Religiosità e filosofia della pace e della non violenza. I valori del buddhismo

 

Di Antonietta Pistone

 

 

 

Il Buddhismo nasce in India nel VI sec. A.C. e si diffonde successivamente in Cina, accanto al Confucianesimo e al Taoismo, in Giappone, in Tibet, in Mongolia, nell’isola di Ceylon, in Thailandia, in Birmania, in Cambogia e persino nell’Europa occidentale, in Francia e in Germania. Siddhartha, il Buddha Gautama, ne predica la dottrina per la quale la vita è essenzialmente sofferenza. La strada per sospendere questa condizione di insoddisfazione è la pratica del distacco dalle cose del mondo materiale. Se vivere è desiderare, e il desiderio causa dolore, bisogna smettere di volere e bramare per smettere di soffrire. Cioè praticare il distacco ascetico dalla realtà materiale, per trovare la pace dei sensi. Per i Buddhisti tutto è permeato di spirito, e la meditazione consente di diventare una sola cosa con la realtà dell’intero universo. La penetrazione dell’essenza spirituale del reale abolisce l’opposizione di soggetto e oggetto, e permette la fusione dell’individuo singolo con l’universalità di tutto il reale circostante. Questo “respiro” totale e totalizzante, che abbraccia l’interezza dell’essere esistente, deriva dal distacco dalla materialità del desiderio, del potere, del denaro e della fama. L’unica cosa che importa è la ricerca della pace interiore, che è saggezza ed equilibrio nuovo dell’uomo con il proprio habitat naturale e sociale. Ne deriva una predisposizione alla vita contemplativa ed ascetica, praticata dai monaci buddhisti, i quali fanno voto di povertà, castità e silenzio. Difatti, proprio il silenzio è un elemento fondamentale per la meditazione religiosa. Mentre gli ideali della povertà e della castità rimandano alla liberazione e alla purificazione dal bisogno sessuale o materiale. Le tecniche di meditazione, come il controllo della respirazione e del proprio corpo, sono tutti strumenti utili a raggiungere questa condizione di ascetismo sognante e di piena soddisfazione dell’anima. Referenti filosofici del Buddhismo sono, in epoche successive, l’umanesimo di Socrate e di S. Agostino, per i quali la verità risiede nel cuore dell’uomo; Schopenhauer, che predica la necessità del distacco dal bisogno e del superamento dei desideri che animano la volontà, proponendo un ideale di vita ascetico; Cartesio, che pratica il dubbio metodico e invita l’uomo a fidarsi solo ed esclusivamente di ciò in cui crede per sola, provata esperienza. Il Buddhismo, in quanto atteggiamento filosofico, può definirsi antimetafisico, perché contiene continui richiami all’esperienza concreta di vita degli uomini, rifiutando sistemi onnicomprensivi ed autoesplicativi del reale. Attualmente, il Buddhismo rappresenta anche un richiamo ai valori della pace e della non violenza di Gandhi, per tutti i popoli dell’Occidente. Costituisce, inoltre, un esplicito invito a prendere decisamente posizione nei confronti della contemporaneità, eleggendo a scelta ideologica dominante l’antipositivismo, l’antiscientismo, l’antirazionalismo tecnologico e globalizzante. Attraverso la capacità di “sentire” la spiritualità che permea di sé tutta la storia dell’umanità. Intesa come un eterno ritorno, senza sviluppo, senza inizio né fine. Entro questa concezione circolare dello spirito è possibile la reincarnazione Karmica, che richiama alla memoria la metempsicosi delle anime dopo la morte, di cui parlano sia Pitagora che il grande Platone. I valori del Buddhismo si iscrivono, in questo senso, entro una cultura filosofica della pace. Si pensi a Erasmo da Rotterdam, allo stesso Socrate, ma anche a Kant, a Kelsen. Al personalismo di filosofi cattolici quali Mounier e Maritain, che esaltano l’umanesimo integrale di anima e corpo. E c’è anche un filone ebraico di studi filosofici sulla pace. Buber, ad esempio, parla della relazione intersoggettiva io-tu, che si instaura nel dialogo tra due persone. E che ricorda il Buddhismo Zen del giapponese Nishitani. Vi è poi la filosofia laica della pace di Lévinas, che individua il criterio del rispetto dell’altro nella fenomenologia del volto. L’Altro è colui che si incontra e che mostra, al primo impatto, il suo volto, nel quale si scorge l’infinito, ciò che attrae e respinge. In ogni caso, l’elemento che impone di considerare ogni uomo come una parte del tutto, di quella globalità nella quale quella singola, individuale esistenza è assolutamente indispensabile. Pertanto, ciò che accade ad ogni uomo non può restare indifferente alla categoria degli Altri. Perché ciascuno ha in sé quel briciolo di umanità che impone ad ognuno di riconoscersi nell’Altro. La dimensione filosofica della pace, di cui parla Lévinas, è l’ateismo. Seppure esista un Dio, è proprio nella distanza che intercorre tra Lui e l’uomo ateo che emerge la rispettiva grandezza. Quella del Creatore e quella delle creature. Che sono esistenze degne proprio perché dotate di intelligenza e di libertà morale. Anche per Lévinas non esiste più alcun residuo di metafisica che, come nel Buddhismo, finisce per coincidere proprio con la filosofia morale e con la religiosità, intese come spirito infinito che anima l’umana coscienza.

Antonietta Pistone

Docente di storia e filosofia

Articolo pubblicato sul “Rosone”, anno XXVII, marzo-aprile 2004


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