HANNAH ARENDT

A cura di Diego Fusaro


LA LINGUA MATERNA

Nella trascrizione della conversazione televisiva con Gunter Gaus, Arendt appare in tutta la sua spontaneità e immediatezza di linguaggio, nel suo modo di rispondere e di vedere è sincera e diretta. E' qui che si definisce teorica politica e non filosofa poiché vuole staccarsi dalla tradizione che voleva il filosofo neutrale dalle questioni politiche, " io voglio guardare alla politica, per così dire, con occhi sgombri dalla filosofia ". Arendt vuole comprendere gli avvenimenti, non imporre una visione pregiudiziale o univoca, solo nel dialogo, nell'azione discorsiva di una pluralità di soggetti è possibile creare uno spazio pubblico che è il mondo. Nel colloquio sono toccati i temi più cari ad Arendt, dal totalitarismo al problema dell'ebraicità tra paria e parvenu, il processo Eichmann, la libertà e la lingua tedesca come patria del linguaggio. Prendere attivamente parte alla causa degli ebrei significava allora far parte del movimento sionista, l'unico che fosse preparata ad affrontare un problema di tipo politico, quello che la maggior parte degli ebrei non aveva capito. Essere ebrei nella Germania di HItler del 1933 significava "difendersi da ebrei", non da tedeschi o da cittadini del mondo, si doveva partecipare ad un'attività organizzata. Della patria natia ad Arendt è rimasta la lingua materna, con la quale ha un rapporto intimo, un legame stretto, conosce poesie in tedesco a memoria, " non è la lingua tedesca ad essere impazzita! " afferma Arendt, essa è un dato inestirpabile nell'individuo, è una parte di esso. L'incontro con la madre terra dopo Auschwitz è stato struggente, commovente, " soprattutto l'esperienza di sentire di nuovo della gente che parla tedesco per strada ". Arendt affronta quindi alcuni chiarimenti sul libro "La banalità del male" particolarmente il passo criticato dall'intellighenzia ebraica dove sembrerebbe criticare il ruolo dei consigli ebraici. Ella non ha mai criticato la mancata resistenza del popolo ebraico, ma le domande che vennero poste ai testimoni durante il processo Eichmann. Arendt qui spiega come certi atteggiamenti, certi discorsi di Eichmann la facessero ridere, " io penso che Eichmann fosse un pagliaccio […] mi sono messa a ridere tanto rileggendo l'interrogatorio della polizia ad Eichmann ". Il tono è certamente ironico, e questo non è piaciuto a molti, esso ha a che fare con la persona, non con i crimini che ha commesso. Arendt è ancora chiamata in causa quando dice in uno scambio di lettere tra lei e Gershom Scholem di non aver mai amato nessun popolo o collettività. L'amore esiste solo tra persone, tra gruppi esiste un interesse in comune o è un dato naturale. Quando l'amore viene mescolato all'azione " ritengo che sia qualcosa di disastroso " e catastrofico apolitico e a-mondano. Arendt conclude dicendo: " ritengo che anche la parola sia una forma d'azione. Questo è il primo rischio. Il secondo è: noi diamo inizio a qualcosa; annodiamo il nostro filo al tessuto delle relazioni. Che cosa poi succederà, non possiamo saperlo. L'azione è semplicemente concreta, perché non si lascia conoscere. Questo è un rischio. Questo rischio è possibile solo se si ha fiducia negli uomini. Ciò significa fiducia in ciò che è umano in tutti gli uomini. Altrimenti non sarebbe possibile ". Nel secondo saggio, Arendt riesamina gli attributi della filosofia, da Socrate ai giorni suoi e rivaluta l'opera di ricerca attiva dei filosofi mondani. In tal senso rivaluta la riscoperta del linguaggio come relazione tra un Io ed un Tu che si scambiano pareri e opinioni, entrano in comunicazione tra loro. L'ambito pubblico è l'estensione di queste caratteristiche al mondo delle istituzioni e delle associazioni. " L'autentica filosofia politica potrà scaturire solo da un atto originario di 'thaumadzein' , dallo stupore ".

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