ARISTIPPO

A cura di Diego Fusaro





INTRODUZIONE

ARISTIPPOL'ideale di libertà tratteggiato dal cinismo viene rielaborato da Aristippo di Cirene (435 a.C. - 360 a.C.) non come distacco dai propri bisogni ma come distacco dalle cose e dalla vita politica ( eleuqeria ). Secondo il filosofo la libertà si identifica con il dominio delle cose e delle passioni, che si ottiene attraverso la moderazione in ogni comportamento (ad esempio nel piacere non bisogna esagerare perché alla fine è il piacere stesso che domina te e non il contrario). L'edonismo, quindi, significa crogiolarsi nel piacere senza però essere dipendenti da esso (posseggo, non sono posseduto). Famoso l'aneddoto su Aristippo, a cui gli invasori avrebbero distrutto la casa, e lui non si sarebbe disperato per questo. Alle richieste dei soldati nemici del motivo per il quale egli non si disperasse, egli rispose che i suoi beni primari erano nella sua anima, e la perdita dei beni esteriori non lo toccava. Qui emerge l' autarkeia ("autosufficienza") di Aristippo: il filosofo stesso basta per sé e non ha bisogno di nient'altro. Secondo alcuni storiografi la dottrina dell'edonismo non deve essere attribuita ad Aristippo, al contrario di quanto afferma una storiografia abbastanza consolidata. Questa in realtà sarebbe stata elaborata da suo nipote, Aristippo il Giovane, e rielaborata poi dai cirenaici del IV e III secolo. La vita secondo i cirenaici ha come unico fine il piacere presente e momentaneo: questa limitazione impedisce loro di definire un ideale di virtù duraturo che possa accompagnare l'uomo durante tutta la sua vita. La virtù viene, per contro, concepita come uno stato di autocontrollo (come sosteneva Democrito) e di libertà dell'animo. Con queste posizioni questa scuola si avvicinerà soprattutto alle filosofie elleniche, scetticismo e epicureismo in particolare, allentandosi invece dal socratismo. Aristippo aveva per lungo tempo frequentato Socrate e si era formato alla sua scuola, anche se, in precedenza, aveva già acquisito una cultura, diversissima da quella di marca socratica. Figlio di un mercante, fu il primo tra i socratici ad esigere denaro da coloro ai quali impartiva le sue lezioni e quando inviò dei soldi a Socrate, questi li respinse vivamente. Le definizioni universali (di bello, di bene, di giustizia, ecc) cui mirava Socrate, ad Aristippo non bastavano: al centro della sua filosofia pose quindi l'individualità, poiché per lui l'essenza universale dal lato della realtà era la coscienza individuale e, in questa prospettiva, ben si capisce perché additò il piacere come unica cosa cui l'uomo dovesse occuparsi. Il gran peso dato all'individualità singola si riverbera sulla stessa figura di Aristippo, di cui è importante, forse più del il pensiero, la personalità, il suo carattere: e non è un caso che la tradizione ci riferisca, più che le sue dottrine, il suo tenore di vita, i suoi detti, la sua indole. Egli ricerca il piacere come uno spirito colto, che per questa via si era elevato ad una completa indifferenza verso ogni particolarità, verso le passioni, verso ogni specie di vincolo. Aristippo, pur ponendo al centro di ogni cosa il piacere, non per questo disdegna la cultura, specie quella filosofica: anzi, le attribuisce il massimo valore, tant'è che, a suo avviso, solamente l'uomo dotato di cultura filosofica può raggiungere per davvero il piacere. Infatti - egli dice - non è facile sapere cosa sia effettivamente il piacere e solo un'accurata indagine filosofica può gettar luce in merito: ne consegue che, per raggiungere il piacere, occorre prima effettuare un'indagine filosofica. E Aristippo, coerentemente con tale impianto filosofico, condusse la sua vita ricercando, filosoficamente, il piacere: e sono particolarmente interessanti gli aneddoti che circolano sulla sua condotta di vita, che ne mettono in luce la vivacità geniale. Da buon filosofo, quale era, non ricercava un piacere efferato e momentaneo, dal quale poi sarebbe derivato inevitabilmente un male maggiore rispetto al piacere stesso: al contrario, era la filosofia ad indicargli i piaceri da seguire e quelli da respingere; filosofia che, a suo avviso, altra funzione non aveva se non di sgombrare l'animo umano da ogni ansietà, mettendo in risalto la caducità della vita umana e l'assurdità di attaccarsi alle cose, che per loro natura sono troppo mutevoli. Egli viveva saldamente ancorato al presente, adattandosi a tutte le circostanze: si trovava a suo agio sia alla corte dei re sia nella miseria più squallida, rimanendo sempre uguale a se stesso. Conduisse la sua vita soprattutto alla corte di Dionigi, dove fu sempre ben visto ma dove, in fin dei conti, mantenne sempre una sua libertà e una sua indipendenza, motivo per il quale fu detto da Diogene di Sinope "il cane regio". Si narra che una volta chiese cinquanta dracme ad un tale che voleva affidargli il figlio per l'educazione: ma poiché quel tale credeva che fosse troppo caro, protestando che, con tutti quei soldi, avrebbe potuto comprarci uno schiavo, Aristippo gli rispose: "compralo: così ne avrai due". Una volta Socrate, stupito per la sua ricchezza, gli chiese: "com'è che hai tanto denaro?" e Aristippo replicò: "e com'è che tu ne hai tanto poco?". Un'altra volta, poiché un'etera lo assillava dicendogli di aver avuto un figlio da lui, egli rispose: "puoi affermare che lo hai avuto da me con quella stessa sicurezza con cui, passeggiando per una macchia di spini, sapresti indicare proprio quello che t'ha punta". Un'altra volta ancora, Dionigi gli sputò in faccia e, poiché egli non s'era nemmeno mosso, fu aspramente criticato; al che, egli rispose: "i pescatori tollerano di restare inzuppati dall'acqua del mare, pur di poter prendere dei pesciolini, ed io non dovrei sopportare quanto m'è avvenuto per prendere una così grande balena?". Sempre Dionigi gli presentò tre etere, invitandolo a scegliersene una: egli se le prese tutte e tre, dicendo che era già stato pericoloso per Paride dare la preferenza ad una sola; portatele in casa, le fece allontanare tutte e tre. Aristippo non dava importanza al denaro, anche se lui stesso ne era fornitissimo e anche se, secondo il principio del piacere, sembrerebbe che il denaro sia importantissimo: lo sciupava per comprarsi leccornie e una volta pagò una pernice cinquanta dracme e, poiché un tale era sbalordito di fronte a ciò, egli disse: "e tu non l'avresti comprata per un obolo?"; siccome il tale rispose di sì, Aristippo replicò: "ebbene, per me cinquanta dracme non valgono più di un obolo". Una volta, viaggiando in Africa, si accorse che il suo schiavo era affaticato nel portare una certa somma di denaro; e allora gli disse "getta via quel che è di troppo, e porta soltanto quel che puoi". Interrogato da un tizio in che cosa si distinguesse l'uomo colto da quello ignorante, rispose: "in questo: che una pietra non può stare su un'altra", ossia tra loro corre la stessa differenza tra un uomo e una pietra. Aristippo, poi, paragonava quelli che coltivavano le altre scienze trascurando la filosofia ai proci di Penelope, che, come sta scritto nell'Odissea, possono sì entrare in possesso di Melanto e delle altre ancelle, ma non della regina.

ANALISI DEL PENSIERO DI CRISIPPO

La svalutazione della conoscenza della natura, le tesi convenzionalistiche delle leggi e della morale, il privilegiamento dell'etica e della "filosofia morale", sono le caratteristiche portanti della scuola socratica detta "cirenaica" perchè fondata da Aristippo di Cirene:

Le emozioni sono percepibili, e non ciò da cui esse derivano. Tralasciavano l'indagine sulla natura per la sua evidente incomprensibiIità, mentre si applicavano alla logica per la sua utilità. Nulla è giusto o bello o brutto per natura, ma solo per convenzione e consuetudine. (Diogene Laerzio II, 92)

I Cirenaici negano che vi sia qualcosa che possa essere percepito dall'esterno, ma affermano di percepire solo quelle cose che sentono con il senso interno, come il dolore e il piacere. (Cicerone, Accademica priora II 24,76)

Dolore e piacere, dunque, sono i due "movimenti" fondamentali dell'anima, il primo forte, il secondo lieve: il primo è dunque da rifuggire, il secondo da ricercare. II piacere è quindi il fine ultimo della vita, il piacere vissuto attimo per attimo e non quello della memoria o dell'aspettativa (come vorrà Epicuro), e la felicità non è che la confluenza dei singoli piaceri.

Il piacere particolare può essere scelto di per se stesso, mentre la felicità non può esserlo per se stessa, ma attraverso i piaceri particolari. Indizio che il piacere sia fine è il fatto che ci diventa familiare fin da quando siamo fanciulli senza alcuna nostra scelta, ma per se stesso, e quando ci capita non cerchiamo niente altro, e nulla cosí fuggiamo come il suo contrario, il dolore. (Diog. Laer. II 88)

Ma un piacere perseguito di per se stesso, senza nessuna preoccupazione di coordinamento con altri, si rivela ben presto illusorio: la somma dei piaceri della vita d'un uomo è di gran lunga inferiore alla somma dei suoi dolori. È questa la conseguenza che tirerà dalle dottrine di Aristippo un suo discepolo, EGESIA, tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C. Per Egesia,

la felicità è del tutto impossibile: il corpo infatti è pieno di mille sofferenze, l'anima soffre col corpo ed è turbata, e la sorte rende vane molte cose da noi sperate: sicché la felicità è irrealizzabile. Perciò il sapiente non si affannerà nel procurarsi i beni ma nell'evitare i mali, il che si realizza con uno stato d'animo d'indifferenza per ciò che produce il piacere. (Diog. Laer II 93-95)

Diceva anche che la vita è piacevole per gli sciocchi, mentre per il saggio piacevole è la morte, sí che alcuni per questo lo chiamavano "persuasor di morte". (Epifanio, Contro gli eretici, III,2,9)

Dall'esaltazione del piacere all'esaltazione della morte, massimo piacere: è questa la parabola percorsa dalla dottrina cirenaica: un'ulteriore testimonianza della crisi dei valori della polis. Il saggio non è piú il cittadino attivo che, all'interno della sua città, promuove un programma in cui ricerca scientifica, indagine filosofica, vita morale e civile, siano strettamente fuse, com'era stato per Parmenide, Empedocle, Protagora, Anassagora; il saggio è ormai l'uomo che si rinchiude in se stesso alla ricerca di una improbabile felicità, scettico soprattutto nei confronti della validità dei valori di una città che ormai non sente piú costruita a sua misura. L'evasione dalla città, l'indifferenza per i suoi valori (perché la libertà ormai non si realizza piú al suo interno), il disprezzo delle norme di convivenza sociale, sono caratteristiche anche della scuola cirenaica, come si può vedere dalla dottrina di Aristippo:

Io, disse Aristippo, non mi colloco certo nella schiera di coloro che vogliono comandare; quanto a me, mi colloco tra coloro che vogliono trascorrere la vita nella maniera piú facile e piacevole possibile... La mia via non passa né per il comando né per la servitù, ma per la libertà, ed è quella che meglio porta alla felicità. Non mi rinchiudo in nessuna città, ma ovunque sono forestiero; (Senofonte, Memorabili II 1,8-13)

e da quella di un altro suo discepolo, TEODORO detto l'ateo:

Diceva anche che è ragionevole che l'uomo di valore non si sacrifichi per la patria poiché è sconsiderato gettare via la propria saggezza per l'utilità degli insensati. La patria è il mondo; è lecito rubare, commettere adulterio e compiere sacrilegi, ma al momento opportuno: nessuna di queste cose infatti è turpe per natura, una volta che sia stata rimossa la valutazione che è stata legata a quelle cose per tenere insieme gli stolti. Apertamente il saggio farà uso delle cose che brama, senza alcuna esitazione. (Diogene Laerzio II 98-99)



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