HANNAH ARENDT

A cura di Diego Fusaro


LA DISOBBEDIENZA CIVILE

I temi a cui "La disobbedienza civile e altri saggi" rimanda sono quelli dell'obbligo politico e della partecipazione, visti nella loro connessione col problema della libertà. Sulla scia di un nuovo kantismo delineato dalla Critica del Giudizio, Arendt formula un'analisi dell'azione innovativa e sempre rivoluzionaria, nei termini del principio della libertà pubblica, dello spirito pubblico e della pubblica felicità. Quello che colpisce in questo contesto è la sottile consapevolezza che ogni evento umano rappresenti " un paesaggio inatteso di azioni e passioni e potenzialità nuove, il cui insieme oltrepassa la somma di tutte le volontà e il significato di tutte le origini. Esiste una sostanziale distinzione tra Verità e Opinione, la prima collegata alla conoscenza e alla scienza, la seconda al giudizio, unico in grado di far cogliere la pienezza del mondo umano, in cui la verità può solo rivelarsi "nella comunicazione, tra contemporanei, come tra vivi e morti ". L'interesse si sposta dalla verità all'opinione, dalla conoscenza al giudizio, sì che la comunicazione diventa il momento fondamentale della politica. Aver esteso al campo umano il parametro-concetto di verità ha comportato l'eliminazione della pluralità umana e l'abolizione dello spazio pubblico: il giudizio e l'opinione sono invece libere creazioni dello spirito umano. La sfera del politico concerne l'incontro-accordo tra giudizi disinteressati dei singoli, i quali aderiscono allo spazio comune, alla vista degli altri. Il potere comunicativo acquista rilevanza, e la rivoluzione, in quanto agire che è comunicativo, si lega ad un concetto di fondazione come istituzione dell'autorità, come tradizione dell'agire e in tale contesto la disobbedienza civile consiste in un'azione che è partecipazione, consenso-contestazione e quindi espressione di quell'associazionismo volontario che è sempre stato " il rimedio tipicamente americano al fallimento istituzionale, all'impossibilità di fare affidamento sugli uomini e alle incertezze dell'avvenire ". Per Arendt, noi siamo liberi di cambiare il mondo e di introdurvi il nuovo. Senza questa libertà mentale di riconoscere o di negare l'esistenza, di dire sì o no, non ci sarebbe alcuna possibilità d'azione; e l'azione è evidentemente la sostanza stessa di cui è fatta la vita politica. Nell'analizzare la disobbedienza civile, Arendt sottolinea il turbamento che arreca alla legalità ma anche una sorta di valvola di sicurezza nei momenti in cui le istituzioni fanno naufragio, diventa come afferma Rawls " uno dei meccanismi di stabilizzazione di un sistema costituzionale " ("Una teoria della giustizia"). In questo contesto, dobbiamo dire che il fine della legge è quello di essere un freno all'eccessiva mobilità delle azioni libere degli individui, le leggi sono limiti, barriere, quadri di riferimento. Il diritto non è strumento o esigenza di giustizia, è solo concepito per mantenere la stabilità. Il diritto e le costituzioni sono costruite dall'uomo, e sono determinate nel tempo e nel territorio su cui legiferano, non hanno la necessità delle leggi naturali. Leggi, costituzioni e patti sono gli elementi stabilizzanti degli affari umani, sono uno dei modi specifici in cui il mondo è introdotto nell'esistenza dell'uomo. Ma esiste una possibilità di fare posto alla disobbedienza civile nel funzionamento delle nostre istituzioni politiche? Arendt chiama in causa la Corte Suprema, quando si rifiuta di occuparsi di ricorsi che contestassero la legittimità e la costituzionalità di decisioni governative concernenti la guerra del Vietnam: " la Corte ha ritenuto che questi ricorsi mettessero in discussione la dottrina del campo politico secondo cui certi atti del potere legislativo ed esecutivo non possono diventare oggetto di un controllo giurisdizionale ". La dottrina del campo politico è di fatto la breccia che permette di reintrodurre nuovamente in un ordinamento giuridico che li ha rifiutati per principio, il principio di sovranità e la ragion di stato. Per disobbedienza civile Arendt non intende una delinquenza di tipo comune, o una resistenza o obiezione di coscienza. Perchè vi sia disobbedienza civile è necessario che si verifichi una violazione disinteressata, consapevole e intenzionale di una legge valida, emanata da un'autorità legittima, la violazione deve essere pubblica e pubblicizzata perchè espressione dell'opinione di un gruppo, senza interessi personali. Sono le opinioni e non gli interessi a spingere alla disobbedienza civile. Essa è volontà di opposizione che si esplica sulla scorta di un'opinione condivisa diretta contro leggi determinate. La disobbedienza civile è espressione di quell'agire di concerto, che è la vera anima della politica, e nasce dall'accordo comune. L'accento si sposta da una considerazione della disobbedienza civile quale fatto della coscienza individuale ad una considerazione quale fatto di una coscienza collettiva, cioè politica. La coscienza comune, al contrario, che si realizza nell'incontro-accordo delle opinioni, è sempre un agire di concerto, quindi potere. La disobbedienza civile in quanto espressione di un impegno politico, non risponde ad un rifiuto dell'obbligazione politica, bensì ad una riaffermazione della sua priorità sul diritto. La differenza tra consenso generalizzato ad una comunità, implicante continua accettazione delle sue regole, e consenso relativo alla vita della comunità, si arricchisce di variabili quali la comprensione, il perdono e la promessa. Il consenso, che è lo spirito delle leggi americane, è fondato sulla nozione di un contratto implicante obbligazioni reciproche. " Il consenso e il diritto al disaccordo sono diventati l'ispirazione e il principio di organizzazione dell'azione e hanno insegnato agli abitanti di questo continente l'arte dell'associarsi insieme. […] La minaccia che grava oggi sul movimento studentesco, che è oggi il più importante dei gruppi che praticano la disobbedienza civile, non deriva solo dal vandalismo, dalla violenza, dai furori e dalle cattive maniere, ma dal crescente contagio delle influenze ideologiche (maoismo, castrismo, stalinismo, marxismo, leninismo e via di seguito) che conducono, in realtà, alla divisione e alla dissoluzione dell'associazione ". Arendt ritiene che la disobbedienza civile sia il rimedio migliore contro l'impotenza del controllo giurisdizionale. Si dovrebbe quindi per prima cosa, ottenere per le minoranze che praticano la disobbedienza civile la stessa forma di riconoscimento che è accordata a numerosi interessi particolari, ai gruppi di pressione, che con la mediazione dei loro rappresentanti possono influenzare e sostenere il Congresso con l'arma della persuasione, col peso della loro opinione e del numero degli aderenti. Si dovrebbe in secondo luogo, secondo Arendt, riconoscere pubblicamente che il Primo Emendamento non autorizza, né nella lettera né nello spirito, l'esercizio del diritto di associazione, così come viene di fatto praticato nel paese. Il diritto non potrebbe giustificare la violazione della legge, anche quando questa violazione avesse per obiettivo di impedire la violazione di un'altra legge. In conclusione categoria fondamentale resta per Arendt la nascita che dà all'uomo la capacità di essere un inizio, con la sua azione e la sua libertà. Il secondo saggio, "Comprensione e politica", punta l'attenzione sulla categoria della comprensione e sulla sua funzionalità nell'interpretare la storia degli eventi. Lottare contro il totalitarismo significa comprendere le sue radici e il suo sviluppo, è un'attività in fieri, senza fine, sempre diversa e mutevole, grazie alla quale accettiamo la realtà, ci riconciliamo con essa, ci sforziamo di essere in armonia col mondo. Comprendere non è però perdonare, non è un atto unico che termina al suo compimento, significa invece riconciliarsi con un mondo in cui cose del genere sono semplicemente possibili. Dato che i movimenti totalitari sono apparsi in un mondo non totalitario, il processo della loro comprensione è chiaramente un processo di autocomprensione. " Il paradosso della situazione moderna sembra consistere nel fatto che il nostro bisogno di trascendere la comprensione preliminare e l'approccio prettamente scientifico nasca dalla perdita degli strumenti di comprensione. La nostra ricerca di significato è ad un tempo stimolata e frustrata dalla nostra incapacità di creare significato. […] Per coloro che hanno a cuore la ricerca del significato e della comprensione ciò che è sorprendente nel sorgere del totalitarismo non è che esso sia qualcosa di nuovo, ma che esso abbia portato alla luce la rovina delle nostre categorie di pensiero e dei nostri criteri di giudizio. La novità è il regno dello storico che, a differenza di quello dello scienziato, che fa riferimento ad ogni evento ricorrente, si occupano di eventi che capitano una sola volta. Solo quando è accaduto qualcosa di irrevocabile possiamo tentare di tracciarne la storia: l'evento illumina il suo passato ma non può mai essere dedotto da esso. E' compito dello storico scoprire in ogni periodo dato l'imprevisto ed il nuovo con tutte le sue implicazioni e scoprire il pieno potere del suo significato. E la Storia è una storia che ha molti inizi ma nessuna fine. " Arendt riprende il tema della "2banalità del male" sul quale si era soffermata durante il resoconto sul processo Eichmann. Gli atti mostruosi non potevano essere giustificati dalla presunta mostruosità del loro autore, dalla sua malvagità o insanità o qualche convinzione ideologica. L'unica caratteristica che si potesse cogliere in Eichmann era qualcosa di totalmente negativo: indubbiamente non si trattava di ottusità, ma di una strana, autentica incapacità di pensare; accettava ogni nuovo codice di giudizio come se si fosse trattato solo di una diversa regola linguistica. E' possibile fare il male, non solo sotto la forma di peccato di omissione, ma anche di commissione senza che ci sia una motivazione in senso assoluto, un qualsiasi particolare supporto di interesse o volizione? La malvagità, comunque la si definisca, questo essere determinati ad esser criminali, non è una condizione necessaria per il male? La nostra capacità di giudizio, di distinguere il giusto dall'ingiusto, il bello dal brutto, dipende dalla nostra facoltà di pensare? Sono questi gli interrogativi che Arendt si pone nel saggio. Arendt enuncia tre proposizioni che sono le sue principali argomentazioni per quanto riguarda la stretta connessione esistente tra capacità o incapacità di pensare e il problema del male.

" Primo. Se tale connessione esiste sempre, allora la facoltà di pensare, in quanto distinta dalla sete di conoscere, deve essere riconosciuta ad ognuno e non può essere privilegio di pochi. Secondo. Se Kant è nel giusto e la facoltà di pensare si ribella naturalmente contro l'accettazione dei propri risultati come solidi assiomi, allora non possiamo aspettarci dall'attività di pensiero alcuna proposizione o comando morale, alcun codice definitivo di condotta, e meno che mai una definizione nuova e dogmaticamente asserita di ciò che sia bene o male. Terzo. Se è vero che il pensiero ha a che fare con degli invisibili ne segue che è fuori dalla norma perchè normalmente siamo in un mondo d'apparenza nel quale l'esperienza più radicale della disapparenza è la morte. Si è sempre ritenuto che il dono di occuparsi di cose che non appaiono richiedesse un prezzo, cioè rendesse cieco il pensatore o il poeta nei riguardi del mondo visibile. […] Non ci sono pensieri pericolosi, ma è il pensiero in sè ad essere pericoloso, anche se il nichilismo non è un suo prodotto. Esso non è altro che l'altro lato del convenzionalismo; il suo credo consiste nella negazione dei valori correnti, cosiddetti positivi, a cui rimane legato. Anche il non pensare, che sembra essere una situazione tanto raccomandabile in campo politico e morale, comporta i suoi rischi. Corazzando la gente contro i rischi dell'analisi, li abitua ad accettare immediatamente qualunque regola di condotta vigente in un dato tempo e in una data società. La gente è abituata a non prendere mai decisioni ".

Sebbene Socrate negasse che il pensiero corrompesse, non pretendeva che esso rendesse migliori, e sebbene dichiarasse che " nessun bene più grande fosse mai capitato alla città di quello che egli stava facendo ", non pretendeva di aver iniziato la sua carriera di filosofo per diventare un tale grande benefattore. Se " una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta "(Apologia 30 e 38), allora il pensare accompagna il vivere quando si occupa di concetti quali giustizia, felicità, temperanza, piacere, con parole che designano cose invisibili, parole che il linguaggio ha dato per esprimere il significato di tutto quello che accade nella vita e ci capita mentre siamo vivi. Gli uomini amano la saggezza e fanno filosofia perchè non sono saggi, proprio come amano la bellezza e fanno bellezza perchè non sono belli. Il brutto e il male sono esclusi per definizione dagli interessi del pensiero, sebbene essi possano occasionalmente presentarsi come deficienze, mancanza di bellezza, ingiustizia e male, come mancanza di bene. Questo significa che manca di radici proprie, di essenza che il pensiero possa afferrare: il male consiste nell'assenza, in qualcosa che non c'è. Il più cospicuo e pericoloso errore nella proposizione antica come Platone "Nessuno fa il male volontariamente" è la conclusione implicita "Ognuno vuole fare il bene". La triste verità è che la maggior parte del male è fatto da gente che non ha mai preso la decisione se essere cattiva o buona. La manifestazione del vento del pensiero non è conoscenza, ma è la capacità di distinguere il giusto dall'ingiusto, il bello dal brutto. E in realtà questo può impedire le catastrofi, almeno per me, nei rari momenti in cui si è arrivati ad un punto critico.

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