AMARTYA SEN

 

 

A cura di Diego Fusaro

 

 

 

A. SEN



Amartya Sen nacque nel 1933 a Santiniketan (in Bengala): divenne docente presso l’università di Calcutta, presso il Trinity College di Cambridge, poi a Nuova Deli, alla London School of Economics, a Oxford e, successivamente, all’università di Harvard. Nel 1998, pur mantenendo la sua carica di docente ad Harvard, ha fatto ritorno come rettore al Trinity College. Presidente della Economic Society, della International Economic Association, della Indian Economic Association, a Sen è stato conferito il Premio Nobel per l’economia nel 1998. Egli è autore di numerosissime opere, delle quali meritano sicuramente di essere ricordate Collective Choice and Social Welfare (1971), On Economic Inequality (1973), Commodities and Capabilities (1985), Etica ed Economia (1987), Inequality Reexamined (1992), Lo sviluppo è libertà (1999), Globalizzazione e libertà (2002).

Ciò che Amartya Sen si propone di porre al centro della propria riflessione è la discussione sulla disuguaglianza, letta però in una “nuova direzione” che si contrapponga a quelle tradizionali e prevalenti. L’idea di disuguaglianza (inequality) deve secondo Sen confrontarsi con due diversi ostacoli: a) la sostanziale eterogeneità degli esseri umani; b) la molteplicità dei punti focali a cui la disuguaglianza può essere oggetto di valutazione. Al di là della “potente retorica dell’uguaglianza”, che trova il suo apice nella nota asserzione per cui “tutti gli uomini nascono uguali”, Sen è convinto che gli individui siano del tutto diversi gli uni dagli altri e che dunque il pur ambizioso progetto egualitario debba muoversi “in presenza di una robusta dose di preesistente disuguaglianza da contrastare”. Sen è d’altro canto convinto che la misurazione della disuguaglianza dipenda dalla variabile focale (felicità, reddito, ricchezza, ecc) attraverso cui si fanno i confronti: la misurazione della disuguaglianza dipende cioè dai parametri assunti per definirla. La prima conseguenza di ciò sta nel fatto che, se tutte le persone fossero identiche, l’eguaglianza in una sfera (ad esempio nelle opportunità o nel reddito) tenderebbe ad essere coerente con eguaglianze di altre sfere (ad esempio, l’abilità di funzionare). Ma poiché le persone non sono affatto identiche, ma anzi vige un’assoluta “diversità umana”, ne segue che l’eguaglianza in una sfera tende a coesistere con disuguaglianze in altre sfere: così, ad esempio, redditi uguali possono coesistere con una forte disuguaglianza nell’abilità di fare ciò che si ritiene importante (un sano e un malato, pur avendo lo stesso reddito, non possono fare le stesse cose), ecc. La seconda conseguenza fondamentale scaturente dal fatto che la misurazione della disuguaglianza dipende cioè dai parametri assunti per definirla sta nel fatto che la disputa non si innesta tanto fra egualitari e anti-egualitari, giacché tutte le più importanti teorie etiche degli assetti sociali sono comunque favorevoli alla “eguaglianza di qualche cosa” (e infatti nelle loro scelte politiche tendenzialmente egualizzano una qualche dimensione della vita umana). Una prova di ciò sta nel fatto che anche le teorie considerate tradizionalmente come “anti-egualitarie” finiscono poi per essere egualitarie nei termini di qualche altro “punto focale”. Così l’iper-liberale Nozick rigetta tout court l’eguaglianza di reddito e di benessere, ma di fatto difende strenuamente l’eguaglianza di libertà (tutti gli individui sono parimenti liberi). Ciò vuol dire – rileva Sen – che per poter parlare di eguaglianza occorre preventivamente porsi il duplice quesito: a) why equality? (“perché eguaglianza?”); b) equality of what? (“eguaglianza di che cosa?”). Non si può infatti pretendere di difendere l’eguaglianza (o di criticarla) senza sapere quale sia il suo oggetto, ossia quali siano le caratteristiche da rendere uguali (redditi, ricchezze, opportunità, libertà, diritti, ecc). Interrogarsi sull’uguaglianza significa dunque innanzitutto interrogarsi su quali siano gli aspetti della vita umana che debbono essere resi eguali. La storia della filosofia ci offre una molteplicità di esempi diversi di soluzioni: Rawls descrive l’eguaglianza come un paniere di beni primari di cui tutti gli individui dovrebbero disporre; Dworkin come eguaglianza di risorse; gli utilitaristi come eguale considerazione delle preferenze o delle utilità di tutti gli individui. Quale, tra queste, è la soluzione migliore? Sen collega il valore eguaglianza al valore libertà: quest’ultima è da lui connessa ai concetti di “funzionamenti” e “capacità”. Non è un caso che, in origine, Sen voleva che l’opera La diseguaglianza fosse intitolata Eguaglianza e libertà. Con l’espressione funzionamenti (functioning) Sen intende “stati di essere e di fare” dotati di buone ragioni per essere scelti e tali da qualificare lo star bene. Esempi di funzionamenti sono ad esempio l’essere adeguatamente nutriti, l’essere in buona salute, lo sfuggire alla morte prematura, l’essere felici, l’avere rispetto di sé, ecc. Con l’espressione capacità (capabilities) Sen intende invece la possibilità di acquisire funzionamenti di rilievo, ossia la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”. Per questa ragione, Sen sottopone a critica tutte quelle teorie che fanno della libertà un qualcosa di meramente strumentale, privo di valore intrinseco: gli stessi Dworkin e Rawls hanno soffermato la loro attenzione più sui mezzi e le risorse che portano alla libertà che non sull’estensione della libertà in se stessa. I “beni primari” di cui dice Rawls e le “risorse” di cui scrive Dworkin sono agli occhi di Sen degli indicatori assai imprecisi e vaghi di ciò che si è realmente liberi di fare e di essere. Ancora più vago e impreciso è il “reddito”, poiché una persona malata e bisognosa di cure è sicuramente in una condizione peggiore di una persona sana avente il suo stesso reddito. La conclusione a cui Sen perviene passando dalla critica delle altrui posizioni è che il grado di eguaglianza di una determinata società storica dipende dal suo grado di idoneità a garantire a tutte le persone una serie di capabilities di acquisire fondamentali funzionamenti, ossia un’adeguata qualità della vita o well-being generale (cioè non ristretto entri parametri strumentali o economici). Fedele a questa impostazione, Sen è giunto, nei suoi scritti successivi, a tratteggiare una teoria dello sviluppo umano in termini di libertà (development as freedom). E, nel fare ciò, si è direttamente riallacciato alla tradizione greca, inaugurata da Aristotele, dell’eudaimonìa: l’espressione greca eudaimonìa non corrisponde affatto alla sua usuale traduzione inglese in happiness (felicità), ma ha piuttosto a che vedere col termine fulfillment, che vuol dire realizzazione completa di sè e che può essere resa con la bella immagine di una “vita fiorente” (flourishing life), ossia di una vita che fiorisce in tutte le sue potenzialità. L’eudaimonìa quale la intende Sen si contrappone direttamente al vecchio ideale della Welfare economics, che bada soltanto al benessere materiale: ma si oppone anche alla formulazione monistica che dell’eudaimonìa ha dato lo stesso Aristotele. Secondo Sen, infatti, l’eudaimonìa deve portare ad uno sviluppo pluralistico, per cui “esiste una pluralità di fini e di obiettivi che gli uomini possono perseguire”. L’errore commesso da Aristotele sta nell’aver individuato una “lista” di funzionamenti universalmente valida, trascurando di fatto l’individuo. Secondo Sen, invece, essendo tanti i fini e gli obiettivi che ciascun individuo può legittimamente perseguire, anche le capabilities sono una pluralità.                         



Recensione di "Identità e violenza"


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