HANNAH ARENDT

A cura di Diego Fusaro


EBRAISMO E MODERNITA'

Una serie di articoli dal luglio 1942 al gennaio 1950 mettono in luce la dinamica del pensiero arendtiano sulla questione arabo-israeliana e sulla condizione dell'ebreo senza patria. Il punto distintivo consiste nel riconoscimento dell'eccezionalità del conflitto, e di conseguenza dell'impossibilità di porvi termine con una pacificazione di tipo tradizionale. La guerra tra Israele e il mondo arabo si propone anche oggi, ed è vista non come conflitto tra stati, ma come una rivendicazione di una patria contesa tra due popoli con una diversa identità. Ecco perché l'analisi arendtiana va vista nel quadro della sua filosofia politica, in cui assume un valore fondamentale il concetto di isonomia . E' l'uguaglianza dinanzi la legge, la parità della propria presenza nello spazio pubblico, e il riconoscere la reciprocità dei diritti che diventa il fulcro per una possibile soluzione del conflitto. Arendt credeva che la sopravvivenza dello Stato di Israele fosse possibile solo in una confederazione palestinese. Pur essendosi sempre sentita sensibile alle vicende di Israele, Arendt era cittadina statunitense, e poté seguire, con quel distacco che lei riteneva indispensabile per l'analisi teorica, il processo Eichmann, sottolineando in una lettera a Gershom Scholem la sua indipendenza politica da ogni vincolo privato o di comunità: " hai perfettamente ragione - non sono animata da alcun amore di questo genere, e ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività - né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo solo i miei amici, e la sola specie d'amore che conosco e in cui credo è l'amore per le persone. In secondo luogo, questo amore per gli ebrei mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona. [...] Ebbene, è in questo senso che io non amo gli ebrei, né credo in loro; sono semplicemente una di loro. Questo è un dato di fatto fuori discussione ". La posizione di Arendt segue le orme di Bernard Lazare, la cui voce era rimasta inascoltata quando l'intero movimento sionista si era schierato attorno a Theodor Herzl. Lazare, contrariamente a Herzl, non considerava l'antisemitismo come un fenomeno naturale e inevitabile, bensì era convinto che solo attraverso il recupero di un'idea universale di umanità, e quindi di una dimensione politica che superasse gli angusti confini di una nazione, gli ebrei potessero accedere a quello spazio pubblico dove può realizzarsi l'aspirazione ad un'autonomia radicale. Questa raccolta si affianca all'interpretazione arendtiana dell'opera di Kafka, che descrive situazioni in cui uomini venuti dal nulla, senza biografia e senza patria, cercano ostinatamente un'esistenza normale e dei diritti che altri godono naturalmente, che rappresenta la condizione tipica degli ebrei o di un'umanità a cui, nell'epoca del totalitarismo, può capitare di essere trattata alla stregua degli ebrei.

" La storia ebraica moderna, che ha avuto inizio con gli ebrei di corte ed è continuata con gli ebrei milionari e filantropi, è pronta a dimenticare un'altra tendenza della tradizione ebraica: quella di Heine, Rahel Varnhagen, Scholem Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka, o persino Charlie Chaplin. Si tratta della tradizione di una minoranza di ebrei che non hanno voluto diventare dei nuovi ricchi, che hanno preferito la condizione di 'pariah consapevoli'. Tutte le vantate qualità ebraiche - il 'cuore ebraico', l'umanità, lo humor, l'intelligenza disinteressata - sono qualità del pariah ".

Così scriveva Hannah Arendt, in un articolo degli anni di guerra, ora parte di un libro che raccoglie saggi e interventi militanti scritti su riviste americane dal 1942 al 1950, gli anni della nascita dello Stato di Israele. Si tratta di articoli che formano un tessuto, anche contraddittorio, di riflessioni sulla condizione ebraica dopo lo sterminio, la "vittoria" sionista e il processo occidentale di integrazione. Al sionismo l'autrice rimprovera anzitutto di avere " un bagaglio teorico ormai obsoleto ", di aver bisogno dell'ostilità antisemita per fondare l'identità nazionale. D'altra parte non le sfuggono, per quanto riguarda la Palestina, i rischi di uno " sciovinismo di tipo balcanico ". Sui tragici avvenimenti in Germania la Arendt afferma, anticipando analisi posteriori, che lo sterminio non è l'espressione dello "spirito tedesco", ma se mai un fenomeno moderno e internazionale: l' " enorme macchina amministrativa dell'assassinio di massa ". In tal modo, già nel gennaio del 1945 Hannah Arendt individua gli elementi di quella 'banalità del male', messi poi pienamente in luce durante il processo Eichmann, e sollecita a scorgere, al di là della ideologia nazista, storie quotidiane come la vita di un padre di famiglia che, per difendere la pensione o per garantirsi un minimo di agiatezza, si trasforma in burocrate del crimine. Piuttosto che ricorrere alla propaganda anti-tedesca di stampo francese - consiglia la filosofa - è meglio sapere che in ogni società nella quale la disoccupazione offende " il comune rispetto di sé dell'uomo comune ", quell'uomo, allenato alla degradazione, può accettare " qualunque mansione, perfino quella del boia ". Il libro raccoglie in appendice le lettere che Hannah Arendt scambiò con Gershom Scholem. In questo carteggio lo studioso della mistica ebraica, sulle tracce della gnosi, sembra credere al "male radicale" e, in una serrata polemica, accusa la studiosa " di non amare il popolo ebraico ". " Io non 'amo' gli ebrei " - è la risposta - " sono semplicemente una di loro ".

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