- ANTROPOLOGIA FILOSOFICA -

Uomo animale razionale

A cura di Methusela

prof. Paolo Pagani

ANIMALE RAZIONALE: STORIA E CRITICA DI UNA DEFINIZIONE

EXCURSUS STORICO

La definizione di uomo è una formula capace di richiamarne la struttura, l’essenza (eidos). Ma non è l’uomo l’indefinibile per essenza? Questo crea un paradosso, perché è pur sempre un’indicazione: allora si accetterà una definizione che al meglio sappia rendere ragione dell’indefinibilità che l’uomo porta con sé. Già per Platone nel Menone, interrogarsi su quale sia l’eidos di qualcosa ha senso nella misura in cui di quel qualcosa si sappia già in qualche modo cosa sia, si abbia una certa immemoriale visione.

GRECI

Aristotele

Nel testo più antico, i Topici (cose relative ai topoi, i luoghi comuni), si sofferma sulla definizione (horismos – confine – è un discorso che esprime l’essenza individuale oggettiva) e sugli elementi del discorso che sono i predicabili (kategoroùmena); questi sono funzioni concettuali che classificano alcuni significati o li precisano: definizione, genere, proprio, accidente, implicitamente specie e differenza, e anche definizione (intesa non come proposizione o giudizio, ma equivalenza tra significati). Come esempio Aristotele si chiede se ‘animale terrestre bipede’ sia una valida definizione di uomo, cioè se i due termini sono reciprocamente convertibili. Animale (zòon) è il genere (ghenos – è il predicato immanente all’essenza di molti oggetti differenti per specie), cui la specie (eidos) è immediatamente riconducibile. Il genere è un significato immanente all’essenza (ousia) della specie: la specie partecipa del genere, ma non viceversa; quanto è contenuto nella specie è anche contenuto nel genere, ma non viceversa. Il genere è inoltre più pertinente alla specie di quanto non lo sia la differenza specificante (diaphorà); essa è meno estesa del genere cui si riferisce (ne esprime una qualità), e non partecipa di esso, tuttavia lo involge in modo non necessario (si può riferire anche ad altri generi); la differenza si estende altrettanto o più della specie. Il genere è più ampio della differenza, e non partecipa di essa, solo rovesciando i fattori si può avere la definizione. La funzione di genere è inoltre relativa. Il proprio è un carattere che implica materialmente la presenza di una certa essenza o natura, ed è dunque convertibile con essa, anche se non completamente: esso ne è condizione sufficiente, ma non necessaria (si individuano così le proprietà specifiche dell’uomo, cioè i caratteri che risultano convertibili con la specie). Si distingue tra un proprio per sé, un carattere che specifica la realtà che ne è portatrice, rispetto ad ogni altra; e il proprio rispetto ad altro, che distingue la realtà in questione da qualche altra determinata realtà. Nel contesto culturale greco è invece una difficoltà accettare la definizione di uomo quale animale razionale, perché non assicurerebbe una convertibilità con l’essenza, non sarebbe dunque né proprio né definizione, perché anche gli dei sono considerati in tale prospettiva. Il genere, funzione concettuale che non può essere evitata, realizza una qualche identità (tautòtes), e questa si dice in molti modi: essa è testimoniata dall’unicità della definizione, cioè per tutta l’estensione del genere vale una sola definizione.

Nell’Etica Eudemia leggiamo che l’uomo è un animale non solo politico (politikòn), ma anche domestico (oikonomikòn), e propriamente non è un solitario, piuttosto è un animale comunitario (koinonikòn), che costituisce comunità e giustizia anche in assenza della polis, la famiglia è inoltre una forma di amicizia. Tali connotazioni non qualificano l’uomo e non sono nemmeno dei propria (ìdia), perché non dicono dell’essenza. Sono condizioni necessarie ma non sufficienti, sono implicati materialmente dall’essenza della specie. Tali caratteri sono chiamati (soprattutto in Porfirio) accidenti inseparabili o necessari, perché non esprimono l’essenza, ma accompagnano sempre l’oggetto (sono attributi che appartengono a ciascuna cosa ma non rientrano nella sostanza stessa della cosa). Nel caso della funzione definitoria si realizza una doppia implicazione, infatti c’è l’uomo se e solo se ci sono i caratteri definitori della sua specie.

Nella Politica (libro A) l’uomo è detto zòon lògon èchon (animale avente il logos – deriva dal verbo leghein, legare, poi traslato in dire e pensare), ed evidentemente qui il logos riferito all’uomo è la parola. Dopo aver ribadito che l’uomo è animale politico, qui si distingue la voce (phonè), che è data anche agli altri animali, dal logos, che costituisce il proprio dell’uomo, che è l’unico ad avere coscienza del bene e del male. Anche nell’Organon (De Interpretatione) il discorso è suddiviso in phonè e pathèmata (realtà accolte), le cose ricevute dall’anima, contenute nell’intelletto umano. Il discorso umano è allora una realtà simbolica, è una manifestazione sensibile di significati colti dall’intelletto. La definizione sembra allora ottenere completa compatibilità, e se leggiamo anche il libro E dell’Etica Nicomachea, vediamo come l’anima sia dotata di ragione: tuttavia per Aristotele anima è comunemente intesa come sinonimo di sinolo umano, dunque forse lògon èchon va anche qui inteso come l’uomo stesso, in quanto dotato della componente razionale dell’anima.

Concludendo, Aristotele riconosce nella definizione un carattere falsificabile, in quanto l’oggetto non è identico alla definizione. Essa appartiene al linguaggio umano, ma non ha valore apofantico, dunque non è un giudizio, ma appartiene al generico discorso significante.

Stoici

L’espressione animale razionale (zòon logihikòn) compare qui corredata dall’ulteriore connotazione mortale (thnetòn), che distingue l’uomo da Dio. Logos è qui inteso come ragione, anziché come parola. Nei frammenti raccolti dal Von Arnim il pensiero di Crisippo sottolinea la ratio come fattore distintivo dell’uomo rispetto agli animali bruti. Inoltre essa è senz’altro comune a tutti gli uomini, per questo gli stoici hanno considerato per primi l’uguaglianza. La ratio è tratto specificante della specie umana, che consente all’uomo di interpretare attivamente le leggi della natura.

Plotino

Eredita la formula stoica, ma nelle Enneadi – VI, 7, 4-5 (raccolta di 9 trattati, insiemi di 6 raccolte, redatte da Porfirio), la critica, rilevando una discussione dilemmatica. O l’uomo è animale razionale, o è semplicemente anima, nel senso di anima del mondo (Aristotele vs Platone). Nel primo caso sarà impossibile l’immortalità, nel secondo non si tratterà dell’uomo vero (di cui si fa esperienza). Si ha un dilèmmaton, un dilemma retorico (disgiunzione tra due possibilità alternative che porta inconvenienti in entrambe le scelte – Ermogene di Tarso). Le uscite tuttavia non sono contraddittorie, per cui si può tentare una via di mezzo: l’uomo inteso come animale razionale, nel senso che comprenda in lui l’anima specifica, comporterebbe un’unione accidentale di anima e corpo, che escluderebbe ancora l’immortalità. Tale difficoltà per Plotino riguarda tutte le realtà la cui idea venga da noi conosciuta all’interno della materia: occorrerà capire cosa vi è di immanente nell’uomo. Dunque la traduzione analitica di animale razionale è realtà animata da una vita razionale, dove il fattore animante è l’anima. Ora, o la vita dell’uomo è atto (enèrgheia) dell’anima del mondo, oppure la vita dell’uomo è la stessa anima del mondo. Nel primo caso l’uomo non sarebbe però una sostanza autonoma, nel secondo non si tratterebbe dell’uomo vero. Ma si può ancora uscire da questo dilemma: l’uomo è un’essenza (logos) diversa dall’anima, è piuttosto un atto determinato dall’anima. Egli è anima decaduta in altro, e il suo decadere sta appunto nel porre questo altro. L’elemento attivo nell’uomo è allora quest’anima decaduta, quella che Platone indicava come dominatrice del corpo.

Nelle Enneadi – I, 1, 2-7 l’anima dell’uomo è descritta come una forma (eidos) che per l’aspetto razionale da fa pilota al corpo, e per l’aspetto vegetativo e sensitivo si mescola ad esso. La filosofia istruisce appunto su come esercitare la parte razionale. Si parla anche dell’uomo come di un composto, chiamato animale, dove è solo l’anima razionale (logihikè psychè) che ragiona e desidera il bene. Plotino dunque riconosce all’uomo un’essenza razionale, che risiede originariamente nella parte razionale dell’anima, io (egò) o sé (autòs); e l’immortalità riguarda questa e non il composto.

Porfirio

Nell’Isàgoge sono introdotte le categorie di Aristotele; la catalogazione porfiriana comprende genere, differenza, specie, proprio, accidente.

Il genere è il predicato di più soggetti, i quali differiscono per specie, e si predica in relazione all’essenza.

La specie è ciò che è subordinato al genere, è ciò che si predica di più realtà; Porfirio parla della specie infima, che non può essere genere di altre specie, ma che si può suddividere solo in individui. Ugualmente l’albero di Porfirio non si sospinge al di sopra dei generi supremi: sostanzaà naturaleà corpoà viventeà essere viventeà sensitivoà animaleà razionaleà animale razionaleà mortaleà uomoà Socrate.

L’albero si svolge per dicotomia, e la suddivisione avviene con l’introduzione di differenze (corsivi). I significati superiori si predicano sempre degli inferiori.

La differenza determina nel genere l’alterità, è ciò per cui la specie supera il genere in comprensione, ovvero in complessità di significato (estensione riguarda l’applicabilità a individui). Le differenze che ineriscono alla specie in modo da costituirla sono dette costitutive o inseparabili. Il genere avrà anche differenze divisive nelle quali potenzialmente si articola (la potenza è la dimensione dell’essere che permette la contraddittorietà). Differenze costitutive e divisive saranno insieme specifiche; le differenze specifiche conducono all’essere e sono parte integrante dell’essenza della cosa (to ti en èinai), ne caratterizzano l’essenza.

Il proprio indica una caratteristica o capacità dell’essenza, pur non essendone un elemento costitutivo. Il proprio in senso principale (intensivo) appartiene esclusivamente alla totalità della specie, e può essere anche solo in potenza. Risulta pienamente convertibile con l’essenza della specie.

L’accidente è ciò il cui esserci o non esserci lascia inalterata l’essenza del soggetto. Può essere separabile o inseparabile, la presenza di questo è condizione necessaria ma non sufficiente dell’essenza specifica in questione.

Relazioni tra i predicabili:

 

TOMMASO

È domenicano Magister Theologiae alla Sorbona di Parigi intorno alla metà del XIII sec.

Nel suo De ente et essentia ritroviamo la definizione dell’uomo come animale razionale, portata incidentalmente per spiegare certe strutture ontologiche e classificatorie.

Si riprende la distinzione classica tra materia e forma, che insieme danno luogo alla composizione ilemorfica, che Tommaso applica solo alle realtà sensibili. L’essenza di queste è sempre forma di una materia; ciò che si vede e si tocca è il sinolo o composto, e al suo interno è la forma; la materia è invece ciò che varia ed è soggetto a ricambio. Materia e forma sono significati relativi. Nel caso dell’uomo la forma è l’identità strutturale, che permane attraverso il ricambio organico (può cambiare sensibilmente, ma solo accidentalmente); la materia è il contenuto sempre diverso di tale ricambio, rappresenta il divenire cui tutto è sottoposto, e non è mai definibile, ma solo indicabile. Anima razionale è detta la forma sostanziale dell’uomo, è la forma che imprime il proprio carattere alla sostanza (è ciò che forma il sinolo). La coppia materia-forma corrisponde a quella corpo-anima, se il corpo viene inteso come il contenuto ricambiabile dell’anima stessa: il corpo è ciò che si vede dell’anima.

Nel cap. 3 del De ente et essentia si trova la trattazione sui categoremi. Il genere animale indica l’intero dell’uomo; qui il genere è inteso come forma aperta a ricevere ulteriori perfezioni. Analogamente la differenza specifica indica l’intero dell’uomo. Animalità e razionalità stanno tra loro come materia e forma: la differenza dà forma a quella materia che è il genere. Animalità e razionalità sono due astrazioni che indicano, l’una la materialità dell’intero e l’altra la formalità del medesimo. Che tutto l’uomo sia animale non significa però che egli sia animalità chiusa in se stessa: si tratta di una predicazione analogica, che non considera il genere come concreto, ma come capace di flettersi a seconda delle differenze specificanti che viene ad assumere. Il genere e la differenza sono due dimensioni coestensive della specie: l’uomo razionale è lo stesso uomo senziente; l’animalità è qualificata dalla razionalità e la razionalità è qualificata dall’animalità. Dunque l’intero dell’uomo non è né l’anima né il corpo: essi sono due componenti del composto ilemorfico; in tal senso la coppia generica materia-forma non è adatta alla coppia animalità-razionalità, perché i due si fondano l’un l’altro. Inoltre, la coestensione con la razionalità riguarda l’animalità e non il corpo, e l’anima non è da sola una sostanza. Perciò il compimento dell’uomo sta in una realizzazione corporea che sappia esprimere adeguatamente quella forma che è l’anima razionale (resurrezione della carne), dove questa sottintende le funzioni vegetative e sensitive.

Nel De potentia leggiamo che l’uomo riceve dalla medesima forma sostanziale sia il suo essere animale che il suo essere uomo, dato che non è possibile per una stessa sostanza avere più forme sostanziali. Nel genere animale l’anima razionale è presente solo in potenza; inoltre togliendo le differenze rimane il genere, ma se si tolgono gli accidenti rimane il soggetto cui ineriscono.

Nella Summa theologiae il vizio è detto ciò che è contrario alla natura dell’uomo in quanto animale razionale: i più gravi sono quelli che corrompono la base animale.

In Tommaso vediamo che il modo proprio dell’uomo di essere persona è riducibile all’espressione animale razionale: la persona in generale è una realtà individuale capace di conoscere in maniera razionale; ciò che specifica l’uomo è dunque la sua caratteristica fisiologica, che lo classifica in una specie animale. La persona umana è coniugazione di finitudine e infinitudine: la razionalità è capacità di aver presente l’intrascendibile, l’animalità è la collocazione spazio temporale in cui si apre la capacità razionale. Il corpo è il realizzarsi sensibile dell’anima razionale, che ne è la forma sostanziale (materia e forma); questa coppia è diversa da animalità e razionalità, che esprimono il sinolo di materia e forma.

Riprendendo il concetto boeziano di persona (persona est rationalis naturae individua substantia), Tommaso sottolinea il termine individua, che indica la non divisibilità che si trova in tutti i generi dell’essere, ma in modo particolare nella sostanza, ed ancora più perfettamente si realizza nelle sostanze razionali, che hanno dominio sul proprio agire. Natura è invece intesa come l’essenza in quanto capacità operativa. L’anima, benché sia separata, ha la tendenza a riunirsi al proprio corpo, quindi non è da sola una vera e propria sostanza. La sostanza individuale, intesa come supposito, si ha nella persona (individua substantia = sostanza in senso proprio). Persona è l’analogato principale all’interno del genere sostanza; sembra dunque che l’individuo per eccellenza sia la persona e la sostanza in senso principale non sia la cosa inerte. L’individualità in senso pieno è l’autocoscienza, dunque la capacità della persona di stare presso di sé, di ritornare su di sé. Infatti anche se la persona si può considerare soggetto di predicazione, ciò avviene proprio in quanto essa è capace di essere per sé.

In sintesi: la persona è sostanza individuale nel senso principale del termine, e sostanza eminente in quanto autoidentità riflessiva; inoltre è di natura razionale cioè dotata di un’essenza dinamica, caratterizzata dall’apertura all’essere che non è mai presente panoramicamente, ma per apprensioni parziali e progressive.

 

KANT

Si muove dalla considerazione cartesiana della netta divaricazione tra animalità e razionalità, giustificata dal fatto che l’io cogitante potrebbe concepire se stesso anche come privo di corpo (inteso come meccanismo, che azzera ogni differenza tra il corpo di un uomo e quello di un animale).

L’edizione tipica delle opere kantiane sono gli Scritti integrali di Kant pubblicati dalla Reale accademia prussiana tra il 1950 e il 1955; noi ci occuperemo di questioni tratte da La metafisica dei costumi (1797).

Kant è attivo nella seconda metà del VIII sec. a Konigsberg; si forma nella scolastica wolffiana e dal 1770 inizia una nuova fase, quella del criticismo. Ora egli distingue tra Denken, il pensare per concetti non traducibili in rappresentazioni, e l’Anschauen, l’intuizione delle caratteristiche elementari del mondo fisico. La capacità concettuale pura mette capo alla ragione, la capacità intuitiva alla sensibilità, ovvero la capacità di organizzare i dati sensibili secondo le forme pure dello spazio e del tempo. Contenuto della ragione sono i noumena, della sensibilità sono i phaenomena. L’intelletto è la capacità di giudicare, cioè unificare aspetti del mondo fenomenico sotto speciali concetti (a priori) detti categorie, ovvero le possibilità della organizzazione dei fenomeni nell’esperienza; esse mettono capo all’Io penso, garante dell’unificazione. L’oggetto d’esperienza è qui inteso il contenuto di un giudizio sintetico a priori. L’immaginazione produce immagini pure o schemi costruiti nel tempo e nello spazio puri; gli schemi sono chiavi di lettura attraverso cui l’immaginazione interpreta i fenomeni in modo da renderli omogenei alle categorie. Lo schematismo consente l’elaborazione di un sapere sintetico a priori, dunque universale e necessario. Alle idee della ragione manca invece un materiale fenomenico, conducono a un sapere non determinante, tuttavia stimolano a progredire e vietano di considerare i risultati acquisiti esaustivi; consentono di considerare il mondo come se fosse luogo della finalità; e fungono da presupposti allo sviluppo della vita morale. Questa si crea intorno alla legge morale, che si configura come un imperativo: agire in modo tale che il criterio della nostra azione possa essere in teoria riconosciuto e assunto come criterio valido da tutti gli esseri razionali. L’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima e la libertà dell’uomo sono le tre idee in cui non è contenuto niente di impossibile, dunque sono reali concettualmente. La libertà in particolare è implicata nella legge morale: il tu devi si rivolge a qualcuno che può accettarlo o rifiutarlo. La legge morale è l’unico vero punto di contatto dell’uomo con il noumeno. L’uomo in quanto è libero si dice persona, e la sua dignità consiste nella capacità di essere indipendente dall’empirico. La persona si trova dentro la legge morale, e non se ne può sbarazzare perché costituisce il punto di vista razionale. Essa fa parte e costituisce il Regno dei fini, che sono le persone stesse.

La metafisica dei costumi si divide nei Principi metafisici della dottrina del diritto e nei Principi metafisici della dottrina della virtù: il primo riguarda la legalità come conformarsi esteriore dei comportamenti alla legge morale, il secondo riguarda la moralità come conformarsi interiore alla legge morale. La metafisica è intesa da Kant come un sistema (organismo in cui tutto si tiene) di cognizioni a priori, derivato da puri concetti. I costumi sono invece i comportamenti umani in quanto frutto di scelta libera. Lo scopo è concludere come l’uomo dovrebbe comportarsi, e per fare ciò non ci si può basare su di un’antropologia, perché questa esamina l’uomo a posteriori. La distinzione dell’uomo del fenomeno e l’uomo del noumeno è evidenziata invece dall’esperienza morale.

Nell’obbligazione risiede l’autocontraddizione: in essa mi ritrovo sia obbligante che obbligato, perciò occorrerà distinguere tra uomo noumenico e uomo fenomenico. Già Platone nella Repubblica concludeva che nell’uomo hanno luogo due principi diversi: epithymetikòn e loghistikòn, che evitano la contraddizione nel ragionamento: se nell’uomo vi sono tendenze opposte circa la medesima azione possibile, allora queste mettono capo a principi diversi, ma tali tendenze ci sono, quindi mettono capo a principi diversi (che corrisponde all’argomentazione per assurdo o anagogia). Kant invece non considera l’uomo come soggetto di tendenze tra loro opposte, ma come soggetto e oggetto della medesima dinamica dell’obbligazione morale. Il ragionamento può essere giustificato in termini antinomici, la cui opposizione sarà risolta solo dall’introduzione di un fattore di ampliamento, che consente una distinzione di punti di vista e quindi la non violazione del principio di non contraddizione. L’uomo è obbligante in quanto soggetto (persona) e obbligato in quanto oggetto (animale razionale).

L’uomo che ha consapevolezza dell’obbligazione morale è l’uomo libero, che è soggetto razionale e si manifesta solo nei rapporti pratici morali, ovvero considerato nella qualità di persona (homo noumenon). L’uomo considerato come essere sensibile, ente naturale razionale è l’homo phaenomenon. Il primo è l’obbligante, il secondo l’obbligato, i due sono comunque una sola realtà. La distinzione non equivale a quella di anima e corpo, perché nell’uomo non possiamo distinguere sostanze diverse: gli obblighi morali sono dell’uomo verso se stesso. Dal punto di vista soggettivo essi si distinguono a seconda che l’uomo si consideri un essere animale e insieme morale (avremo allora gli impulsi naturali dell’autoconservazione, della conservazione della specie e del godimento moderato dei beni terreni, che l’homo noumenon ha il compito di far rispettare dall’homo phaenomenon senza eccedere); e che si consideri un essere puramente morale (così si conserverà puro nelle inclinazioni di natura e eviterà di cadere nei vizi). Kant in tutto ciò però continua a parlare dell’animalità come Thierheit, dove Thier significa bestia.

Kant considera equivalente l’uomo-fenomeno con l’animale razionale, e per lui animalità vuol dire cosalità e quindi mercificabilità: l’uomo non è mai solo animale razionale, ma anche persona dunque fine in se stesso. Ciò che conferisce dignità alla persona è la capacità di essere indipendente dal mondo empirico: il soggetto supera l’esperienza grazie alle condizioni trascendentali del suo pensare. La persona finisce dunque per coincidere con un’idea della ragione, non con un tipo di individuo (individua substantia). L’animale razionale è un materiale conoscitivo cui applicare l’idea di persona tramite una mediazione schematica. In Kant tuttavia il termine persona non sembra dire tutto dell’uomo e non è chiaro il rapporto tra persona e animale razionale. In Kant come negli Stoici inclinazioni e impulsi dovranno essere soppressi: la libertà è la liberazione della persona dall’animale razionale.

 

IL NOVECENTO

Husserl

I testi fondamentali dell’autore rimangono i tre libri delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913). Noi trarremo i temi dal libro Ideen II.

Fare fenomenologia vuol dire anzitutto rilevare tutto ciò che si offre, in qualunque modo si possa offrire, e nei limiti in cui effettivamente si offre. Un atteggiamento diverso è detto naturalistico: è quello che gli uomini sono abitualmente portati a tenere di fronte al mondo alla mano, circostante (ma che nelle scienze può diventare positivismo). Ponendomi in atteggiamento fenomenologico esercito l’epochè fenomenologica (sospensione critica): non assumo il mondo dato in quanto essente, ma come preliminarmente essente. La riduzione eidetica è l’attenzione alle strutture intelligibili tipica della fenomenologia. Queste sono le essenze, eidos, elementi costanti della datità.

L’io diventa realtà singolare e privilegiata nella ricostruzione per stratificazioni husserliana della natura umana, che finisce per ritrovare la definizione di uomo animale razionale. Ogni dato che immediatamente si offre è orientato verso un punto di fuga che a sua volta non è dato in modo diretto: è l’Ichpol, il polo-io (se esso fosse dato direttamente non ci sarebbe bisogno del cogito). C’è un io poi, al quale sono presenti sia i dati polarizzati che il loro punto di fuga: das reine Ich, l’io puro, il pensiero in quanto tale, condizione possibile dell’epochè, che esso stesso non può subire. Esso non è altro dal mio io empirico (empirische Ich), ossia la capacità di riflettere su di me come punto di fuga. In quanto riferimento prospettico l’io è Nullpunkt, punto zero, le cui mosse intenzionali sono scorci prospettici, che rinviano a qualcosa di ulteriore. Esso è in grado di situarsi e de-situarsi, diviene, e in quanto dotato di una dimensione fisica è io psichico (seelische Ich), composto da un versante fisico (Leib) e uno non fisico (intenzionale). L’intenzionalità, la capacità di aver presenti le cose, è esercitata dall’io con tutto se stesso. Già Agostino sosteneva che è l’anima a conoscere attraverso i sensi, ed in quanto conoscente, l’anima è io intenzionale. Segue poi l’io persona (Person Ich), soggetto responsabile di se stesso, in grado di rispondere razionalmente alle sollecitazioni della realtà. Esso si muove a partire da una base naturale e una base di vissuti (Erlebnisse), che lo fanno io-uomo (Ich Mensch).

L’io quotidiano è una compenetrazione di corpo e anima, il corpo così inteso è detto Leib, corpo vivente, che è anche espressione dello spirito, e la possibilità che lo spirito ha di entrare in relazione con il mondo. Ogni atto intenzionale (cogitation) parte da un certo punto di osservazione e ad esso ritorna; questo può essere individuato solo per riflessione e astrazione: l’io si dà come soggetto identico di un multiforme flusso di coscienza. Colui che opera l’astrazione, l’indagine è l’io puro, che non è un elemento materiale, non è alcunché di empirico, ma la capacità dell’io di aver presente lo stesso orizzonte dell’essere; costituisce la possibilità che l’esperienza umana abbia il suo tipico carattere di unità. Esso è capace di cercare l’eidos di ogni fenomeno, e sospendere l’atteggiamento naturalistico. In questo modo l’io è sempre già oltre se stesso, oltre la propria fisicità, psichicità e culturalità. L’io soggetto di questa esperienza unitaria è l’io empirico, che ha intorno a sé un mondo di cui egli stesso fa parte; è soggetto psichico reale, che accoglie in sé stati di coscienza, ed è connesso con il suo Leib: si forma così l’animale razionale. Il Leib è dunque il modo d’esser cosciente dell’io psichico, mentre il Korper è il corpo somatico, oggetto d’esperienza. Nel Leib varia la collocazione del punto zero, avviene una localizzazione sensoriale, non proiettabile direttamente sul Korper: il soggetto del toccare è sempre il Leib, l’oggetto il Korper. Abbiamo detto che l’io è apertura all’orizzonte dell’essere, ma non per questo tutti i contenuti di esso gli sono presenti in modo attuale: in presenza originaria sono dati solo alcuni aspetti, che l’io può comporre tra loro idealmente. Il corpo dell’altro uomo, in particolare, si dà a me come Leib, perché il suo comportamento e la sua vita psichica evidenziano segni espressivi che rappresentano nella somaticità l’esistenza psichica. La capacità di desituarci rispetto al nostro angolo di visuale è detta enteropatia.

Heidegger

Egli afferma sempre di non dimenticare la peculiarità dell’essere (das Sein). Il concetto di essere è indefinibile, non è qualcosa come l’ente, tuttavia la sua indefinibilità non dispensa dal problema del suo senso, e perciò richiederà una semantizzazione sua propria. Introduce allora la distinzione tra ciò che è proprio dell’ente (ontico) e ciò che è proprio dell’essere (ontologico). È da escludere che l’essere dell’ente venga pensato come un altro ente: è ciò che caratterizza la storia della metafisica da Platone a Nietzsche, la cui essenza è il nichilismo, il tentativo di ridurre l’essere ad un ente più elevato, un superente. È chiaro che così si ricade in un certo ente causa sui, cioè Dio.

L’ente rinvia all’essere che lo costituisce, c’è dunque da indagare perché l’essere manifesti l’ente piuttosto che il nulla. L’essere è aletheia, il dis-velamento originario, di cui non ha senso chiedersi la causa, e che si annuncia nell’ente. L’essere tuttavia non è solo aletheia, ma anche physis, perché capace di far sbocciare da sé, se stesso con i propri contenuti, quindi pone e sottrae se stesso. L’essere si dà in quanto tale nell’Esserci (Da-Sein), ovvero il pensiero di cui solo l’uomo è capace. Tale capacità è detta esistenza, intesa come sporgimento (ek-sistentia) oltre il piano ontico, verso l’ontologico. La comprensione stessa dell’essere è una determinazione d’essere dell’Esserci. Già Hegel e Rosmini parlavano di un pensiero puro coincidente con il manifestarsi dell’essere. Presenza è intesa come indistinzione originaria di essere e pensiero, e non è originariamente presenza a un soggetto empirico.

Il Dasein è sempre temporale, dunque è l’essere stesso ad esser temporale. Ma se l’essere si dà nel pensiero, e se il pensiero è strutturalmente linguistico, l’essere dunque si dà temporalmente ed ogni epoca del suo darsi coinciderà con un differente tipo di linguaggio ontologico.

La metafisica occidentale è caratterizzata da un linguaggio nichilistica. Di questa storia vi sono due versanti che partono da Platone: l’ontoteologia (scolastica, filosofie dei valori), che considera l’origine come un Ente, e pone Dio come creatore del mondo, come se l’essere fosse niente senza l’atto creatore; e l’umanismo (Cartesio, illuminismo, civiltà della tecnica), per cui gli essenti mondani non esistono al di fuori del loro essere oggetto del soggetto uomo, e la cui rappresentazione può diventare progetto e quindi permettere la riproducibilità all’infinito. Heidegger propone di negare il Dio della metafisica, per avvicinarsi alla divinità e sacralità che l’essere stesso cela in sé; bisogna recuperare un rapporto di custodia e indagine poetica con l’essere.

Heidegger riprende la definizione classica zòon logon èchon, e la traduce essere vivente che, in quanto vivente, ha il linguaggio (Sprache). Questa è ritenuta il punto di partenza delle grandi distinzioni del sapere, in particolar modo biologia e psicologia. Un essere vivente è un essere-in-un-mondo, e l’esercizio del linguaggio lo fa diventare essere-nel-mondo: vivere per l’uomo significa parlare. Se questa accezione è positiva, non lo è tanto quella della versione latina animal rationale, che nasconderebbe il terreno fenomenico (ontico, se inteso fenomenologicamente), dell’uomo, ossia dell’ente che parla.

L’errore si cela nell’interpretazione della coppia pensare-essere. Già Parmenide affermava che identico è il pensare e l’essere: l’essere non è dunque oggetto del pensiero dell’uomo, piuttosto il pensare è lo stesso orizzonte dell’apparire, il venire alla luce dell’essere (Erscheinung). Pensare non è dunque una facoltà o proprietà, è piuttosto l’evento che possiede l’uomo. La definizione dell’uomo sarà allora concepita in riferimento all’apparire dell’essere, e sarà una domanda anzitutto ontologica, non antropologica.

La lettera sull’umanismo del ’46 è la risposta al quesito di Beauffret "Come ridare un senso alla parola umanismo". Se per Humanismus si intende la figura della storia della metafisica, questo risulta improponibile, riconducendo sempre alla definizione animal rationale: la metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas e non in direzione della sua humanitas. Invece l’uomo è colui che è capace dell’essere in quanto tale, è pensato come la Lichtung in cui l’essere stesso appare. L’uomo sporge rispetto agli altri enti, e l’eksistentia è il fondamento della possibilità della ragione. Ma la stessa animalità ha il suo fondamento nell’eksistentia: il corpo (Leib) è qualcosa d’altro da un organismo animale. Tuttavia l’essenza dell’uomo non consiste nell’essere un organismo animale, e non può essere corretta con l’attribuzione di un’anima immortale o della ragione. Dell’uomo si può dire che è l’unica realtà che parla, egli è il pastore dell’essere, colui che ha cura dell’essere (ha cura che non venga dimenticato). Il linguaggio è avvento diradante-velante dell’essere, va interpretato come il luogo in cui l’essere si dà da pensare: l’uomo in questo senso riceve dall’essere, nel linguaggio, la propria destinazione (è dunque il linguaggio a possedere l’uomo, mentre per Aristotele era il contrario, e il suo linguaggio apofantico era strutturato per parlare solo dell’ ente). I poeti sono allora gli artigiani dei nomi, senza i quali non potremmo sporgere. Un nuovo umanismo è finalmente una nuova comprensione della natura dell’uomo.

 

 

PROPRI DELL’UOMO

Aristotele si domanda come sia possibile che il genere e la differenza diano luogo ad un’unità: la definizione ha carattere di unità, infatti si riferisce alla sostanza che è una e determinata; è il medesimo oggetto espresso secondo due punti di vista diversi. Questo perché il genere non può esistere in modo assoluto, il suo modo peculiare di esistere è essere materia della specie. Anche per Tommaso il genere è una struttura aperta a ricevere ulteriori perfezioni: nel nostro caso non esiste in noi la sola animalità, ma il nesso, il sinolo di animalità e razionalità. Proprio e accidente alludono all’essenza, pur non essendone espressive. Noi ricerchiamo le espressioni della natura razionale dell’uomo indagando i suoi caratteri propri.

 

LINGUAGGIO

Il linguaggio è proprium dell’uomo, è testimone della razionalità animale. Noi pensiamo parlando (considerando il pensiero concettuale), ovvero il linguaggio è espressione essenziale del parlare. Il nostro pensiero è un dialogo dell’anima con se stessa (Teeteto); il dire è pensare, inteso come manifestazione comunicativa di sé: qui Platone rileva la strutturale linguisticità del pensiero in quanto umano. Secondo Tommaso il pensare è in generale linguistico: il pensiero è parola interiore espressa dalla parola vocale, è produzione interiore immaginaria della voce esteriore (pensare è mimare interiormente i suoni). Non appena afferriamo un pensiero lo nominiamo; per capire dobbiamo parlare. Anche per Wittgenstein non possiamo pensare senza parole.

La struttura del linguaggio è simbolica, rinvia a qualcosa di non direttamente ostendibile. Secondo Aristotele le sue dimensioni costitutive sono i suoni della voce (phonè) e le cose ricevute dall’anima, di cui essi sono simboli (pathèmata), come i segni scritti sono simboli dei suoni vocali. I pathèmata, che accomunano tutti i parlanti, sono contenuti nel nous pathetikòs, e sono letteralmente realtà subite o accolte: il logos è dunque realtà simbolica, manifestazione sensibile di significati colti dall’intelletto.

Ciò che non è ostendibile è detto il contenuto eidetico, dunque una realtà non collocabile spazio-temporalmente, che appartiene ad un altro modo d’essere, e come tale va semplicemente rilevato. Husserl riprenderà tale concetto parlando dell’astrazione, che mette a tema l’essenza, ne dà consapevolezza (la visione dell’essenza è l’analogo del percepire sensibile, è la dimensione intelligibile del sapere). A questo proposito si introduce la questione dell’universalità dei significati. Nella scolastica si presenta l’astrazione universalizzatrice, o totale, ovvero la capacità dell’intelletto di cogliere spontaneamente la dimensione eidetica del reale percepito: astrarre significa prescindere dalla dimensione individuale dell’oggetto. Dunque l’intelletto umano è la capacità di cogliere nell’oggetto percepito, il significato (èidos) che gli è proprio: tale capacità è lo stesso intelletto recettivo, mai completamente mescolato alla corporeità (l’intelletto non ha alcun organo proprio). Ancora: chi, per conoscere, ha bisogno di compiere un’astrazione, quindi di smaterializzare il conosciuto, è a sua volta immateriale.

Riconoscere la relazione tra il significato puro e le realtà individuali significa formare un concetto universale, ma dato che l’universale non è che una declinazione del trascendentale, potrà formarsi concetti universali solo chi sia originariamente aperto all’orizzonte trascendentale, ossia l’uomo, che è esso stesso concetto universale. L’uomo è appunto struttura intelligibile (eidos), è pensabile come un concetto universale, immateriale, non soggetto a decadenza fisica. L’apertura ontologica dell’uomo avviene comunque in condizioni linguistiche, che metto in luce l’uomo come animalità aperta alla razionalità e razionalità che si realizza in condizioni animali. Il linguaggio è dunque simbolo della simbolicità umana.

Ci può essere tuttavia inautenticità del dire rispetto al pensare. Ci sono casi in cui il dire si riduce a semplice pronunciare: nell’autocontraddizione, in cui il pensiero è presente solo astrattamente, nell’insensatezza e nella malformazione grammaticale. Il pensare non può non essere pensare, il dire può invece cessare di essere autenticamente un dire: il pensare è ontologico per essenza, il dire è ontologico per vocazione. Non è possibile staccare il pensare dall’essere, si può però staccare il dire dal pensare, e quindi dall’essere.

C’è un luogo del linguaggio in cui l’umano si esprime in modo eminente: la metafora. È una figura linguistica che Aristotele per primo ha teorizzato nella Poetica, e che definisce una similitudine di rapporti contratta in singola predicazione (costituita da tema-ciò di cui la metafora parla e foro-ciò che porta luce sul tema). Essa porta il linguaggio oltre la sua forma immediata, è uno spostamento del significato che sottolinea la partecipazione dei modi dell’essere attraverso l’intreccio. Vi sono metafore espresse, metafore assopite (quando tema e foro non sono esplicitamente nominati), metafore lessicalizzate (termini chiave della filosofia) e metafore vive. Spiega Tommaso che l’uso metaforico del nome è possibile perché esso, oltre ad un’originaria assegnazione di significato, ha anche un uso che ne estende l’applicazione; egli richiama anch eil principio per cui la conoscenza intellettiva procede dalle realtà più note alle meno note.

Vico parla della traslazione metaforica, per cui si indicano le realtà non umane attraverso le parti del corpo umano. Oltre alla metafora egli indica la metonimia (dire un elemento esteriore per significare il contenuto), la sineddoche (dire una parte eminente per significare il tutto), l’ironia (dire una cosa intendendo l’opposto). Parlare per traslati è il modo originario del parlare umano: il dire poetico è la fonte prima del sapere.

Il nominare umano è sempre un metaforizzare, dire una cosa per un’altra; ciò che parlando intendiamo dire è sempre altro da ciò che diciamo: dire è elusivo e allusivo.

Secondo Ricoeur la metafora è l’evidenza della presenza dell’essere. L’uomo immerso nella dimensione materiale, proietta i nomi così acquisiti anche nell’immateriale di cui è ugualmente capace. Dire è sempre allusivo, perché è fedele all’essere; è l’essere stesso la metafora per eccellenza, perché manda sempre avanti altro per parlare di sé; l’ente è il foro di quel tema che è l’essere.

Altrettanto impropriamente nominiamo gli oggetti del nostro desiderio; anche il desiderio metaforizza: siamo animali metaforici perché l’essere metaforizza. Occorrerebbe dunque che l’essere stesso rivelasse al desiderio ciò che esso cerca.

Secondo Lacan quando lasciamo parlare in noi il principio del piacere, non siamo mai soddisfatti: il fallimento è una struttura umana, una condizione, non un accidente. Non abbiamo le parole per esprimere ciò che realmente cerchiamo: qui subentra la psicanalisi. Nessuna delle cose che riusciamo a immaginare è veramente oggetto di piacere: è un trauma, un impatto con l’essere, che può eventualmente dare risposta al nostro desiderio (già Aristotele annunciava che se mai dovessimo essere felici sarebbe per dono divino).

Gli animali producono suoni che sono manifestazioni di stati emotivi, con funzione di stimolo per i simili. Per Aristotele la voce è il segno del dolore e del piacere, ciò che abbiamo in comune con gli animali; la parola con la sua simbolicità è invece tipica dell’uomo. La differenza che caratterizza la vocalità umana è anche fisica, dipende dalla capacità di articolazione fonetica. Secondo Heidegger l’essere umano è capace di formare un mondo, mentre l’animale non umano è povero di mondo, privo della dimensione dell’in quanto, non può accedere al logos perchè non è capace di astrazione, è prigioniero del suo ambiente.

MacIntyre criticherà questa radicale distinzione tra uomo e animale, per favorire una distinzione tra animali diversi. In particola lo scimpanzé e il delfino si presentano capaci di anticipare e ritenere esperienze, di avere aspettative e soffrire se delusi.

Tuttavia, pur riconoscendo le grandi capacità intellettive di certi animali, essi restano comunque capaci solo di memoria associativa e intelligenza pratica: i linguaggi animali non possono avere contenuti di tipo concettuale.

Cassirer parla del linguaggio come della simbolicità dell’uomo. Ma già Platone alludeva a tale simbolicità, quando nel mito dell’androgino, descriveva l’amore come la ricerca del recupero di un’unità originaria, in modo tale che il corpo maschile risultasse simbolo di quello femminile, e viceversa.

 

IMMAGINAZIONE

L’immaginazione è portata spontaneamente ad integrare il dato sensibile, in funzione dell’intelligibilità. La phantasia di cui parla Aristotele è l’immaginazione che integra i dati della sensibilità, è ciò per cui ciò che percepiamo è sempre di più di quel che è sensibilmente registrato. L’intelletto, che va oltre l’immagine, parte comunque da quella. Essa integra la sensazione, consente di trattenere le sensazioni e di rievocare le immagini. Immagine è l’oggetto conosciuto globalmente nella sua individualità, è ciò che appare, che si dà a conoscere. Per questo l’immaginazione è detta simbolica.

L’uomo, secondo la Gesthaltpsychologie, percepisce sempre per strutture globali, senza dati da unificare, per cui il tutto è l’elemento concreto e la parte è l’elemento astratto e sostituibile: queste sono le basi della fenomenologia, per cui il darsi degli oggetti è sempre secondo angolature prospettiche, che rinviano a ciò che non è attualmente a fuoco.

Secondo Merleau-Ponty la percezione è già espressione di razionalità, è una ricerca di coerenza e consistenza. Sarebbe incoerente un alcunché di finito che non rinviasse ad un che di ulteriore a sé, che può ancora essere rinviato ad altro e così via, fino ad approssimarsi idealmente allo stesso orizzonte trascendentale, il quale non è propriamente immaginabile. L’immaginazione è una spontanea lettura razionale, dove razionale vuol dire coerente con l’apertura trascendentale: ad essa l’uomo è già esposto nella sua animalità. Siamo razionali perché siamo capaci del trascendentale, e la razionalità è la coerenza con la trascendentalità.

Cogliamo il finito nell’orizzonte dell’infinito, per cui dobbiamo immaginare fino alla linea dell’orizzonte dell’essere: anche per Hegel il regno della certezza sensibile non è percepibile senza un rinvio di relazione alle altre realtà e all’infinito.

L’immaginazione intesa come esperienza verso l’orizzonte genera il mondo immaginario, l’indagine scientifica, la produzione artistica e l’elaborazione di simboli religiosi. Il mondo immaginario è la costante sollecitazione cui immaginativamente sottoponiamo il mondo dell’esperienza, ed è massimamente evidenziato dalla produzione artistica, come dilatazione del percepito in direzione dell’orizzonte trascendentale. L’esperienza religiosa consiste nel stabilire legami tra l’oggetto misterioso del desiderio e un termine dell’esperienza umana: l’oggetto è così personificato (da qui il carattere anti-idolatrico delle rivelazioni).

L’immaginazione scientifica è tipica dell’animale razionale, che procede per scoperte, e non può avere una visione panoramica dell’essere; in particolare si tratta del momento abduttivo, in cui i fatti di cui è nota verità vengono interpretati come icone della conclusione abdotta. Si assumono dunque ipotesi, viene istituito un ipotetico isomorfismo tra una certa realtà fisica e un modello schematico di essa (Kant sottolinea questa capacità dell’immaginazione produttiva come formazione degli schemi interpretativi dei fenomeni naturali).

L’immaginazione considera una sporgenza dell’essere, un possibile. Questo è ciò che non è impossibile ad attuarsi: il possibile semantico è ciò che esclude da sé solo l’impossibilità, cioè la necessità del negativo di un termine. Per Aristotele, qualcosa è possibile se, assumendolo, non c’è nulla di impossibile (privo di luogo, autocontraddittorio). Suarez ancora parlerà dell’ek-sistentia, dunque dello sporgere oltre il niente negativo, che fa da contenuto all’ipotesi autocontraddittoria. Il pensabile è così il possibile, e il pensabile è il non-contraddittorio; il possibile dunque comprenderà l’attuale, ma lo supererà, comprendendo anche il meramente incontraddittorio. L’incontraddittorietà è condizione necessaria, ma non sufficiente, della possibilità: un’ipotesi potrebbe essere contraddittoria, senza per ciò essere possibile, ma non potrebbe essere possibile, se non fosse contraddittoria.

Sappiamo essere possibile solo l’attuale, e sappiamo anche che l’ambito del possibile coincide con quello dell’attualmente presente: non sappiamo ancora se vi sia un altro possibile oltre il non-attuale. Un tale possibile è detto virtuale (non è l’immaginario, bensì il potenzialmente possibile) logico (ipotesi concepibile, in quanto non autocontraddittoria, al più impossibilitata dalle condizioni che la realizzano), o fantastico (ipotesi immaginabile, di cui si saprà che non contiene condizioni autoimpossibilitanti solo nel momento in cui si sarà realizzata). La non-realizzazione dunque non prova l’assoluta impossibilità dell’ipotesi. L’uomo si trova così a dover tentare il possibile, e lo spazio della sua indagine è il trascendentale, ciò che possibilita il possibile, che si configura come ciò che è conforme alle strutture dell’essere. Ma solo una metafisica più potente potrebbe trattare di un possibile di questo tipo (Diodoro crono).

 

PASSIONE

Non possiamo negare di essere animali razionali, se non esercitando appunto la razionalità (èlenchos). La nostra natura di animali razionali è un compito, e l’animalità, che pur partecipa della razionalità, non è mai completamente conciliata con essa. Da qui l’indagine sulle dimensioni dell’uomo che non sono del tutto partecipi della razionalità. Platone parla di queste come epithymetikon (il concupiscibile), ovvero il potere di bramare e thymos, il potere di reagire passionalmente, con cui la loghistikòn (razionalità) deve fare i conti. Le spinte (ormè), sono come una materia che attende di essere informata (la virtù è lo stesso tentativo di fare forma alla passione): le passioni sono dunque un’energia da orientare.

Con gli Stoici (e con Kant) vi è poi un’inversione: emerge l’apatia (togliere le passioni).

La tradizione aristotelica prosegue con Tommaso ed Hegel. Per questi le passioni sono forze inerenti alla nostra natura: passione è qualcosa che si subisce dall’interno, qualcosa che ci troviamo senza averlo scelto, da cui la razionalità si leva, e che coinvolge tutto me stesso. La passione è materia instabile, in continua trasformazione, tuttavia non è l’istinto (tendenza rigida non tipica dell’uomo), se non di tipo razionale.

La pulsione è la base organica della passione, la quale è già un’elaborazione sulla base di abitudini, immaginazioni, fatti. L’uomo non può mai avere pulsioni allo stato puro: la passione è pulsione informata, e il mediatore tra queste è la cultura: la razionalità è testimoniata dalle passioni.

Il bisogno testimonia la plasticità delle passioni, che mantengono tuttavia un’inerzia che le può portare fuori dai binari del bisogno. Noi desideriamo attraverso i bisogni, ma il desiderio sfonda il bisogno, lo supera.

Il sentimento è più della passione, è una stabile disposizione della passione: i sentimenti vanno educati, riconoscendo l’altro come altro.

La passione non è nemmeno emozione, ciò che della passione sentiamo.

Tommaso afferma che l’ideale è l’incontro di passione e ragione.

Amore è prima passione che sentimento, è qualcosa che subiamo senza poterne dare un giudizio. È amore già la semplice tensione sensuale.

Il dilectio è più dell’amore: esso è sempre scelta degna di attenzione amorosa. La scelta presuppone un giudizio della ragione, un giudizio di valore. Quando l’amore viene educato verso la perfezione implica la capacità del perdono di fronte alla diversità delle nostre aspettative. L’amore amicitiae (come sentimento) è una dilatazione, informazione dell’amore sensuale; esso realizza il progetto estatico: la passione è così compiuta dalla ragione, e si realizza come cura. Tra i due tipi di amore c’è una relazione materia-forma.

Il pudore, secondo Scheler, consiste nel ripiegamento su di sé come animalità, al culmine degli slanci spirituali (ci sorprendiamo animali nella spiritualità); il pudore è la paura di essere scoperti quali veramente siamo. Il pudore sessuale emerge quando si è guardati come oggetti, si avverte di essere interscambiabili. Il pudore reagisce di fronte a uno sguardo che dimentica l’individualità, a movimenti che fingono il riconoscimento dell’alterità dell’altro. La spudoratezza è invece pudore mal formato, è espressione paradossale del pudore.

 

 

NOTE

EVOLUZIONISMO

Si scorge già in Anassimandro, Agostino d’Ippona e Tommaso. Dunque Lamarck non è il primo nel 1809 a contrapporsi al fissismo (Aristotele, Linneo). Le tesi di Lamarck sono: c’è una tendenza spontane a progredire e ad evolversi; dall’adattamento funzionale del fenotipo all’ambiente si arriva a modificazioni genetiche (ereditarietà dei fattori acquisiti). Darwin si concentra su quest’ultima tesi, allargandola anche ai fattori psichici; inoltre agisce tra gli animali una selezione naturale e sessuale che determina il prevalere di alcuni individui su altri (ciò vale anche per l’uomo). Il Neodarwinismo, cui fa capo Weissmann, accetta solo la seconda tesi di Darwin. Il mutazionismo studia le mutazioni spontanee o indotte che avvengono nel plasma geminale. Oggi è diffusa la teoria sintetica, per cui l’evoluzione è dovuta a mutazioni e selezioni.

L’ipotesi evoluzionistica induce a pensare all’antenato comune dell’uomo e del suo più prossimo animale: la scimmia. Già l’uomo di Neanderthal presenta una vita razionale, segni di vita umana che rinviano ad un’apertura trascendentale: tuttavia l’homo sapiens sapiens ci convive.

L’evoluzione potrebbe anche chiarire il rapporto tra il cervello e la mente.

VIRGILIO MELCHIORRE – CORPO E PERSONA

 

1. LE RAGIONI DEL PERSONALISMO

L’affermazione di un universo personalistico risuona più come una copertura ideologica che come un concreto disegno alternativo, per questo occorre tornare al cuore del personalismo e ripercorrerne le ragioni, le basi, le intenzioni fondamentali.

Secondo Mounier la persona è la presenza stessa dell’uomo, la sua ultima caratteristica, e per questo non è suscettibile di definizione rigorosa, esauriente. Viene così rifiutata la ragione chiara e distinta, dove per chiarezza si trova l’opposto di profondità, e la verità risulta così appartenente solo al mondo della passione e sensibilità. In realtà si tratta di abbandonare siffatte opposizioni, e commisurarsi con la complessità del reale: il rifiuto della definizione va inteso soltanto come il rifiuto del definitivo; si tratta di modellare le forme della ragione sulla base dell’esperienza progressiva qual è appunto la vita personale, e dall’impossibilità di isolare ciò che si dà invece come continua relazione. La coscienza si dà sempre come coscienza-di, come relazione, come un con-essere. Dunque una negatività originaria ci fonda e ci attraversa, nascondendo la presenza dell’assoluto, che è percezione di un mistero. Tuttavia ciò che esiste e diviene dev’essere informato da una qualche persistenza, essenzialità: attestiamo così una struttura, una profondità essenziale, cioè il cominciamento di un sistema. Il personalismo può dunque basarsi su delle strutture, descrivendo modi e vie della vita personale.

La nozione di persona è rimandata a un’esperienza decisiva, a un residuo ineludibile di ogni nozione ed analisi sull’esistente. Parlare del mondo significa riferirlo a un’identità ferma, ad un atto unitario per il flusso dell’esistenza, una permanenza o costanza. L’io sono si coglie allora come centro di relazione ma anche dal carattere concreto, individuato: io sono è inteso come io-qui-adesso-così-fra questi uomini-con un passato. Si tratta dunque di un io incarnato, perché l’esperienza della soggettività e quella della corporeità non sono separate: io sono esposto significa che sono sia centro intenzionale, ma indica anche la mia condizione posizionale. Il mio corpo è anche l’apertura dello sguardo al mondo, sguardo che mi ritorna e indica la coscienza di un’alterità che mi restituisce a me stesso. La persona è solo in quanto situata, legata a un corpo (spazio, tempo, storia), a una relazione verso altri e in altri, vero il mondo e nel mondo.

Nell’ottica della soggettività l’oggetto è l’oggetto per l’uomo, quindi anche non ha senso parlare di una soggettività a se stante: l’io va inteso come sé noumenico, come condizione ontologica di possibilità, che l’esperienza non ci permette di afferrare, se non sottoforma di io fenomenico, già tutt’uno con i suoi contenuti. La coscienza del relativo è anche coscienza dell’assoluto, perché il primo si svela sempre nello sfondo dell’assoluto: l’intenzionalità è sempre così rivolta all’universale. La vita della persona è caratterizzabile come movimento di trascendenza o personalizzazione: essa è relazione, movimento d’essere verso l’essere (dove l’essere è anteriore alla vita e la persona è un movimento per oltrepassarla in ciò che essa è). L’essere è anche potenzialità d’avere, che risulta sostituto degradato dell’essere: l’uomo è fatto per essere sorpassato, è unità di interiorizzazione ed esteriorizzazione.

Avere come degradazione dell’essere non ha necessariamente un significato etico negativo: lo ha quando la degradazione rifiuta di trascendersi e tenersi in tensione con l’essere. Si ha ciò che non si può essere in quanto si cerca di essere con esso: il male borghese nasce quando si vuole avere per evitare di essere. L’amore per il denaro nasce con la paura dell’essere che ci supera, del destino, della finitezza. La coscienza borghese reagisce alla propria angoscia con l’ideologia della personalità, che nasconde la realtà di solitudine di questo mondo. Si delinea così la differenza tra individuo e persona: l’individuo è la persona contratta nella sua individualità, nella sua solitudine, perciò tesa all’accumulazione e all’istinto di proprietà. Il borghese è colui che ha perduto il senso dell’essere, ritenendo il non utile l’insignificante, non accorgendosi che l’utile non è che una via che ha termine nell’inutile: l’uomo è fatto in ultima istanza per cercare la verità del mondo, che così si delinea come l’Inutilizzabile.

L’alternativa non sta nel riportare semplicemente le ragioni dell’individuo a quelle della persona: sta nel superare la forza escludente dell’avere e l’anarchia dell’individualismo, nel proporre un regime comunitario della relazione e del reciproco servizio: tutto questo non significa però abolizione dell’avere e della proprietà, che rimane traduzione ambientale del principio di costanza dell’io; ciò che va bandito è l’uso esclusivo dei beni, non la loro amministrazione esclusiva. Il bene dell’uno e quello della comunità si devono costituire a vicenda. In questa prospettiva vengono ridefiniti uomo pubblico e uomo privato, facce di una stessa alienazione: il primo è la condizione visibile della relazione tra le persone, il secondo è il punto di costanza e identità necessario per ogni relazione. La relazione dice dell’unità dell’essere: ora persona si prospetta come unità coscienziale di singolarità e universalità, individuazione e relazione, concentrazione e trascendenza.

2. PER UN’ERMENEUTICA DELLA PERSONA

La comprensione di ciò che chiamiamo persona deve in prima istanza ripercorrere gli itinerari del termine: l’interpretazione porta per diversi aspetti il nome di persona a quello di maschera, o danzatore mascherato. Tale significato assume una crescente trasgressione metaforica, che nel medioevo sfocia nell’intreccio tra antropologia e teologia, che già nello stoicismo romano si manifestava con l’uomo inteso come rappresentazione di un ruolo che viene da Dio e che a Dio riporta.

Boezio ci dice che i latini per parlare di uomo hanno dovuto attenersi alla parola persona, per mancanza di termini appropriati. Tuttavia i greci avevano con maggior esattezza parlato di upostasis, in latino substantia, anche se la precisione qui deriva più dall’uso che dall’univocità della parola: il senso propriamente umano di un’individualità razionale si rileva più precisamente in prosopon, persona. Upostasis era frequentemente assimilato a ousia, generando equivoci, che in seguito avevano convinto i padri latini a usare il termine persona, sebbene sia Ambrogio che Agostino ritenevano troppo umano tale termine in rapporto a Dio, anche se sicuramente il meno improprio, dato che il suo uso può essere regolato dal contesto che trascende la stessa parola.

Tommaso si richiama alla definizione boeziana di persona, rationalis naturae individua substantia, ed accetta il rinvio etimologico alla persona dell’attore, il problema sussiste però in particolar modo riguardo a Dio. Il termine persona conviene a Dio in modo più proprio: essa nasce in un contesto umano e si addice metaforicamente a Dio, in quanto la persona di Dio coinvolge metaforicamente quella dell’uomo. Ciò non è un paradosso se si considera uno statuto analogico dell’essere. La persona dell’attore è qui intesa soprattutto come il fantasma in cui si dà voce ad una superiore dignità, non tanto come la cavità in cui risuona la voce dell’interprete. Ciò che dunque la persona dell’uomo imita e cerca, in Dio è realizzato pienamente: l’uomo è metafora di Dio. Dio può allora dirsi per eccellenza persona, e la tensione rappresentativa dell’attore fa riferimento alla dignità del logos divino. Vale la lettura stoica per cui l’uomo è la voce in cui finitamente risuona il divino: l’uomo come intenzionalità rappresentativa dell’assoluto. L’uomo è imago Dei e la sua razionalità è intenzionalità all’universale. Vi è una correzione alla definizione boeziana, per cui è meglio dire un’existentia più che una substantia, per una maggiore flessibilità. L’essenza comune della persona è colta nel carattere relazionale, che deve essere distinto in relatio, o relazionalità in quanto tale, e le relationes che la esprimono: questi aspetti si distinguono in Dio non realmente, mentre nell’uomo valgono sia sul piano formale che reale; l’accidentalità va qui solo riferita all’effettivo dispiegarsi dell’essere umano, che è apertura intenzionale e strutturale relazione con l’essere. In Dio essenza e sussistenza, natura e persona si identificano: la relazione qui può essere solo quella trinitaria. Quanto in Dio corrisponde ad una differenza formale, nel finito corrisponde anche ad una differenza ontologica, ovvero un differire dell’atto rispetto alla potenza, in cui Scoto legge il limite o incompiutezza della persona.

L’exsistere della persona significa il consistere che in sé manifesta la propria origine. In senso trinitario l’exsistere delle persone divine è il diverso manifestarsi dell’unica essenza. Nella sua pienezza la vita personale può darsi solo in Dio, e la persona ha il suo proprium appunto nella vita divina. L’uomo è una ragione finita che può protendersi e raccogliere solo a partire dal suo essere corporeo, tuttavia è in quanto tale tesa alla verità assoluta. La razionalità dell’uomo è determinata dalla sua finitezza corporea, sempre apertura o movimento pensionale verso l’universale. È totalità dunque solo nella sua processualità. L’uomo è tanto più persona quanto più riesce a fare del proprio sé un’estasi dell’intero: la sua singolarità ha senso quando riesce a contrarre nel suo sé la totalità stessa dell’essere.

3. LA CORPOREITA’ COME SIMBOLO

Il tema della corporeità torna oggi ad imporsi in modo sempre più radicale: c’è un crescente silenzio della parola e il dispiegarsi di una gestualità corporea che sempre più intensamente si annuncia come linguaggio o autentica espressività. In passato Platone dubitava della vita nel corpo come tomba, e anche i cristiani parlavano della povertà della carne. Il corporeo si definisce così orizzonte del linguaggio e riporta alla questione della verità e del nesso tra i due.

Vi è un nesso fondamentale tra corpo e verità: non è forse vivere nel limite del corpo un modo della vita, un disvelarsi e insieme un occultarsi dell’essere? Il termine intenzionalità ha finito per assumere il significato estensivo di essere per la coscienza, o nella coscienza, richiamando l’origine di questa che è sempre coscienza in prospettiva: percezione che è regolata dalla disposizione di un asse corporeo; la totalità del mondo diviene così una costellazione che si raccoglie attorno a tale asse. Sapersi nella prospettiva è già essere oltre, potendo giungere sino alla comprensione più astratta dell’universale, che tuttavia non è in grado di cancellare il suo presupposto esistenziale. La coscienza è sempre originariamente in una prospettiva di senso, per cui la nostra astrazione non potrà mai essere radicale: siamo pur sempre riportati ad un correlato trascendentale dell’esperienza, al quale riferiamo tutte le nostre esperienze. Il corpo umano risulta l’apertura o condizione originaria dell’essere in rapporto con la verità. Così esso potrebbe sembrare un semplice strumento, tuttavia il suo carattere dell’intersoggettività può suggerire una sua oggettivazione, ma questa non può essere totale: il corpo è punto zero in quanto asse di ogni riferimento, ma anche in quanto resta a se stesso come un’opacità inoggettivabile. La coscienza della prospettiva come dicevamo comporta già una trasgressione, che non potrà mai erigersi in un punto di vista privo di prospettiva; quindi ogni prospettiva è ambigua e ogni umana modalità del corporeo è una propria simbolicità, portatrice di un senso primario e di un significato secondario celato. Ed è l’’avere’ il corpo che svela la presenza di questo valore trasgressivo, simbolico.

Tutte le forme di pudore hanno radice in un’unica profondità essenziale, nel fatto che l’uomo si sente come un passaggio tra due ordini d’essere e d’essenza, per cui l’uomo ha pudore di se stesso e davanti al dio che l’abita. Il corpo è avvertito come ostacolo in quanto astratto nella sua particolarità, e il pudore nasce con il porsi del finito come separato, quindi come morte dell’altro e ricordo del corpo. La difesa del pudore è la difesa di quella duplicità intenzionale che vive il corpo come unità di soggetto e oggetto. Sartre ha giustamente detto che il pudore può già destarsi di fronte allo sguardo di un altro, che ci fissi come oggetto tra gli oggetti. Ma il sentimento del pudore ci difende forse, prima che dallo sguardo degli altri, da noi stessi: l’angoscia corrisponde alla vertigine, è il sentimento della caduta originale per cui il corpo simbolizza la nostra oggettività indifesa. C’è da porre una distinzione tra vergogna e pudore: la prima nasce da un evento già compiuto, vive nella colpa, il secondo è un’oscillazione angosciosa che vive nella possibilità ed invoca una positività; tuttavia il pudore non sarebbe così conturbante se non si levasse sull’esperienza di una condizione già decaduta.

Il mito dell’androgino platonico dimostra l’ideale di una corporeità che è finalmente in grado di realizzare in pieno la sua duplicità intenzionale, quella d’essere punto di vista ma insieme sguardo onnicomprensivo. Nel buon rapporto d’amore, dice Platone, gli uomini tentano di ricostruire quest’unità originaria e proprio per questo vivono simbolicamente. Ciò può significare, contro le accuse di monismo platonico, che ogni diversità e parzialità devono portare in se stesse uno sguardo totalizzante, che solo in tal modo può guadagnare autenticità. Ma ancora il mito dei quattro viventi dell’Apocalisse, ‘pieni d’occhi dinanzi e dietro’, può suggerire tale concetto, incastonato in una cornice apocalittica, cioè nella speranza e nella tensione escatologica.

4. CORPO E PERSONA

Con la sua res cogitans Cartesio vuole chiarire che il corpo non appartiene alla conoscenza più radicale di noi stessi. La coscienza dell’essere implica sempre l’esserci della coscienza quale condizione irridibile di ogni altra affermazione, ma il corpo non si identifica con essa, o non è legato ad essa in modo sostanziale. Lo spirito segna l’indivisibilità, il corpo la divisibilità, per questo c’è la distinzione tra l’irriducibilità del cogito e la riducibilità del corpo, che permette di negare un’identità estensiva tra i due, ma tuttavia non permette ancora di stabilire una diversità di sostanze. Lo spirito è strettamente congiunto al corpo, quasi confuso e mescolato: lo stesso distinguersi dello spirito andrà rilevato solo all’interno di un intero fenomenologico. Per Rosmini noi possiamo percepire il nostro corpo con una percezione extra soggettiva, che coglie tutti i corpi in senso oggettivo, oppure con una percezione soggettiva, un sentimento fondamentale del proprio sé. Le modificazioni della vita possono essere diverse e la certificazione del sé può essere fatta da diverse parti del corpo, in ogni caso esse sono da considerarsi accidentali rispetto al sentimento fondamentale che identicamente si ripresenta in ognuna di esse. In definitiva il corpo che si manifesta come umano esprime in se stesso qualcosa di non oggettivo, irriducibile a una mera corporeità intramondana.

Ci si può così di nuovo rifare alla tradizione linguistica, che già Husserl sfrutta per mostrare la non corrispondenza tra segno e realtà segnata: Leibkorper è ad un tempo Leib e portatore di una vita dell’anima. Persona nella sua accezione greca significa all’origine faccia, e la parola è usata solo per l’uomo. Ma nel volto è indicata spesso la presenza di Dio, o indica la stessa gloria di Dio. In latino il senso della parola si costituisce a partire dall’idea di maschera, che sottintende la necessità di giocare un ruolo nella vita, ma non perde tuttavia i suoi risvolti prettamente corporei: la maschera aderisce al corpo e ad un tempo è iniziativa dello spirito. Tutta la storia della letteratura dimostra come persona sia diverso dal dire corpo, perché questo è sciolto dalla componente spirituale, è solo l’involucro ove dimora l’anima. Persona è anche corpo, ma di cui si dice la pienezza umana: è la possibilità dispiegata dell’anima.

Merleau-Ponty parla del corpo come del geometrale conoscitivo, dell’asse coscienziale in funzione di cui le forme dell’esistenza vengono declinate. Husserl affermando che una cosa esiste, considera sempre questa cosa come riferita al suo corpo, che percepisce il proprio spazio come una parto di uno spazio infinito. Si tratta del punto zero, per cui la prospettiva è determinata dall’apertura dello sguardo o da una collocazione del proprio corpo, ma non si identifica ogni volta con la stessa parte del corpo. Si tratta di una centralità che emerge solo attraverso l’Erleibnis del proprio corpo. Rimane l’ambiguità del corpo: io sono ed ho un corpo, due nozioni che non si sovrappongono ma sono entrambe legittime. Vi è la possibilità inoltre di avvertire il proprio punto zero, ma negli altri io posso solo avvertire punti d’ambiente (Husserl). La prospettiva comporta la consapevolezza dell’insufficienza ed il bisogno di tradursi in altre prospettive. Nel suo inerire al corpo, la prospettiva si presenza come intenzionalità trasgressiva, movimento che passa da parte a parte del corpo, e che come tale implica un’identità più profonda, la propria condizione trascendente. La condizione logica della visione sta nella presenza d’una totalità d’essere e del nesso con cui ogni evento prospettico si manifesta in questa totalità: c’è sempre un complesso di dati che si riferiscono alla cosa vista e la raggiungono anche dove non ci è dato di vedere. Senza questo rinvio le cose si manifesterebbero più come assenza, sarebbero dunque definite dal loro non essere, e ciò non avrebbe senso dato il fondamento del principio di non contraddizione. Come già sottolineato dire dell’uomo come di un essere razionale è dire della sua apertura sull’essere e non sulla mera immediatezza dell’essere: la tensione al tutto è tensione al non rinvio, alla purezza dell’essere.

La prospettiva nella sua trasgressività tende al senso dell’essere, il suo senso assoluto, la garanzia ontologica di fondo cui tuttavia la trasgressività non può raggiungere non sottraendosi mai dal rapporto con l’ente. L’essere non è dato in sé, ma nella sua intimità con l’ente che lo attesta ma anche lo nasconde. Lo stesso vale per la persona nella sua ambiguità: come apertura sull’universale, ma che rimane sempre una prospettiva: l’uomo è persona dell’essere. La vita intenzionale della persona è costituita dal nesso prospettiva-assoluto. La prospettiva può essere perduta nella indeterminazione dell’essere, o l’universalità può essere ridotta al punto di vista della prospettiva, rimuovendo la forza trascendentale dell’essere. Ma non bisogna scordare che la prospettiva è la condizione ontica del manifestarsi del senso e non può coincidere con il principio di senso. La totalizzazione prospettica si fa facilmente potere di appropriazione, impedendo il rapporto con la verità e il colloquio con gli altri punti di vista. L’alternativa va cercata nella coscienza del proprio carattere simbolico.

Riguardo al punto zero possiamo dire che una parte del corpo potrà essere oggettivata,ma ci sarà sempre una parte in cui l’identità coscienziale si riconosce e da cui non può distanziarsi. Il punto zero della prospettiva è così una condizione di senso, ma insieme anche un punto cieco: una certezza di cui si dispone, ma che non può mai assicurarsi nella propria verità. Questo punto di vista non è ultimamente in grado di vedere se stesso. Abbiamo detto che se la prospettiva è costituita in una determinata ed irripetibile donazione di senso, la comunicazione accomuna le verità di un oggetto, permette di attestare le verità dei singoli punti di vista. Chi vive nella pretesa di affermare come assoluta la propria prospettiva, non può rinunciare alla ricerca di uno sguardo che riconosca la verità del suo punto di vista (dialettica servo signore). L’esigenza della verità richiede dunque la soggettività dell’altro, ma l’intenzione dell’avere pretende che questa sia e si riconosca come mero oggetto: forse l’anima dell’altro non si lascia afferrare, ed è nascosta dalle sue stesse apparenze oggettive; la presenza del Leib comporta il dato di una presenza soggettiva, ma non del punto zero dell’altro. Il corpo dell’altro si manifesta come Leib e così qualche suo punto sembra darsi come il fuoco significativo dell’intero, oppure diversi indizi inducono a riconoscere nell’altro uno stile o una personalità: in ogni caso ci troviamo di fronte a oggettivazioni; è solo l’altro che nel nostro riconoscimento può ritrovare la verità della sua certezza, e che può confessarci la validità dell’assenso che gli diamo. Io posso ancora proiettarmi al posto dell’altro, ma la possibilità di essere altrove può ben costituire la proiezione di un desiderio o volontà di potenza. La fede nasce dall’incrocio di due verità che si confermano nel reciproco riconoscersi e questo a sua volta non è che il manifestarsi di una verità comune cui le parti appartengono e che diversamente manifestano. Si tratta di sottrarsi alla tentazione della coscienza signorile, ricordarsi che la verità è costituita dell’apparire dell’essere e che questo continua a trascendere ogni prospettiva.

 

5. ELEMENTI PER UNA FONDAZIONE FENOMENOLOGICA DELLA SESSUALITA’

L’uomo viene ancora inteso come un composto di anima e corpo. Il paradosso potrebbe essere tolto da una parte abolendo la differenza qualitativa dello spirito, e facendone il momento più alto di una natura prestabilita: così si arriverebbe però a sopprimere la stessa iniziativa libera umana, che tende a contraddire l’ordine naturale. Dunque l’essere dell’uomo può difficilmente essere ridotto a mera modalità fisico-biologica, infatti Hegel propone l’intero di spirito, riconoscendo l’impotenza della natura a manifestarsi come spirito, se non astrattamente. Il dualismo presupposto a una fondazione fisiologica della questione sessuale sta nel considerare la sessualità come un in sé già compiuto nel suo disegno essenziale. L’umanità dell’uomo non sta nel sesso ma nel suo prodotto, e la natura del sesso sta appunto in questa finalità.

Alle origini il termine physis rinvia all’intimo senso delle cose e di qui all’unica legge dell’essere. Aristotele pensa alla realtà come relazione dinamica, e dice della physis come del principio immanente al movimento e alla quiete. Natura è dunque ciò che genera e fa scaturire da sé, non può essere intesa che come la forma, un via verso la natura vera e propria. Ma possiamo stabilire la natura di un essere se questo ci è dato pienamente solo alla fine del suo processo di formazione? Si se supponiamo il carattere ripetitivo della generazione degli enti. La certezza moderna dell’uomo si raccoglie sul suo essere come coscienza o sapere: questi risultano punti di partenza ma anche di arrivo. Per cui ogni determinazione essenziale non deve essere assunta come completa, ma d’altra parte va assunta come regola che custodisce il futuro dell’uomo. Quando si dice della coscienzialità come proprium dell’umano, non ne possiamo ancora parlare nel senso di una determinata forma di coscienza, e ogni determinazione attende di essere definita, ogni parte dell’uomo non ha senso da sé, ma dall’intero coscienziale che essa contribuisce a determinare.

L’uomo è costituito dunque dalla relazione: il conoscere non è per sé, ma sempre come conoscere di qualcosa. Parlando dell’uomo come intenzionalità dobbiamo anche parlare di una imprescindibile natura rappresentativa. Ogni movimento rappresentativo implica un movimento (ap)presentativi e quindi contiene o ripete in se stesso la condizione fondamentale del processo percettivo. La percezione e quindi in qualche modo la rappresentazione, è prospettica: anche quando manchi del tutto l’oggetto percepito dovremo parlare di una convergenza delle parti verso un lato, nonostante il processo immaginativo sia talmente fluido da potersi avvicinare ad uno sguardo assoluto. Dunque siamo sempre riportati al punto zero che è il nostro corpo. Addirittura potremmo dire che se ogni oggetto determinato esige un orientamento intenzionale, vale anche la relazione contraria, per cui ogni orientamento intenzionale esige un oggetto correlativo specifico: l’orientamento intenzionale è dunque determinato dal proprio oggetto e questo è costituito dall’orientamento. La corporeità si mostra così come l’insieme di modalità per il disvelarsi della realtà.

Per quanto riguarda la coscienza abbiamo una dialettica della trasgressione e una dialettica che ricomprende il corpo nella duplice dimensione dell’essere e dell’avere: la condizione trascendentale della coscienza prospettica è un’originaria evidenza dell’essere puro. L’infinito si manifesta negativamente e solo nell’esperienza del finito. L’impianto fenomenologico esige il superamento della gnoseologia kantiana, perché riporta la correlazione condizionato-incondizionato a livello dell’esperienza, della percezione mai pura e sempre definita da una negatività. Calando il discorso a livello sessuale, sappiamo di non poter parlare di una differenza sessuale in modo assoluto, dobbiamo per forza parlare di una prevalenza, che distingue un elemento intrusivo e uno recettivo, coppia che fa riferimento alla più generale coscienza desituante-coscienza situata. Tutte le intenzionalità interagiscono e concorrono a dire dell’essere, ma l’intenzionalità corporea è fondamentale e in base ad essa il desiderio costituisce un’apertura al disvelarsi del desiderato, coinvolgendo nella differenza sessuale un’intera attitudine nei confronti dell’essere. La tensione sessuale si rivela una ricerca dell’integrazione dell’intenzionalità unilaterale: l’uomo tende a trasgredire la situazione in cerca dell’universale, la donna tende a custodire l’universo della propria concretezza, questi atteggiamenti sono un divergere e un convergere, l’autenticità si trova nell’inesauribile trascendentalità dell’essere. La coscienza situata e quella desituante sono tese alla comune radice dell’essere, tuttavia l’effige che si va ricomponendo nel rapporto non è identica da una parte e dall’altra.

L’incontro e la compenetrazione degli amanti dovrebbe ricostruire l’unità originaria e vincere l’impotenza delle prospettive separate: si delinea così la dialettica del riconoscimento. Si tratta di cogliere la comunicazione interpersonale sul piano della effettiva e reciproca totalizzazione delle determinazioni empiriche. Ciò che manca alla verità della mia prospettiva è che questa non può mettersi a distanza dalla propria determinatezza, non può riconoscersi. L’altro guardandomi mi fa oggetto tra gli oggetti, ma nell’oggetto che è diventato il mio sguardo qualcosa si sottrae e resiste alla mera oggettivazione: l’altro così scopre che il mio sguardo non aliena e anzi manifesta una verità, e con questo la mia stessa prospettiva mi viene restituita come verace. Quando il pudore viene dimesso, il rapporto di riconoscenza diviene totale. La carezza, che esprime il desiderio sessuale, non è semplicemente una scoperta dell’altro, o lo è mentre è insieme azione sull’altro: un’azione che comunica la mia scoperta e che insieme manifesta la mia intenzione di non sentire l’altro come puro oggetto. La carezza è allora seduzione, nel senso positivo del termine: un condurre con sé e verso di sé; essa costituisce un richiamo all’intimità del soggetto che finalmente può sentirsi nella oggettività della carne, ed ora essa è attraversata da una totalità di senso. Il riconoscimento comporta dunque che la mia soggettività mi sia restituita da un soggetto-oggetto: sono io che ad un tempo mi restituisco a me stesso ed ho di fronte a me la mia soggettività. L’identità si è riflessa in sé così da essere propriamente l’unica riflessione di ambedue i momenti in sé medesimi, ambedue sono riflessioni in sé. Il desiderio del riconoscimento costituisce la via su cui la persona viene portata finalmente a se stessa, in tutta la sua pienezza e unicità.

Il presupposto del reciproco movimento del riconoscimento sta nell’esigere che l’incontro salvaguardi le differenze personali: l’unità deve per forza trascendere le parti. Così la vita di un nuovo esistere è un aprirsi verso un proprio futuro e verso un compito che continuerà ad esigere il superamento, la fusione e la differenza delle parti. La generazione non può essere mai intesa come fine a se stante e comunque dominante nel contesto dell’etica sessuale: essa va piuttosto iscritta in una sessualità che in quanto umana trova la sua natura nella forma e nell’orizzonte intenzionale dell’uomo, e individua il suo fine nel riconoscimento e nella comune appartenenza nell’essere.

6. UOMO E DONNA: SULL’ONTOLOGIA DELLA DIFFERENZA

E’ parola di Aristofane che uomo e donna siano figli della luna, e il loro incontro servirà a ricostituire l’unità dell’origine o la perduta ricchezza del cielo e della terra congiunti. Platone intenderà la donna come decadimento morale dell’uomo, come corruzione, mentre Aristotele ne parlerà più come un decadimento fisico, tuttavia ordinato al bene della riproduzione. Altrettanto per Tommaso, che indica la generazione come l’attività più nobile di molte forme di vita, ma non per quella dell’uomo.

Se diciamo che il destino essenziale dell’uomo sta nell’intelligere, di ogni modo o aspetto dell’uomo dovremo poi parlare come di una determinazione dell’essere per e nella coscienza. Husserl dimostrerà questo riprendendo la distinzione tra atti assertivi (veri o falsi) e atti non assertivi di Aristotele: desiderio e domanda, sentimento ed eros sono atti non assertivi, che presuppongono sì un proprio contenuto rappresentativo, ma non sono atti conoscitivi; questo perché non presuppongono una rappresentazione neutra, producono un significato senza equivalenti, e seguono il principio per cui non vi può essere il desiderio senza il desiderato e viceversa. Dunque l’uomo è costituito essenzialmente come apertura conoscitiva, e la stessa differenza sessuale ha un senso umano solo in quanto determina una particolare modalità della vita intenzionale.

Coscienza di situazione e coscienza desituante, immanenza e trasgressione sono inseparabili nello statuto cognitivo, ma ciò non toglie che una delle due prevalga sull’altra. Da una parte avremo allora la tendenza al predominio dell’astrazione, la creatività con i suoi pericoli di sradicamento (lato maschile); dall’altra il predominio della concretezza, l’attenzione al repente con i suoi pericoli di sterile conservazione (lato femminile). Le diversità di tendenza non sono patologiche, anzi sono il fermento e la ricchezza dei rapporti interpersonali; ciascuna si dispiega positivamente quando non dimentica il suo contrario, quando in esso cerca la propria regola e controllo.

Il problema ontologico della differenza umana è parso praticabile solo in rapporto allo statuto essenziale dell’uomo, quello dell’intelligere; ciò ha mostrato l’ambiguità dello stesso intelligere. Dopo Freud, Erikson individua un parallelismo tra i comportamenti umani e i modi genitali: sembra ineludibile la connessione tra le forme corporee e l’essere in prospettiva dell’umano, fra la dinamica intrusivo-recettiva e quella situazionale della coscienza. Ciò non va tradotto nella coppia attivo-passivo, perché le sfumature sono infinite. Risulta anche infondato ogni dualismo antropologico: intrusività e recettività non vanno intese in un senso puramente corporeo. Si parla inoltre non di differenze assolute ma di un’emergenza all’interno dell’unità. Possiamo allora dire che l’uomo tende a trasgredire la situazione in cerca di un senso infinito, ma nell’incontro con la donna apprende che questa ricerca va mantenuta saldamente alla concretezza dell’esistente. La finitezza della donna è già in se stessa apertura all’infinito, come l’infinitezza dell’uomo è già in se stessa determinata dalla finitezza.

La donna allora può essere veramente identificata come per Aristofane con la terra quale saldezza vitale, come casa, per cui abitare consiste nella consuetudine e nella situazione. Se l’ambiente in cui l’uomo si trova non fa che creare angoscia nel dare senso, l’uomo può vincere questa appunto nel raccoglimento della casa. La femminilità così intesa può essere appresa anche negativamente, fermandosi alla superficie in cui si fa emergente la polarità femminile: c’è il rischio di identificazione donna-corpo finito. L’ideale della finitezza va invece inteso come quella custodia e accoglienza dell’infinito. Questa ambiguità si cela sia nella violenza da parte dell’uomo, sia nella seduzione che la donna può divenire perdendo se stessa.

7. NOTE PER UN’ONTOLOGIA DELLA PATERNITA’

De Waehlens e Vergote propongono una diversa interpretazione della figura del padre, oltre il trauma edipico di Freud: egli avrebbe anche valore di stimolo e liberazione, nella misura in cui vieta l’incesto, seppur non cancellando la ricerca dell’unità originaria.

Il padre esiste, ma le sue radici non hanno consistenza d’essere: ciò spinge l’inconscio di ogni uomo a cercarsi una paternità assoluta, incorrotta. Se il padre assume questa radicalità la contraddizione edipica è inevitabile; diversamente il padre dovrà essere consapevole della sua figura simbolica, intesa non come semplice segno freudiano, ma nella duplicità espressa dall’ermeneutica.

Freud spiega la religione come la grande illusione dell’uomo, nel senso di proiezione che adempie un desiderio. Nel nostro caso si tratta del desiderio che ricerca la paternità assoluta, che dovrebbe donare libertà. La ricerca del fondamento corrisponde all’esigenza logica di evitare la contraddizione, dunque non un mito, ma un presupposto della conoscenza. Il desiderio religioso è fondato dalla coscienza originaria dell’assoluto. Il desiderio del padre è prima che psicologico, ontologico, e la crisi odierna della figura paterna è da rinviare ad una mancanza della coscienza religiosa, all’occultarsi del rinvio ontologico.

La religiosità come proiezione di una paternità in autentica ha una sua verità che non è quella di un’essenza, piuttosto quella di un erramento esistenziale. Ricoeur nota che il Dio-Padre nell’Antico testamento non definisce mai l’essenza di Dio ed è comunque sempre pronunciato sullo sfondo del divieto: i nomi di Dio non possono mai diventare il nome per eccellenza. Ciò significa che la paternità di Dio non è mai la copertura ideologica della paternità umana, piuttosto è una radicalità irraggiungibile che la paternità umana può solo rappresentare.

Nel Nuovo testamento il termine Padre arriva a comparire fino un centinaio di volte, è inteso però in una prospettiva escatologica: Dio appare come Padre, in quanto viene annunziato come meta, desiderio della infinita mancanza che l’itinerario della storia deve colmare. Dio è Padre dei cieli: il cielo con la sua verticalità significa da un lato la profondità metafisica, la fondatezza fondante, dall’altro la distanza incommensurabile, la trascendenza, l’alterità assoluta.

La grandezza del Padre non sta nell’assimilarsi al Figlio, ma nel farlo essere in se stesso. Non è la morte del padre che dà consistenza alla vita del figlio, ma solo un modo non appropriante della paternità. L’inconsistenza della vita del figlio non viene dalla funzione identificante del padre, ma da una paternità finita che non sappia rinviare all’origine.

8. PUBBLICO E PRIVATO

Tra la speranza anarchica del ’68 e la difesa del privato odierna forse non c’è così molta contraddizione: sono estremi della stessa visione dell’uomo, una visione alienata che quando tenta di realizzarsi in un senso finisce sempre per realizzare il senso opposto. Nel ’68 il nemico della libertà fu individuato nel sistema capitalistico, e ad esso si opponeva un nuovo sistema, qualunque esso fosse. L’affermazione "tutto è politica" avrebbe tolto ogni individualizzazione, i diritti dell’uomo, sugli insegnamenti di Marx, si presentavano fondati sull’uomo egoistico, e rendevano l’uomo pubblico irreale. Pubblico e privato si presentano dunque come antitesi. L’affermazione dell’individuo comporta che il pubblico sia da intendere come maschera, e garanzia di tutte le privatezze: già qui è possibile la contraddizione. Ma alla fine gli uomini che si erano levati contro il sistema dovranno cominciare ad annullare proprio le libertà decantate, e battersi per nuove strutture e nuovi sistemi. Oggi la ventata di rivoluzione è sopita e c’è il ritorno al privato, prevale una struttura pubblica di tipo borghese. Ma infine noi potremmo dire che privato e pubblico sono reali solo all’interno di una unità che li ricomprende, e al di sopra del bene pubblico vi è il bene comune, che è un bene comunicato, che in ognuno si ripropone.

Una tradizione linguistica molto antica in Occidente tende ad identificare il concetto di persona con quello di uomo; da significante cioè si passa a tautologia. Nonostante tutto, l’uso del termine persona comporta pur sempre una qualificazione dell’umano, ma si tratta di capire sotto quale aspetto. La definizione boeziana di persona rationalis naturae individua substantia pone l’accento sulla dimensione sostanziale ed individuale della specificazione naturale (la razionalità). Questa prospettiva sarà ripresa per tutta la modernità, e finirà per favorire una visione individualistica dell’uomo, concepito nel segno di una inviolabile privatezza. Noi diciamo invece che sostanzialità e individualità non sono specifici dell’uomo: costituiscono i modi della sua determinazione, il suo essere razionale. Dunque è pur sempre la razionalità che costituisce l’essere dell’uomo, è questa che deve far centro alla definizione dell’uomo come persona, altrimenti tutte le pulsioni vitali precipitano nel senso dell’appropriazione e dell’avere: occorre passare da un’ontologia astratta ed impersonale ad un’ontologia fenomenologica sull’esserci del soggetto.

L’uomo è se stesso in quanto è coscienza: una coscienza che è sempre situata, ed è ad un tempo consapevolezza del suo limite. L’essere coscienziale della persona è relazione nel senso più assoluto del termine. Ogni uomo può considerarsi una persona del tutto, una persona che agisce con un suo ruolo preciso, non per sé, bensì come parola del tutto. La stessa individualità della persona, che presa da sola si era manifestata equivoca, assume qui tutto il suo peso: in ogni uomo risuona la voce dell’essere, di volta in volta in modo diverso, quindi la persona è sia relazione che incomunicabilità.

La contrapposizione tra pubblico e privato ci era parsa costruita sulla riduzione della persona a individuo, se invece ritroviamo il significato della persona nell’essere come relazione, comprendiamo che i due aspetti non sono termini di cui si possa stabilire un primato, essi si costituiscono a vicenda. L’essere esige che la persona sia realizzata sempre fuori di sé. Ciò che sembrava propriamente pubblico ha in sé un rinvio, come ciò che sembrava assoluto al di là del segno non ha potuto evitare di farsi sensibile ed alla portata di tutti. Pubblico e privato non hanno il proprio criterio in se stessi, ma nella loro reciprocità. L’uomo è ben lungi dall’essere pura persona, per cui il bonum comune resta una meta utopica.

9. CORPO, PERSONA E LAVORO

L’uomo non è, nella prospettiva marxiana, che una tra le potenze della natura, e ciò che egli mette in gioco è tutta la sua corporeità, ma a differenza degli animali l’uomo è in grado di progettare. L’idea di lavoro come mediazione fa subito pensare ad Hegel, per cui l’uomo è un elemento della natura, ma in rapporto di annientamento, di appropriazione rispetto a questa; sappiamo poi che il disvelamento hegeliano dello spirito tenderà a mettere da parte proprio la dimensione corporea e sensibile dell’uomo: il ricordo del corpo rimane un elemento di turbamento costante. Ma già per Platone e per Aristotele il lavoro era legato essenzialmente al soddisfacimento della vita corporea, considerata solo una condizione: l’uomo trova infatti la sua essenza più propria nella vita razionale e questa vive tanto più autenticamente quanto più è disimpegnata dalle esigenze corporee. La virtù dell’intelletto è così separata, e la via corporea ne costituisce solo una condizione di cui altri dovrà occuparsi, in senso puramente strumentale. Ancora con Tommaso restiamo nell’ambito della condizione finita cui l’uomo è soggetto e che nella sua corporeità non può partecipare alla vita dell’universale. Il lavoro diventa necessità morale solo ove sussista il bisogno fisico; il persistere di una visione dualistica dell’uomo rende ancora così possibile il dualismo sociale: c’è chi vive per lo spirito e c’è chi serve al corpo degli spirituali. Vi è dunque una comune accettazione del lavoro inteso come scambio organico, come appropriazione della natura per le esigenze vitali dell’uomo.

Bisognerà rivedere l’idea di corpo quale puro soggetto di bisogni. L’avere implica una sostanziale irrelazione ontologica: si vuole avere perché si è carenti nell’essere che si è, ma ciò comporta una paradossalità. La contraddizione dell’avere è evitata solo nel caso del contesto dialettico, solo quando il rapporto implichi una relazione con l’essere: se il lavoro è un rapporto di mediazione tra l’uomo e il mondo e se il medio di questi è l’opera del corpo, potremo affermare l’umanità del lavoro solo pensando il corpo non come soggetto d’avere e non come centro di bisogni. Dovremo avvertire che nella sua corporeità, l’uomo non è solo soggetto di bisogni, ma soprattutto soggetto di conoscenza. La vita corporea si fa umana attraverso le virtù dell’etica, come indica Aristotele, ma anche forse vive per un destino più propriamente dianoetico.

Abbiamo visto che l’uomo può divenire nella verità in quanto muta i suoi punti di vista, ma questo non sarebbe possibile se ad un tempo egli non mutasse l’ordine con cui immediatamente il mondo gli si presenta, non sarebbe possibile se le sue mani non rivolgessero alle cose per metterne a nudo gli aspetti ancora celati. Per Hegel il lavoro è un prescindere dall’immediatezza, perché la cosa appaia in se stessa e disveli la sua essenza. Ma ancora Platone parla di poiesis come dell’opera che fa passare una cosa dal non essere all’essere. Il lavoro però si configura come medie dell’intelletto per l’intelletto: la vita dell’intelletto, d’altra parte, non si dà che in un io corporeo, quindi solo come lavoro. Lavoro intellettuale e manuale ormai non ci appaiono più diversi, e il nostro essere oggettivi (avere il corpo) è per la nostra soggettività.

Nella teoria marxiana il presupposto implicito è che nel lavoro si dà un’eccedenza di produzione, che il capitalista si limita soddisfare soltanto la parte animale dell’operaio. Ciò che va messo in discussione dunque non sono tanto i profitti, ma la finalità con cui questi si costituiscono e la loro relazione con il corpo: un corpo che non è riconosciuto nella sua soggettività. Aristotele aveva definito l’operaio come uno strumento che precede e condiziona gli altri strumenti, ma oggi, i termini del rapporto sembrano invertiti: meccanicizzazione, taylorismo, automatismo, tutto presuppone l’espulsione dell’intelligenza, e non soltanto dal lavoro manuale, ma anche da quello intellettuale. Si giunge nuovamente a riproporre la scansione aristocratica proposta da Platone e Aristotele, per cui i molti che lavorano producono per i pochi cui è concetto di attendere l’universale: questi sembrano però più interessati all’espansione del sistema produttivo. Dunque l’umanità del lavoro va riproposta in base a due correzioni: si tratta di restituire al corpo umano la dignità soggettiva che gli è intrinseca e si deve stabilire quale sia la destinazione cui è chiamata l’intelligenza dell’uomo.

10. LIBERAZIONE DAL LAVORO O LAVORO LIBERATO?

Nelle parole di Hegel leggiamo che il lavoro, tanto più nella sua forma divisa, apre l’uomo alla propria universalità, ma questa è anche un’astrazione in cui il destino del singolo viene alienato. Dunque è nella divisione del lavoro che l’uomo intuisce se stesso; ciò che produce diventa un altro da quel che è e come tale non serve a soddisfarlo pienamente. L’uomo lavorando soddisfa solo uno dei suoi bisogni, il superfluo può essere dato in cambio per soddisfare gli altri bisogni: la soddisfazione dei bisogni è una dipendenza universale di tutti dell’uno dall’altro, in cui il risolvimento del desiderio nel suo consumo comporta un circolo vizioso. L’universalità che si rivolta contro il singolo trova l’alternativa nel riconoscimento: la singolarità dell’opera potrebbe essere liberata dall’astrazione se fosse posta in comunicazione con le opere delle altre singolarità. Si tratta di togliere l’in sé in cui l’uomo e la cosa appaiono, per riscoprirli come termini di uno stesso universo: così i due esiti del lavoro, quello del bisogno adeguato e quello del sapere, possono infine saldarsi.

 

 


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