SULL'ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

Nel cap. XXIV del I libro del Capitale, ad un certo punto si ha l'impressione di finire in un circolo vizioso, poiché da un lato appare chiaro che il plusvalore non può essere che il risultato di un processo di produzione precedente, dall'altro non è meno evidente che tale processo è possibile solo perché esiste un plusvalore suscettibile d'essere capitalizzato. Marx in pratica risolve la tautologia lasciando capire che il modo di produzione capitalistico s'è formato combinando degli elementi strutturali che prima giacevano separati.

Tuttavia questo non spiega affatto perché tale combinazione sia potuta avvenire proprio nel XVI sec. e non prima, visto e considerato che il capitale commerciale e quello usuraio sono sempre esistiti.

Se non si vanno a ricercare le ragioni della “combinazione” degli elementi nell'ambito della sovrastruttura, il marxismo sarà costretto ad affermare che il capitalismo è nato nel XVI sec., ovvero non è nato nei secoli precedenti, solo per un puro caso: il che contraddice nettamente la tesi di un passaggio “naturale”, inevitabile, da una formazione sociale all'altra.

Marx insomma pur avendo intuito il nesso tra ideologia religiosa ed economia borghese (sia nel senso che il protestantesimo riflette le esigenze del capitalismo, sia nel senso che il capitalismo contiene, in forma laicizzata, alcune leggi di tipo religioso: si veda ad es. il feticismo delle merci), non ha poi sviluppato con coerenza questa intuizione portandola alle sue estreme conseguenze, le quali appunto sono che è l'uomo a fare l'economia, in ultima istanza: l'uomo con i suoi rapporti sociali, con i suoi pensieri, con il suo rapporto con l'ambiente... Quando il marxismo dice che l'essere sociale è superiore alla coscienza non può restringere il campo ontologico a quello economico.

Benché l'uomo nasca in una formazione sociale che lo precede, ad un certo punto deve decidere se accettare le fondamenta di tale formazione o se lottare per distruggerle. Questa possibilità è a disposizione di ogni essere umano della storia. I fatti, in tal senso, hanno dimostrato che l'uomo di religione protestante, situato nell'Europa occidentale, ha deciso che le fondamenta della società feudale andavano distrutte o comunque ha deciso che l'ideologia religiosa del cattolicesimo-romano andava profondamente modificata - il che portava ad accettare meglio l'opera di distruzione del feudalesimo.

A questo punto iniziano due storie separate: quella delle intenzioni e quella dei fatti. Nel distruggere il feudalesimo l'intenzione del protestante europeo probabilmente non era quella di creare il capitalismo (altrimenti esso sarebbe nato anzitutto nella Germania di Lutero), o comunque non era quella di creare un capitalismo con tutte le sue terribili contraddizioni antagonistiche, ma nei fatti (cioè indipendentemente dalla sua volontà) è avvenuto proprio così (anche la Germania, in questo senso, ha dovuto adeguarsi e l'averlo fatto per ultima le comporterà dei problemi eccezionali, per la soluzione dei quali sarà costretta a far scoppiare due guerre mondiali).

Se dunque esiste un momento in cui il soggetto non può essere considerato negativamente responsabile, durante il periodo dell'accumulazione originaria, questo momento non va individuato allorché il soggetto si staccò dal feudalesimo o dalla religione cattolica in crisi, ma quando, nel tentativo di costruire un'alternativa, tale soggetto non cercò delle soluzioni convincenti (valide per tutta la collettività) ma delle soluzioni parziali (valide solo per poche categorie di persone). Sia il capitalismo che il protestantesimo sono infatti il frutto di una scelta a favore del singolo individuo, contro gli interessi dell'intera società.

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che se ci fu una qualche responsabilità, essa va ricollegata solo al momento genetico del capitalismo, poiché di fronte alle sue contraddizioni l'uomo deve sempre decidere se accettarle o contrastarle. E non è neppure il caso di dire che quanto più il capitalismo diventa maturo tanto meno è possibile combatterlo, poiché ad ogni azione o trasformazione del capitale corrisponde, in genere, una reazione positiva del mondo del lavoro.

Come noto, il marxismo cadde nell'errore opposto, quello secondo cui più il capitalismo è maturo e più è facile superarlo. La svista dipese sempre dal fatto che s'interpretava il concetto di transizione come un processo naturale e inevitabile. Anche in questo caso però non si fa alcun affidamento al concetto di responsabilità personale.

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In Miseria della filosofia Marx dice: "Una delle condizioni più indispensabili per la formazione dell'industria manifatturiera era l'accumulazione dei capitali, facilitata dalla scoperta dell'America e dall'introduzione dei suoi metalli preziosi... e dall'aumento delle merci messe in circolazione dal momento in cui il commercio penetrò nelle Indie orientali per la via del Capo di Buona Speranza, dal regime coloniale, dallo sviluppo del commercio marittimo... dal licenziamento dei numerosi seguiti dei signori feudali, i cui membri subalterni divennero dei vagabondi prima di entrare nell'officina... molti contadini, cacciati di continuo dalle campagne in seguito alla trasformazione dei campi in praterie o in seguito al fatto che i lavori agricoli richiedevano meno braccia per la coltivazione della terra, affluirono nelle città per secoli interi".

Poi riassume dicendo: "L'allargamento del mercato, l'accumulazione dei capitali, i mutamenti intervenuti nella posizione delle classi sociali...".

Dunque si noti:

  1. per Marx il capitalismo nasce in forza dell'espansione dei commerci, resa possibile dalla conquista dell'America, delle Indie ecc.;
  2. Marx non fa un'analisi culturale che spieghi l'origine del capitalismo;
  3. egli non ripone le cause della nascita del capitalismo all'interno della nazione capitalistica, ma le fa dipendere soprattutto dalla conquista militare di paesi non europei.

Viceversa, nel Capitale Marx dirà che il capitalismo nasce tutto all'interno della nazione mercantile; il rapporto con le colonie è marginale rispetto al ruolo che ha avuto il commercio interno, che, raggiunto un certo livello, ha appunto generato il capitalismo. In pratica il ragionamento del Marx maturo è di tipo hegeliano: da una serie di determinazioni quantitative ad un certo punto sorge una nuova qualità.

Il giovane Marx era invece convinto che il commercio interno si fosse sviluppato grazie soprattutto al commercio estero, che, a sua volta, dipendeva dal colonialismo.

Le domande rimaste senza risposta nel periodo giovanile portarono il Marx della maturità a formulare delle tesi fataliste.

In realtà il marxismo non ha mai spiegato perché il colonialismo sia una caratteristica tipica dell'Europa occidentale e soprattutto perché la nascita del capitalismo abbia favorito in maniera decisiva soltanto in Europa occidentale (specie nei paesi protestanti) la nascita del capitalismo.

L'Italia comunale, con le sue città marinare, era già un paese colonialista nei confronti del Medio Oriente (sin dai tempi delle crociate), e tuttavia non diventò un paese capitalista industriale, ma si fermò allo stadio commerciale; anzi, con la controriforma regredì a livelli para-feudali. Anche la Polonia, tra i paesi cattolici nord-europei, reagì al progredire del capitalismo delle nazioni vicine, accentuando il peso del servaggio.

Spagna e Portogallo, che pur erano già delle nazioni, ebbero bisogno di diventare prima di tutto paesi colonialisti, al fine di poter fronteggiare la concorrenza dei nuovi paesi manifatturieri del Nord Europa: eppure gli imperi coloniali che riuscirono a creare non servirono loro per diventare potenze industriali.

Questo significa che se il colonialismo appartiene come eredità culturale all'Europa occidentale pre-industriale (anzi, addirittura pre-borghese), il capitalismo invece ha bisogno di un terreno culturale specifico, quale solo la religione protestante poteva offrire.

Come mai allora la Germania, che pur ai tempi di Lutero era prevalentemente protestante, benché territorialmente divisa, dovette aspettare alcuni secoli prima di diventare una grande potenza industriale e capitalistica?

Il motivo è che in Germania la riforma protestante fu una rivoluzione tradita dallo stesso fondatore, che invece di allearsi con la classe borghese si alleò con quella latifondista contro le masse contadine in rivolta. Lutero si accontentò di due cose: 1) aver spezzato l'egemonia politica del cattolicesimo-romano; 2) aver posto le basi culturali per un rinnovamento del pensiero teologico.

Il vero artefice della rivoluzione culturale borghese, colui che decisamente unì il protestantesimo all'attività economica borghese fu Calvino, che non a caso riuscì a trovare ampi consensi in Svizzera, Olanda, Francia, Inghilterra e soprattutto Stati Uniti.

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Che Marx sia voluto partire dalla fenomenologia del capitalismo (l'analisi economica della merce) e non dall'ontologia (il nesso culturale tra religione ed economia), pare sia stata una scelta dettata dal lato "deterministico" del suo pensiero, che tende a privilegiare, della realtà sociale, l'aspetto economico.

Tuttavia, nel cap. XXIV del I libro del Capitale Marx si rende conto che senza un'analisi storica dell'accumulazione originaria si rischiava di finire in un "circolo vizioso": la fenomenologia, infatti, non è la scienza migliore per spiegare la genesi del capitale.

Sin dalle prime pagine del Capitale Marx aveva dato per scontata l'accumulazione originaria, anche perché ne aveva parlato nelle opere precedenti. Ora però egli si rende conto di doverla esplicitare attraverso un'indagine storica del fenomeno economico.

Qui in un certo senso si compie il dramma del Capitale, attraverso il quale Marx ha saputo sviscerare le contraddizioni economiche più recondite del capitalismo, senza tuttavia afferrarne la loro origine culturale.

Più volte (anche nell'esordio dello stesso cap. XXIV) egli ha equiparato la dinamica di taluni fenomeni capitalistici con quanto avviene nella religione (cristiana), ma la constatazione di questa analogia o è rimasta ferma a livello d'intuizione, oppure è stata usata come mera esemplificazione (non senza una certa dose d'ironia).

Resta comunque singolare che solo alla fine del I libro Marx abbia voluto affrontare in un apposito capitolo il problema del circolo vizioso, già individuato in altri passi del Capitale.

Marx non si è reso conto che la soluzione di tale arcano avrebbe inevitabilmente comportato la riscrittura di alcune parti del Capitale, specie quelle che trattano dei rapporti tra capitalismo e pre-capitalismo, nonché quelle che considerano il capitalismo come una "necessità storica" o quelle che vedono il macchinismo come un grande progresso di civiltà.

L'analisi storica del cap. XXIV, essendo stata trattata per ultima, non incide minimamente sull'impianto generale dell'opera. In realtà era proprio da essa che si sarebbe dovuti partire per comprendere la natura "culturale" della merce, cioè la sua origine "religiosa". In Marx vi sono dei limiti ermeneutici dovuti esclusivamente ai suoi pregiudizi in materia di religione.

Per Marx la "necessità storica" del capitalismo è dipesa dal fatto che nel modo di produzione feudale esisteva unicamente la proprietà privata dei mezzi produttivi, mentre quella collettiva era di scarsissimo rilievo.

"Questo modo di produzione presuppone una minuta ripartizione del suolo e degli altri mezzi di riproduzione [per Marx questo significa "dispersione, ristrettezza, egoismo sociale, povertà di mezzi..."], ed esclude, oltre alla concentrazione dei mezzi di produzione [il modello di produzione è quello delle moderne aziende capitalistiche!], anche la cooperazione [per Marx non esiste alcuna forma di "cooperazione" nell'ambito della famiglia patriarcale o tra famiglie patriarcali nell'affronto dei problemi comuni], la divisione del lavoro in seno agli stessi processi produttivi [ma la divisione del lavoro non trova forse la sua vera ragion d'essere in una solida cooperazione tra produttori?], il soggiogamento e la regolarizzazione della natura da parte della società [oggi un socialismo che dicesse questo non avrebbe nulla di democratico], il libero sviluppo delle forze produttive sociali [che però sotto il capitalismo non è mai esistito, in quanto il "sociale" è stato sostituito dal "privato" o, come nel socialismo reale, dallo "statale"]. Esso non si sviluppa che entro un ambito ristretto e assolutamente spontaneo della produzione [da notare l'equiparazione che Marx pone tra "spontaneismo" e "sviluppo secondo ritmi naturali"] e della società"(p. 1014, ed. Newton Compton).

La concezione della storia di Marx, per quanto concerne l'idea della "necessità storica", è tutta di derivazione hegeliana: vi è stata solo una sostituzione di categorie, che da filosofiche son divenute economiche.

Marx plaude al superamento della formazione feudale in nome del fatto che è preferibile una produzione sociale, di operai collettivizzati, in mano a singoli capitalisti, piuttosto che una produzione individuale (il servaggio viene considerato tale) in mano a singoli contadini tra loro separati e dipendenti da un signore analfabeta sul piano economico, e quando critica che tale transizione sia avvenuta con "metodi violenti", in ultima istanza la giustifica in nome della "necessità storica". Questo perché dolori e sofferenze inenarrabili saranno redenti dalla stessa storia, che si preoccuperà di espropriare i capitalisti, dando origine, per la prima volta nella storia del genere umano, a una produzione davvero sociale e consapevole, scientificamente organizzata.

Tutti i protagonisti delle vicende storico-sociali, non essendo consapevoli delle cause di fondo che generano i mutamenti dei processi storici, non sono considerati in alcun modo "responsabili"; o meglio, si può esser consapevoli delle dinamiche di un processo ma non responsabili della sua nascita, in quanto le generazioni ereditano sempre delle condizioni già date.

"Questa tremenda e spaventosa espropriazione delle masse della popolazione forma la preistoria del capitale"(p. 1014).

Paradossalmente per Marx la transizione dal capitalismo al socialismo potrà avvenire solo dopo che tutta la formazione sociale pre-capitalistica sarà stata distrutta dal capitale, solo dopo che si sarà verificata la più grande centralizzazione di capitali a livello internazionale.

A quel punto infatti diminuiranno i capitalisti medi e piccoli (espropriati dai più grandi) e aumenteranno a dismisura gli sfruttati, rendendo così evidente al mondo intero il contrasto tra "bene" e "male". La contraddizione tra rapporti e forze produttive diverrà insostenibile.

Come per incanto sorgerà allora l'istanza di liberazione, poiché alla stragrande maggioranza delle popolazioni apparirà un controsenso continuare a sviluppare il capitalismo in mezzo a una crescente miseria.

Il passaggio dal capitalismo al socialismo sarà molto meno doloroso di quello dal feudalesimo al capitalismo, poiché ieri si dovettero espropriare milioni di lavoratori, domani invece basterà espropriare pochi capitalisti.

Oggi dovremmo però aggiungere che questi "pochi capitalisti" detengono un potere enorme, in grado di distruggere decine di volte l'intero pianeta, un potere che è aumentato a dismisura proprio perché, invece di reagire subito, si è preferito assumere, nei loro confronti, posizioni attendiste e concilianti o comunque non sufficientemente risolute.

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Ecco un'affermazione di Marx che bene evidenzia il bisogno, quando risulta ostica la spiegazione del motivo culturale che genera il passaggio da una forma più primitiva di capitalismo a una più evoluta, di appellarsi alla categoria della "necessità storica": "il denaro viene trasformato in merci la cui unione costituisce la forma naturale del capitale produttivo, la quale quindi già racchiude in sé latente, in potenza, il risultato del processo di produzione capitalistico"(II libro, p. 42).

Il passaggio dal capitalismo commerciale a quello industriale viene considerato da Marx inevitabile, salvo imprevisti esterni che ne impediscono forzatamente la realizzazione. E qui calza a pennello -dice nella nota 189 di p. 951- l'esempio dell'Italia, la cui improvvisa involuzione storica viene fatta risalire alla scoperta dell'America, che impose il primato dell'Atlantico sul Mediterraneo.

Tuttavia è davvero strano che la prima potenza europea sul piano del capitalismo commerciale si fosse lasciata superare in così poco tempo da nazioni economicamente molto più arretrate. Gramsci addebitò l'involuzione alla mancata realizzazione dell'unità nazionale. Ma questa causa fu in realtà una conseguenza della mancata trasformazione del capitalismo da commerciale a industriale.

Il vero motivo che impedì all'Italia di trasformarsi nella prima nazione industriale d'Europa o comunque in una nazione capitalistica non meno importante dell'Inghilterra, fu la Controriforma.

Nel momento in cui la borghesia italiana accettò, seppur malvolentieri, la Controriforma (e fu un'accettazione più politica che culturale), tolse a se stessa la possibilità di diventare "capitana d'industria" e impedì al popolo italiano di realizzare l'unificazione nazionale e di costituire uno Stato indipendente dalla chiesa.

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Interessante l'osservazione secondo cui il capitalismo nasce nel XVI con la nascita della manifattura - fenomeno che appunto in Italia, rimasta ferma al livello dei commerci, non è avvenuto e che avverrà in particolar modo laddove s'imporrà una qualche riforma protestante, cioè una forma di emancipazione dal dominio o culturale o politico della chiesa romana.

Senza manifattura non è neppure il caso di parlare di espropriazione dei contadini. La prima industrializzazione della vita sociale è costituita dalla manifattura ed è con questa che la borghesia distrugge l'artigianato e subordina l'agricoltura.

Cosa ha impedito alla borghesia italiana di compiere questo passaggio? E' stata appunto la religione cattolica, che, nonostante tutti i suoi palesi abusi, costituiva allora un'idealità più alta della religione protestante.

La borghesia italiana, nel complesso, non era ancora sufficientemente cinica e individualista.

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Più che di una contraddizione macroscopica (quella sottolineata da molti economisti borghesi), tra il I° e il II° libro del Capitale (contraddizione che in realtà è più apparente che reale), si deve piuttosto parlare di un'accentuazione del fatto che, in ultima istanza, è il processo di circolazione del capitale che determina quello produttivo.

Marx deve essersi chiesto ripetutamente il motivo per cui il capitalismo non sia nato là dove era forte il capitale commerciale: nel I° libro la risposta non era stata data in maniera precisa. Il capitalismo -si era detto- nasce là dove esistono sia un certo volume di capitali circolanti, sia la presenza sul mercato di una certa disponibilità di forza-lavoro, separata dai mezzi produttivi.

Ora, nel II° volume Marx sembra aver accentuato il fatto che, per la formazione del capitalismo, la determinante in ultima istanza è una forte e massiccia presenza di capitale monetario. Laddove esiste ciò è impossibile che ad un certo punto non nasca il capitalismo.

Col che Marx continua a dibattersi in un problema che non trova soddisfacente soluzione. La differenza principale tra capitalismo commerciale e quella industriale può essere di tipo meramente "quantitativo", come p.es. il volume delle merci o del capitale monetario circolante?

In realtà il capitalismo non ha bisogno solo di capitali circolanti e di manodopera salariata, ma anche, prima di tutto, della presenza culturale di un'ideologia di vita, che ne legittimi la nascita o che comunque ponga le basi, anche senza volerlo, per la sua gestazione.

Il capitalismo non può nascere come "figlio legittimo o naturale" di un sistema pre-capitalistico in decomposizione; o meglio, perché nasca con una patente di legittimità o di naturalità, occorre che venga elaborata un'ideologia specifica che s'incarichi di far sembrare bianco il nero e viceversa.

Occorre un'ideologia che s'insinui nei punti più deboli delle strutture dominanti, politicamente ancora forti, ma largamente sofferenti di una certa incoerenza tra valori, affermati in sede teorica, e realtà concreta.

Questa ideologia alternativa può cercare il compromesso con le istituzioni dominanti, ma deve comunque essere disposta, in caso di necessità, a trasformare i propri ideali in una lotta politica vera e propria.

Altrimenti si rischia che un'analisi approfondita delle contraddizioni del capitalismo finisca col fare gli interessi del capitale, che può servirsene per meglio riprodursi.

Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/