deficienze, influenti su entrambe le parti, costituiscono già un principio moderatore.

 

8. La guerra non consiste in un solo urto istantaneo

Il secondo punto ci porta alle seguenti considerazioni: Se la guerra consistesse in un atto decisivo unico o in una serie di atti decisivi contemporanei, tutti i preparativi per essa dovrebbero naturalmente tendere all'estremo, poiché una trascuratezza non potrebbe più ripararsi. La misura del nostro sforzo, nel campo concreto, sarebbe allora determinata dal complesso dei preparativi dell'avversario, pur rimanendo il resto nel dominio dell'astratto. Ma se la decisione risulta da più atti successivi, è chiaro che i primi possono servire di misura a quelli che seguono. La realtà si sostituisce così ancora una volta all'astrazione, e modera la tendenza all'estremo. La guerra si concluderebbe però in una decisione unica,. o in una somma di decisioni simultanee se tutti i mezzi di combattimento fossero o potessero venir messi simultaneamente in azione; infatti un esito sfavorevole diminuisce necessariamente tali mezzi, e se essi sono già stati tutti impiegati in un primo atto, non si può più pensare ad effettuarne un secondo. Ogni atto successivo non potrebbe in u)stanza che far parte del primo, prolungandone solo la durata. Ma abbiamo già visto, nei preparativi di guerra, la realtà sostituirsi alla concezione astratta, la determinatezza sostituire la concezione estrema: non foss'altro che per questo metodo, i due avversari, nella loro reciproca azione, si manterranno al disotto dell'estremo limite degli sforzi e quindi non impegneranno subito tutte le loro forze. Di più, la natura stessa delle forze e dei loro impiego esclude la possibilità di una messa in azione -simultanea. I fattori sono i combattenti, il paese con la sua superficie e la. sua popolazione, gli alleati. Il paese con la sua superficie e la sua popolazione, oltre ad essere la sorgente della forza combattente, è di per se stesso elemento integrante fattori operanti in guerra: e, precisamente, solo in quella sua parte che appartiene al teatro di guerra od esercita influenza importante sul medesimo. Quanto alle forze mobili, nulla - impedirebbe di porle contemporaneamente in azione, ma non e casi per le piazzeforti, i corsi d'acqua, le montagne, gli abitanti ecc.: insomma, non si può mettere nello stesso tempo tutto il paese in campo!, a meno che non sia cosi piccolo da essere interamente abbracciato dal primo atto di guerra. Infine, la cooperazione degli alleati non dipende dalla volontà dei belligeranti, ed è anzi nella natura dei rapporti politici che questa cooperazione intervenga solo in seguito, o si rafforzi per ristabilire l'equilibrio compromesso. Vedremo meglio, in seguito, che quest'aliquota delle energie di resistenza, la quale non può essere posta immediatamente in azione, rappresenta in molti casi una parte, rispetto al tutto, molto maggiore di quanto non possa a prima vista sembrare: e che perciò anche quando la prima decisione è stata attuata con grande violenza, producendo un grave disturbo nell'equilibrio delle forze, questo può tuttavia ristabilirsi; per ora basti dimostrare che un concentramento istantaneo delle forze belligeranti è in contrasto colla natura della guerra. Ciò non potrebbe invero, di per sé, costituire motivo a diminuire gli sforzi destinati a produrre la prima decisione: giacché un primo risultato sfavorevole è sempre un insuccesso al quale non ci si espone scientemente; e la prima decisione, anche se non rimane unica, avrà pur sempre tanta maggiore influenza sulle successive, quanto maggiore sarà stata la sua importanza: ma la possibilità di una ulteriore decisione fa sì che lo spirito umano si mostri riluttante a sforzi troppo grandi, e che perciò nelle prime decisioni non concentri e non tenda tutte le energie, come potrebbe invece fare. Ciò che da uno degli avversari è omesso per debolezza, diviene per l'altro un vero motivo obbiettivo di moderazione; per questo reciproco influsso, le tendenze estreme vengono ricondotte a sforzi di grandezza limitata.

 

9. Il risultato della guerra non costituisce nulla di assoluto

Infine, l'esito anche totale di un'intera guerra non sempre deve essere considerato assoluto e definitivo; lo Stato vinto non vi scorge spesso che un male transitorio, al quale i rapporti politici avvenire possono apportare un rimedio. Si vede facilmente come anche questa considerazione influisca nel senso di ridurre la forza di tensione e la violenza dello sforzo bellico.

 

10. Le probabilità della vita reale si sostituiscono alla tendenza all'estremo

In questo modo tutta l'azione bellica viene a sottrarsi alla legge rigorosa dell'impiego delle forze spinto all'estremo. Una volta che non si tema più l'estremo e non lo si ricerchi, la determinazione del limite dello sforzo guerresco viene lasciata ad un apprezzamento, il quale può essere fornito solo dalle leggi delle probabilità che si basano su elementi del mondo reale. Poiché i due avversari non sono semplici astrazioni, ma Stati e governi reali, la guerra esce dal campo ideale per entrare in quello del determinismo delle cose. Ne consegue che quanto realmente esiste servirà a fornire per ciò che è ignoto e deve essere scoperto. In relazione al carattere, alle disposizioni, alla situazione, ai rapporti esistenti nel campo avversario, ciascuna delle due parti può congetturare, secondo le leggi della probabilità ciò che farà l'altra e regolare in conseguenza i propri atti.

 

11. Lo scopo politico riappare

Ritorna qui in campo un argomento che pel momento avevamo lasciato da parte (v. n. 2) e cioè lo scopo politico guerra. La legge dell'assoluto, il proposito di rendere l'avversario impotente e di atterrarlo avevano finora quasi assorbito questo scopo. Poiché tale legge perde di forza e tale proposito diminuisce d'importanza, lo scopo politico della guerra, deve riapparire in primo piano. Se tutta la questione diviene un calcolo di probabilità basato su persone e rapporti ben determinati, lo scopo politico, quale determinante ordinario, deve essere fattore essenzialissimo del calcolo. Quanto minore è il sacrificio che si esige dall'avversario, tanto minore dobbiamo presumere che sia lo sforzo che esso farà per sottrarvisi; e anche il nostro sforzo, in conseguenza, sarà minore. Inoltre noi rinunceremo tanto più facilmente al conseguimento di uno scopo politico, quanto meno questo sarà importante per noi: donde un nuovo motivo di mode razione degli sforzi. Lo scopo politico, motivo primo della guerra, darà dunque la misura, tanto dell'obbiettivo che l'azione bellica deve raggiungere, quanto degli sforzi che a ciò sono necessari. Ma poiché si tratta di fatti reali e non già di semplici concezioni astratte, la questione va considerata in rapporto ad entrambi gli Stati. Lo stesso scopo politico può provocare effetti completamente diversi presso nazioni differenti, od anche nella stessa nazione ad epoche differenti. Possiamo perciò considerare lo scopo politico solo in quanto intendiamo riferirci all'influsso sulle masse che esso deve porre in moto: sì che in conseguenza viene ad assumer valore la natura di queste masse: è facile comprendere che il risultato può essere completamente diverso, a seconda che le masse posseggano elementi atti a rafforzare od affievolire l'azione. Fra due nazioni o Stati possono esistere tensioni così forti, somme tali di elementi ostili, che un motivo politico di scarsissima importanza intrinseca divenga capace di provocare effetti sproporzionati alla sua natura: una vera esplosione. Quanto sopra riguarda la grandezza dello sforzo che lo scopo politico provoca nei due Stati, e l'obbiettivo immediato cui esso intende giungere coll'atto di guerra. Talvolta, lo scopo politico può di per se stesso costituire obbiettivo, come ad esempio quando non si tratta che della conquista di una provincia: altre volte, lo scopo politico non si presta di per sé solo a determinare l'obbiettivo dell'azione bellica, e in tal caso si deve assumerne uno che possa aver valore di equivalenza collo scopo politico e rappresentarlo nel concluder la pace. Ma anche in questo campo non si devono perdere di vista le caratteristiche proprie degli Stati belligeranti; vi sono situazioni in cui l'equivalente militare deve essere assai maggiore dello scopo politico stesso, perché questo possa essere raggiunto. Lo scopo politico avrà in se stesso, come misura degli sforzi, un influsso tanto più prevalente e decisivo quanto più le masse saranno indifferenti e quanto minore sarà la tensione esistente naturalmente fra i due Stati; in alcuni casi l'influsso dello scopo politico diviene, così, quasi esclusivamente determinante. Ora, quando l'obbiettivo dell'atto bellico costituisce lo scopo politico, esso perderà, in massima, importanza rispetto a quest'ultimo, e tanto maggiormente quanto più lo scopo puramente politico sarà prevalente. Chiaro risulta da ciò perché esistano, senza intima contraddizione, guerre di ogni grado d'importanza ed energia, da quella di sterminio alla semplice osservazione armata. Ma ciò conduce a questioni di altra specie, che svilupperemo e risolveremo a parte.

 

12. Una sospensione nell'atto di guerra non si spiega ancora con quanto precede

Per quanto insignificanti possano essere le pretese politiche dei due avversari, deboli i mezzi da loro posti in atto, limitato il loro obbiettivo militare, l'azione bellica può mai essere interrotta? Tale questione penetra profondamente nella natura del soggetto. Ogni azione richiede, per compiersi, un certo tempo che noi denominiamo sua durata, e che può essere maggiore o minore a seconda della premura che ha chi agisce. Non intendiamo qui occuparci di questo "più" o "meno": ognuno fa le cose a modo proprio; ma colui che agisce più lentamente non si regola in tal modo perché vuole impiegare maggior tempo, bensì perché è nella sua natura abbisognare di maggior tempo, e agirebbe meno bene affrettandosi. Questo tempo è pertanto conseguenza di cause interne. Ogni operazione di guerra ha naturalmente una durata propria, ma dobbiamo almeno a prima vista logicamente ritenere che ogni aumento di tempo all'infuori di tale durata, e cioè ogni sosta dell'attività bellica, sia contraria alla logica. Non dobbiamo mai dimenticare che qui non si tratta dei progressi dell'uno o dell'altro avversario, ma del progresso complessivo della guerra.

 

13. Vi è un solo motivo per addivenire a soste nell'azione; esso sembra non poter sussistere che da parte di uno degli avversari

Se le due parti si sono armate per la lotta, occorre che un principio ostile ve le abbia spinte. Fino a che esse restano armate, e cioè finché non concludono la pace, questo principio continua a sussistere, e pertanto la sosta non può essere motivata per ciascuno che da un solo movente: attendere un momento più favorevole per agire. A prima vista sembra che questo movente non possa sussistere che presso una delle parti, poiché suppone di per sé l'opposto nell'avversario: se l'interesse dell'uno è di agire, quello dell'altro deve essere di temporeggiare. Un perfetto equilibrio nelle forze non può giustificare la sosta giacché, in tal caso, quello dei belligeranti il cui scopo è positivo (l'attaccante) dovrebbe in ogni caso continuare le operazioni. Se poi ci figuriamo un equilibrio delle forze tale che il belligerante il cui scopo è positivo, e che quindi ha il motivo più potente, disponga in pari tempo di forze inferiori, cosicché l'eguaglianza derivi dal prodotto forza x motivo, si dovrebbe però sempre dire: se non è prevedibile alcun cambiamento a questo stato di equilibrio, i due avversari dovrebbero fare la pace. Ma se un cambiamento è prevedibile, esso non potrà esser favorevole che ad uno dei due; e perciò l'altro dovrebbe agire senza indugio. Si vede chiaro da ciò che il concetto di equilibrio non può servire a spiegare la sosta, e ci riconduce alla attesa del momento più favorevole. Supponiamo dunque che, dei due Stati, l'uno abbia uno scopo positivo: conquista di una provincia, per valersene nelle trattative di pace. Dopo tale conquista, essendo il suo scopo politico raggiunto, esso non sente più alcun bisogno di agire, e si arresta. Se l'avversario si rassegna a tale risultato, deve fare la pace: altrimenti occorre che agisca: ma se, poniamo, fra quattro settimane esso ritenga di esser meglio organizzato, avrà in ciò motivo sufficiente per differire l'azione. Ma, da quel momento, sembra che logicamente l'obbligo di agire incomba all'avversario, per non lasciare al vinto il tempo di preparare la nuova azione. È superfluo dire che in tutto questo ragionamento noi supponiamo una conoscenza perfetta della situazione da entrambe le parti belligeranti.

 

14. Da quanto sopra deriverebbe una continuità nelle operazioni, il cui effetto sarebbe una nuova tendenza verso l'estremo

Se una tale continuità esistesse realmente nell'azione bellica, essa tenderebbe di nuovo verso l'estremo: giacché, senza contare che un'attività ininterrotta ecciterebbe maggiormente le passioni e comunicherebbe all'insieme un carattere più violento ed una forza elementare maggiore, risulterebbe ancora dalla continuità dell'azione una concatenazione più serrata di effetti e di cause; ogni azione singola acquisterebbe maggiore importanza e diverrebbe quindi più pericolosa. Sappiamo però che le operazioni militari hanno raramente, o non hanno mai, una tale continuità, e che vi sono state numerose guerre in cui il tempo impiegato nell'azione forma la parte minore, mentre le soste assorbono il resto. P, impossibile che trattisi sempre di anomalie; deve pur esistere perciò la possibilità di soste nell'azione bellica, senza contraddizioni intime. Vedremo ora che ciò è possibile e perché.

 

15. Qui entra perciò in giuoco un principio di polarità

Coll'immaginarci l'interesse di uno dei due condottieri sempre direttamente opposto a quello dell'altro, abbiamo ammesso una vera polarità. Ci riserbiamo di dedicare un capitolo a questo proposito,' e per ora affermiamo quanto segue: - Il principio di polarità non è applicabile che quando lo si riferisce allo stesso oggetto e quando la grandezza positiva e la sua opposta, la negativa, si eliminano esattamente. In una battaglia ognuna delle parti vuol vincere: vi è in questo caso una vera polarità, poiché la vittoria dell'uno esclude quella dell'altro. Ma quando trattasi di due cose differenti, le quali abbiano fra loro un rapporto in comune esteriore, non sono le due cose, ma soltanto i loro rapporti, che presentano questa polarità.

 

16. L'attacco e la difesa sono quiddità di specie differente, di forza ineguale e non ammettono quindi l'applicazione del principio di polarità

Se non esistesse che una forma di guerra, e cioè l'attacco, e quindi nessuna difesa, o se, in altre parole, l'attacco non differisse dalla difesa che per lo scopo positivo insito nel primo e mancante nella seconda, la lotta sarebbe sempre di un'unica specie: ogni successo dell'uno sarebbe un insuccesso altrettanto grande per l'altro, e quindi vi sarebbe polarità. Ma l'attività bellica comprende due forme, l'attacco e la difesa, che, come dimostreremo in seguito, sono molto diverse e di forza differente. La polarità sta dunque in ciò cui tendono entrambe, e cioè la decisione: ma non nell'attacco e nella difesa in loro stessi. Se uno dei comandanti desidera ritardare la soluzione, l'altro deve volerla affrettare, ma senza cambiare la forma della lotta. Se l'interesse di A richiede che egli non attacchi il suo avversario oggi, bensì fra quattro settimane, B ha interesse ad essere attaccato non fra quattro settimane, ma subito. Quest'è il contrasto immediato: non ne consegue però che l'interesse di B sia di attaccare subito A, il che sarebbe evidentemente tutt'altra cosa.

 

17. L'effetto della polarità è spesso distrutto dalla superiorità della difesa relativamente all'attacco, e ciò spiega la sosta nell'azione bellica

Se, come dimostreremo più tardi, la forma difensiva è più forte di quella offensiva, è d'uopo chiedersi se il vantaggio del differimento della decisione equivalga, per uno degli avversari, a quello offerto dalla difesa. Se tale equivalenza non esiste' quest'ultimo vantaggio non può neutralizzare l'altro ed influire sull'andamento della guerra. Vediamo dunque che l'energia incitatrice risultante dalla polarità degli interessi può essere distrutta dalla differenza di forza fra attacco e difesa ed esser con ciò resa inefficace. E quindi, se il belligerante, cui l'istante attuale è favorevole, è troppo debole per poter rinunciare al vantaggio della difesa, egli deve rassegnarsi a correr l'alea di un avvenire forse più sfavorevole, poiché vi può essere per lui maggior vantaggio ad accettare in avvenire un combattimento difensivo, che a prendere subito l'offensiva od a concludere la pace. Poiché, secondo il nostro convincimento, la superiorità della difesa (bene intesa) è molto grande, e più di quanto non si possa a prima vista pensare, la spiegazione dei numerosi tempi di arresto che si verificano in guerra è facile, e l'apparenza illogica di questo fatto scompare. Quanto più deboli sono i motivi di azione, tanto maggiormente essi saranno assorbiti e neutralizzati da questa differenza fra attacco e difesa, e tanto più frequenti saranno le soste dell'atto bellico: ciò collima d'altronde con l'esperienza.

 

18. Una seconda causa risiede nella imperfetta conoscenza della situazione

Ma vi è ancora un'altra ragione che può produrre arresti nell'azione bellica: e cioè l'incompleta conoscenza della situazione. Ogni condottiero non conosce esattamente che la propria situazione: quella dell'avversario non gli è rivelata che da informazioni incerte; egli può perciò errare nell'apprezzarla, ed in conseguenza di tale errore, credere che all'avversario convenga prendere l'iniziativa, mentre converrebbe realmente a lui stesso il farlo. Vero è che questa mancanza di intuito della situazione potrebbe condurre tanto ad un'azione intempestiva quanto ad un tempo d'arresto intempestivo, e quindi, di per se stessa, non contribuirebbe maggiormente a ritardare, che ad accelerare, l'azione bellica: ma insomma essa è pur sempre da ritenersi come una delle cause naturali che possono determinare una sosta nell'azione stessa, senza intima contraddizione. Quando poi si consideri che si è generalmente proclivi e indotti piuttosto a sopravalutare che a sottovalutare la forza dell'avversario, essendo ciò insito nella natura umana, si converrà che la imperfetta conoscenza dello stato di fatto contribuirà molto a ritardare l'attività bellica e a moderarne il principio vitale. La possibilità di una sosta dell'azione introduce un nuovo elemento moderatore nell'atto bellico, giacché, in certo qual modo, lo diluisce nel tempo, argina il pericolo nel suo progredire e moltiplica i mezzi per ristabilire un equilibrio perduto. Quanto maggiori sono le tensioni donde la guerra è nata, e maggiore perciò l'energia colla quale essa vien condotta, tanto più brevi diverranno questi periodi di sosta; quanto più debole è il principio vitale della guerra, tanto più lunghi essi saranno: poiché i motivi possenti accrescono l'energia di volontà, che è sempre, come abbiamo veduto, elemento e prodotto delle forze.

 

19. La frequenza delle soste nell'atto bellico allontana ancor più la guerra dall'assoluto e la fa divenire anche maggiormente un calcolo delle probabilità

Quanto più lento è lo sviluppo dell'azione bellica, quanto più numerosi e lunghi sono i suoi tempi d'arresto, tanto maggiore diviene la possibilità di rimediare ad un errore, tanto più diviene ardito, nelle proprie previsioni, colui che agisce, tanto maggiormente egli si terrà indietro rispetto alla linea dell'assoluto e baserà tutto su probabilità e supposizioni. Così, l'andamento più o meno lento della guerra lascia maggiore o minore tempo disponibile per quel calcolo delle probabilità, in base alla conclusione di fatto, che è già richiesto dalla natura del caso concreto.

 

20. Perché la guerra divenga un giuoco non le manca dunque più che il caso; ora, essa non ne è davvero scevra

Da quanto precede vediamo come la natura obbiettiva della guerra si riduca ad un calcolo di probabilità; non occorre più che un solo elemento per farne un giuoco, ed esso non le fa difetto: il caso. Nessun genere di attività umana è così costantemente e generalmente in rapporto con il caso, come la guerra. Ma con il caso viene ad avere anche gran parte l'elemento incertezza, e con questo l'elemento fortuna.

 

21. La guerra diviene un giuoco, non solo per la sua natura obbiettiva, ma anche per la sua natura subbiettiva

Gettando un colpo d'occhio sulla natura subbiettiva della guerra e cioè su quelle energie colle quali vien condotta, essa ci apparirà sempre più come un giuoco. L'elemento nel quale la guerra si muove è il pericolo; ora, quale è nel pericolo la più importante fra le forze dell'animo? Il coraggio. Il coraggio può, è vero, conciliarsi con la saggezza del calcolo, ma trattasi di cose essenzialmente differenti, appartenenti a facoltà distinte dell'anima. Invece la propensione al rischio, la fiducia nella fortuna, l'audacia, la temerità sono soltanto manifestazioni del coraggio, e tutte queste tendenze dell'anima aspirano all'incertezza dell'esito, poiché essa è il loro elemento. Vediamo dunque come, fin da principio, l'assoluto, il cosiddetto elemento matematico, non trova alcun saldo punto d'appoggio nei calcoli dell'arte di guerra; e che già fin da principio la guerra si estrinseca in un giuoco di possibilità, probabilità, fortuna e sfortuna, il quale continua in tutti i grandi e piccoli fili della sua intelaiatura, e fa sì che, di tutti i rami dell'attività umana, la guerra sia quello che più rassomiglia a una partita con le carte da giuoco.

 

22. Come questo giuoco presenti in generale la massima attrattiva per lo spirito umano

Sebbene l'intelligenza si senta costantemente attratta verso la chiarezza e la certezza, è l'incerto che attrae spesso il nostro spirito. Invece di seguire penosamente lo stretto sentiero delle ricerche filosofiche e delle deduzioni logiche per giungere quasi inconsapevolmente nelle regioni alle quali si sente estraneo, ed in cui non si scorgono più punti di riferimento, lo spirito preferisce arrestarsi con la forza dell'immaginazione nei campi del caso e della fortuna. Invece di vedersi limitato dalla nuda ed arida indigenza delle necessità logiche, esso si diletta in mezzo agli illimitati tesori del possibile; il coraggio, esaltato da ciò, spicca il volo; il rischio ed il pericolo sono gli elementi fra cui si lancia, come l'audace nuotatore nella corrente. Deve la teoria abbandonarlo, in tale campo, e rinchiudersi, compiacendosi di se stessa, in un cerchio di conclusioni e di massime assolute? No certo, poiché essa diverrebbe priva di ogni utilità pratica. La teoria non può far astrazione dalla natura umana, deve lasciar la dovuta parte anche al coraggio, all'audacia ed altresì alla temerità. L'arte della guerra si muove nel campo delle forze viventi e delle forze morali e non può quindi mai raggiungere l'assoluto e la certezza. Le restano dovunque, nei grandi casi come nei minimi eventi, larghe lacune per l'improvviso e per l'ignoto. Come da una parte vi è l'incerto, dall'altra debbono entrare in giuoco, per colmare le lacune, il coraggio e la fiducia in se stessi. Più il coraggio e la fede in sé sono grandi, più grande è la parte che si può lasciare all'uno e all'altra. Queste qualità sono in guerra elementi essenzialissimi: la teoria deve dettare soltanto norme, entro le quali queste virtù guerriere, che sono le più nobili e le più necessarie fra le virtù militari, abbiano un vasto campo per potersi liberamente esplicare nelle loro varie entità e nei loro vari aspetti. Esiste una sagacia, ed altresì una preveggenza, anche nel rischio: solamente, occorre misurarle con un'altra unità di misura.

 

23. La guerra resta tuttavia pur sempre un mezzo serio relativo a uno scopo serio. Maggiori determinazioni in proposito

Ecco la guerra, ecco il capo che la guida, ecco la teoria che la regge. Ma la guerra non è un passatempo, un divertimento consistente nel rischiare e riuscire, un'opera di libera ispirazione; è un mezzo serio inteso ad uno scopo serio. Tutto ciò di cui essa si appropria nel giuoco variopinto della fortuna, degli slanci appassionati, del coraggio, della immaginazione, dell'intuizione, non costituisce che particolare del mezzo. La guerra di comunità - nazioni intere, e specialmente nazioni civili - nasce sempre da una situazione politica e vien provocata solo da uno scopo politico: costituisce dunque un atto politico. Se essa fosse una manifestazione completa, indisturbata, assoluta di forza, quale dovremmo dedurla dalla pura astrazione, allora, dall'istante in cui la politica le ha dato vita, si sostituirebbe ad essa come alcunché di assolutamente indipendente, la eliminerebbe, non seguendo più che le proprie intrinseche leggi, come la esplosione di una mina non è più suscettibile di essere guidata dopo che si è appiccato il fuoco alla miccia. È in tal modo che finora si è concepita la cosa, quando una disarmonia fra politica e condotta di guerra ha fatto pensare a distinzioni teoriche del genere. Tuttavia, non è così; anzi, questa concezione è radicalmente falsa. Nel mondo della realtà la guerra non è, come abbiamo veduto, una cosa così assoluta che la sua tensione si risolva in una sola decisione; è, invece, l'azione di forze che non si sviluppano in modo uniforme e regolare: che talvolta si sviluppano abbastanza per vincere gli ostacoli frapposti dall'inerzia e dagli attriti, tal'altra sono troppo deboli per produrre un effetto. Trattasi dunque, in certo qual modo, di un pulsare più o meno violento, capace in conseguenza di risolvere più o meno rapidamente le tensioni e di esaurire le energie: in altri termini, è un atto che conduce più o meno prontamente allo scopo, ma che dura sempre abbastanza perché nel suo corso consenta influenze atte ad imporgli questa o quella direzione: sì da restare insomma sottoposto alla volontà di una intelligenza direttrice. Se consideriamo ora che la guerra procede da uno scopo politico, è naturale che questo motivo primo che le ha dato vita continui a costituire elemento precipuo per la sua condotta. Ma non perciò lo scopo politico assume il carattere di un legislatore dispotico. deve adattarsi alla natura del mezzo, donde risulta che sovente esso si modifichi molto profondamente; ma è pur sempre l'elemento da tenersi soprattutto in considerazione. Così, la politica si estrinseca attraverso tutto l'atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo, per quanto è consentito dalla natura delle forze che nella guerra si manifestano.

 

24. La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi

La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. Quindi, quanto alla guerra rimane di proprio non si riferisce che alla natura particolare dei suoi mezzi. L'arte della guerra può esigere, in linea di massima, che le tendenze e i disegni della politica non vengano a trovarsi in contraddizione con tali mezzi, e il comandante in capo può esigerlo in ogni caso. Tale condizione non è certo lieve: ma qualunque sia, anche in casi particolari, la sua reazione sui disegni politici, essa non può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi, poiché il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi.

 

25. Varia natura delle guerre

Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare, e la guerra sembra allontanarsi tanto più dalla politica, quanto maggiore è il suo carattere puramente bellico. Per converso, quanto più deboli sono i motivi e le tensioni, tanto meno la tendenza naturale dell'elemento guerra, e cioè la violenza, collimerà colla linea fondamentale indicata dalla politica: la guerra dovrà deviare dalla propria direzione naturale, lo scopo politico si allontanerà dall'obiettivo di una guerra ideale, ed il carattere della guerra tenderà a divenire puramente politico. Ad evitare errate concezioni, osserveremo, però, che quanto abbiamo chiamato tendenza naturale della guerra non lo è che dal punto di vista filosofico, o meglio logico, e non si riferisce affatto alla tendenza delle forze impegnate realmente in un conflitto, intese, ad esempio, come somma delle passioni ed emozioni dei combattenti. t vero che in certi casi queste potrebbero essere eccitate a tal punto da poterle a stento contenere nei limiti tracciati dal disegno politico: ma generalmente questo contrasto non si verifica, perché l'esistenza di tendenze così poderose implica anche quella di un piano grandioso, collimante con esse. Quando il piano non mira a grandi scopi, anche le tendenze delle forze spirituali delle masse saranno così deboli da richiedere che nelle masse ,si infonda un maggior impulso, anziché imporre loro un freno.

 

26. Tutte le guerre possono venir considerate come atti politici

E pertanto, per ritornare all'argomento principale, se è vero che in una determinata specie di guerra la politica sembra scomparire completamente, mentre in un'altra essa diviene preponderante, si può tuttavia affermare che in entrambi i casi la guerra costituisce un atto politico E invero, se la politica è da considerarsi come l'intelligenza dello Stato personificato, occorre che fra tutte le ipotesi che il suo calcolo deve abbracciare, possa essere compresa anche quella in cui la natura di tutte le condizioni imponga una guerra della prima specie. L'altra specie di guerra potrebbe considerarsi di carattere maggiormente politico della prima, solo qualora si volesse scorgere nella politica non già una cognizione generale, bensì il concetto convenzionale di un'astuzia rifuggente dalla forza, circospetta, fors'anche sleale.

 

27. Conseguenze di questo punto di vista per l'interpretazione della storia militare e per le basi della teoria

Si vede dunque, anzitutto, che in ogni caso la guerra deve essere concepita non come cosa a sé stante, ma come strumento politico. E solo partendo da questa concezione è possibile non cadere in contrasto con tutta la storia militare: è questa la sola chiave dell'analisi razionale di questo grande libro. In secondo luogo, questo stesso punto di vista ci dice quanto le guerre debbano essere diverse, a seconda dei motivi e delle condizioni da cui traggono origine. Il primo, ed in pari tempo il più considerevole e decisivo, atto di raziocinio esercitato dall'uomo di Stato e condottiero, consiste nel giudicare sanamente, sotto questo punto di vista, la guerra che egli sta per intraprendere, anziché valutarla o volerla valutare per ciò che non può essere secondo la natura delle cose. Quest'è pertanto la prima, e la più complessa, di tutte le questioni strategiche: la esamineremo in seguito, trattando del piano di guerra. Ci basta per ora avere svolto il soggetto fino a questo limite ed avere così fissato il punto di vista principale dal quale occorre mettersi per considerare la guerra e la sua teoria.

 

28. Risultato per la teoria

Secondo quanto precede, la guerra non solo rassomiglia al camaleonte perché cambia di natura in ogni caso concreto, ma si presenta inoltre nel suo aspetto generale, sotto il rapporto delle tendenze che regnano in essa, come uno strano triedro composto:

1. della violenza originale del suo elemento, l'odio e l'inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;

2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell'anima;

3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni; l'ampiezza che acquista l'elemento del coraggio e del talento nel campo della probabilità e del caso dipende dalle qualità del condottiero dell'esercito; gli scopi politici, per contro, riguardano esclusivamente il governo. Queste tre tendenze, che si presentano come altrettanti sistemi diversi di legislazione, hanno profonde radici nella natura intima del soggetto, e sono in pari tempo di grandezza variabile. Una teoria che negligesse l'una o che pretendesse di stabilire fra loro rapporti arbitrari, si troverebbe immediatamente in tale contrasto con la realtà, da doversi, già per questo solo motivo, considerare come distrutta. La soluzione del problema esige dunque che la teoria graviti costantemente fra queste tendenze, come fra tre centri di attrazione. Nel libro che tratta della teoria della guerra, esamineremo per quale via sarà più agevole soddisfare a questa' difficile condizione. In ogni caso, la determinazione del concetto di guerra, che qui abbiamo abbozzata, sarà il primo raggio di luce che ci illuminerà nella imbastitura fondamentale della teoria e ci aiuterà ad individuare e a distinguere gli elementi principali del soggetto.

 

(Karl von Clausewitz, Della Guerra, A. Mondadori, Milano 1970)