IL PROCESSO DI SCAMBIO (II)

Ciò che più sconcerta dell'inizio del Capitale è che Marx parla continuamente di liberi proprietari privati, che producono gli uni indipendentemente dagli altri, e che s'incontrano sul mercato per scambiarsi i loro prodotti, facendoli diventare delle merci.

Si ha la netta impressione che questo modo d'impostare le cose sia del tutto astratto, poiché la nascita della figura del proprietario privato non è mai avvenuta, nell'ambito del capitalismo, senza la contemporanea nascita del lavoratore salariato.

Finché il proprietario privato non dispone di manodopera salariata, non è neppure il caso di parlare di “economia mercantile”: infatti, pur esistendo lo scambio sul mercato, l'economia dominante resta quella basata sull'autoconsumo. Viceversa, quando il proprietario privato può affermare la propria assoluta autonomia rispetto alla comunità “d'origine”, ciò avviene appunto perché egli ha già alle sue dipendenze dei salariati.

Marx, partendo dalla merce, e non ad es. dal “salario”, come nei Manoscritti del 1844, pare abbia avuto l'intenzione di dimostrare che se la contraddizione maggiore del capitalismo resta quella del lavoro salariato, tutto il resto è però facilmente accettabile o comunque recuperabile dalla transizione socialista. La stessa grande astrazione usata nell'analisi della merce sembra essere finalizzata a dimostrare questa tesi.

Nel Capitale c'è una sorta di passiva contemplazione del sistema capitalistico, per quanto l'analisi delle sue manifestazioni, palesi e occulte, si sia notevolmente perfezionata, mentre sul ruolo politico del proletariato il testo non offre nulla di più di quanto si può trovare nel Manifesto.

E' davvero impressionante, in tal senso, il fatto che Marx consideri i “possessori di merci” come semplici “maschere economiche” che personificano dei rapporti economici (p.88). Nel Capitale la società mercantile appare come un teatro in cui le parti degli attori sono fissate in maniera irrevocabile. Nessuno può rinunciare al proprio ruolo e assumerne un altro.

D'altra parte per Marx il processo di scambio può avvenire solo fra possessori di merci che si riconoscono reciprocamente come “proprietari privati”. Essi sono “persone” proprio in quanto hanno capacità autonome, indipendenti rispetto alla comunità “d'origine”. Essi sono “liberi” non perché appartengono a una comunità, ma, al contrario, perché se ne sono liberati. La libertà si esprime, formalmente, attraverso un riconoscimento giuridico, contrattuale, volitivo, della reciproca indipendenza materiale, economica.

A Marx non interessa individuare la motivazione culturale, “valoriale”, che ha indotto gli uomini ad acquisire un tale modo di affermare la propria identità. La motivazione di fondo, per lui, non è culturale ma economica: i possessori di merci s'incontrano sul mercato perché hanno bisogno della merce altrui: “tutte le merci sono per i loro possessori valori non d'uso e per i loro non-possessori valori d'uso”(p.89).

Accettando, come motivazione ultima dell'agire, la necessità economica, Marx è poi costretto ad affermare, da un lato, che “le merci, prima di potersi realizzare come valori d'uso, si debbono realizzare come valori”(ib.); dall'altro, che esse, “prima di potersi realizzare come valori, si debbono accertare come valori d'uso”(ib.).

Cioè, da un lato Marx assegna al valore di scambio un primato su quello d'uso, ritenendo che solo lo scambio possa provare se un lavoro è utile; dall'altro è costretto a riconoscere che senza un valore d'uso lo scambio non avrebbe senso. Col che però non si riesce a comprendere come il bisogno dello scambio possa “precedere”, non cronologicamente, è ovvio, ma piuttosto “ontologicamente” il valore d'uso.

Per Marx il valore d'uso, non avendo un significato in se stesso, pare finalizzato a quello di scambio, nel senso che uno scambio subordinato al primato del valore d'uso non può determinare il valore della merce. In altre parole, non avendo capito che il passaggio da un primato all'altro presuppone un'autentica rivoluzione culturale (di mentalità ecc.), Marx è stato costretto ad attribuire all'effetto di tale rivoluzione una causa (genetica) dell'intero processo di scambio.

Paradossalmente, il determinismo economico qui si rovescia in quello psicologico, in quanto i possessori di merci “pensano -dice Marx- come Faust. In principio era l'azione. Le leggi della natura delle merci si son fatte già sentire nel naturale istinto dei possessori di merci”(ib.). Il borghese cioè attribuisce per istinto al valore di scambio il primato su quello d'uso e fa immediatamente del denaro e non di una merce particolare -che rimanderebbe troppo al suo valore d'uso- l'equivalente generale.

Inutile dire che, se veramente fosse così, sarebbe impossibile cercare di capire il motivo per cui il capitalismo è nato nell'Europa occidentale del XVI sec. e non nell'impero bizantino o nella Cina dei Ming. Lo stesso Marx, d'altronde, s'era reso conto di questa difficoltà, laddove in Sulle società precapitalistiche dirà: “eventi di un'analogia sorprendente, ma verificatisi in ambienti storici del tutto diversi condussero a risultati diversi” -ma non riuscì mai a spiegarsela.

“La trasformazione della merce in denaro avviene nella medesima misura della trasformazione dei prodotti del lavoro in merci”(p.90). In tal senso, quando Marx parlava nel § 3 del cap. 1 delle diverse forme di valore della società mercantile, e ne elencava quattro tipi, bisognava intendere solo l'ultima, quella del denaro, come la più rappresentativa del modo di produzione capitalistico, mentre tutte le altre sono riferibili solo a formazioni sociali non capitalistiche.

Tuttavia, se questo è vero, il passaggio da una forma all'altra non può essere inteso in maniera puramente logica. Se l'istinto borghese è quello di scegliere il denaro come equivalente universale, ciò significa che l'adozione di una delle altre tre forme, finché tale istinto non s'impone, è destinata a rimanere nel tempo. Quell'istinto infatti è, secondo noi, il frutto di una scelta culturale ben precisa, che gli uomini possono anche vivere inconsapevolmente, ma che non per questo essa non è oggettivamente individuabile.

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Dunque, rendendosi conto d'aver fatto, nel § 3 del cap. 1, un discorso troppo astratto, Marx riprende l'argomento a p. 91, mostrando che “lo scambio diretto dei prodotti” non esiste solo nella semplice forma di valore: x merce A = y merce B (vedi p.41), ma esiste anche in un'altra forma, riscontrabile in ogni società non capitalistica: quella che s'impone quando esiste un'eccedenza dopo l'autoconsumo. “La prima maniera d'essere potenzialmente valore di scambio -dice Marx- è per un oggetto d'uso il suo esistere come non-valore d'uso, come quantità di valore d'uso eccedente gli immediati bisogni del suo possessore”(p.91). L'equazione in questo caso è: x oggetto d'uso A = y oggetto d'uso B.

Tuttavia, Marx compie qui un duplice errore: da un lato rifiuta di accettare l'idea che possa esistere un valore di scambio in nome del valore d'uso (lo scambio, nella sua analisi, presuppone sì l'uso ma al tempo stesso lo nega); dall'altro ritiene che lo scambio del surplus sia destinato ad affermare, con la fine del valore d'uso, la fine della comunità autarchica.

Secondo Marx il vero scambio è possibile solo là dove esiste un “rapporto di reciproca estraneità”(ib.) tra il produttore e il consumatore. Quindi “lo scambio di merci ha inizio dove terminano le comunità, ai loro punti di contatto con comunità estranee”(ib.).

Ora, a parte il fatto che questo può essere vero inizialmente, in un primo momento, ciò che non si può assolutamente accettare è che la fine della reciproca estraneità comporti necessariamente la fine della comunità. Il passaggio di cui parla Marx, e cioè “quando le cose sono diventate merci nella vita esterna della comunità, esse, per reazione, lo divengono anche nella sua vita interna”(ib.), non è affatto un passaggio automatico, ma sempre l'esito di una scelta culturale, fatta in maniera più o meno consapevole. La stessa decisione, da parte di Marx, di rendere automatico il passaggio è frutto di una scelta culturale. Egli infatti non riesce ad accettare l'idea che una comunità basata sull'autoconsumo possa commerciare con una comunità estranea senza perdere la propria identità. A suo giudizio, se c'è lo scambio ce n'è il bisogno e se c'è il bisogno la comunità non è autosufficiente.

“In un primo tempo -dice Marx- il loro [delle comunità] rapporto quantitativo di scambio è del tutto occasionale. (...) Intanto si afferma mano a mano il bisogno di oggetti d'uso di altri: e questo diviene un normale processo sociale per il continuo ripetersi dello scambio. Da adesso in poi si afferma, da un lato, la distinzione tra l'utilità delle cose per il bisogno del momento e la loro utilità per lo scambio: il loro valore d'uso si distingue dal loro valore di scambio. D'altro lato viene a dipendere dalla loro produzione il rapporto quantitativo secondo il quale esse sono scambiate: l'abitudine le fissa come grandezze di valore”(pp.91-2).

Come si può chiaramente notare, Marx considera il passaggio dall'autoconsumo al mercato come necessario, inevitabile, dettato dal fatto stesso ch'esiste un bisogno di scambiare i prodotti, di acquistare quelli che non si producono. Egli non riesce a distinguere tra bisogni primari o fondamentali e bisogni secondari. I primi non sono anzitutto quelli economici, ma quelli connessi all'affermazione della libertà, i quali naturalmente hanno bisogno di una certa configurazione sociale dell'economia. I secondi non sono certo quelli che, in ultima istanza, garantiscono l'esistenza di tale libertà.

Una comunità autarchica non rinuncerebbe mai alla propria indipendenza per subordinarsi al mercato sulla base dei propri bisogni secondari. E se dovesse restarvi subordinata sulla base dei bisogni primari, essa non sarebbe autarchica.

Non esiste quindi passaggio obbligato dall'autoconsumo al mercato, poiché qualunque comunità autarchica, dovendo scegliere fra autonomia e soddisfazione di bisogni primari da un lato, e dipendenza e soddisfazione di bisogni secondari dall'altro, sceglierebbe la prima soluzione. A meno che essa non viva al proprio interno una crisi di legittimità o di credibilità, di fronte alla quale emergono alcune categorie sociali che, invece di affrontare collettivamente la crisi, credono di potersi emancipare individualmente attraverso il mercato. E' a questo punto e solo a questo punto che la comunità si trova costretta a scegliere fra le due suddette alternative. E l'illusione, scegliendo la seconda, di poter continuare, come comunità, a soddisfare anche i bisogni primari, si scontrerà ben presto con la dura realtà dei fatti.

Marx inoltre non prende neppure in considerazione l'eventualità che la comunità autarchica possa imparare a riprodurre, proprio in virtù dello scambio, ciò di cui ha bisogno. Sarrebbe davvero un curioso destino che la casualità di un rapporto commerciale avesse in sé il potere di trasformare totalmente una comunità, a prescindere dalla volontà dei suoi membri.

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La scelta di usare il denaro come equivalente universale permette alla borghesia di scindere completamente il valore di scambio da quello d'uso o “dal bisogno individuale di quelli che effettuano lo scambio”(p.92).

Tuttavia, per Marx la scelta del denaro avviene soltanto per motivi pratici, contingenti: “la necessità di questa forma si determina coll'aumentare del numero e della varietà delle merci implicate nel processo di scambio. Il problema sorge contemporaneamente ai mezzi per risolverlo”(ib.). Detto con una formula hegeliana: numerose determinazioni quantitative, sommate una sull'altra, ad un certo punto producono una nuova qualità. Il determinismo economico è qui riconfermato.

Marx però non riesce a spiegarsi il motivo per cui, mentre l'uso del denaro come equivalente universale, è rinvenibile presso moltissime civiltà, solo in quella borghese esso è in grado di ridurre tutto a merce. “Le popolazioni nomadi -dice Marx- creano per prime la forma di denaro, giacché ogni loro bene sta in forma mobile, perciò direttamente alienabile”(ib.). Il fatto di vivere continuamente a contatto con comunità straniere, le stimola allo scambio dei prodotti. Naturalmente -dice Marx- molto forte è sempre stato l'uso del denaro per l'acquisto di prodotti esteri.

Tuttavia, “solo in una società borghese già perfezionata”(p.93) poteva apparire l'idea di fare della terra una merce alienabile. Questa idea -prosegue Marx- “data dall'ultimo trentennio del XVII sec. e la sua applicazione su scala nazionale fu provata solo un secolo più tardi, nella rivoluzione borghese dei francesi”(ib.), tramite gli “assegnati”, che erano titoli di credito garantiti sulle terre appartenenti al clero regolare e incamerate dallo Stato. Marx però non offre una spiegazione convincente di questo.

Infatti, prima di arrivare ad espropriare la terra, occorre che il denaro abbia acquisito a livello di società civile un potere universalmente riconosciuto, in grado di condizionare lo stesso potere politico. E ciò è stato storicamente possibile solo a una condizione, che l'ideale religioso cattolico fosse entrato in una crisi così profonda da necessitare un suo superamento qualitativo. Il limite della soluzione borghese sta appunto in questo, che al feticismo religioso è stato sostituito quello economico. Il superamento c'è stato ma non di ordine “qualitativo”. Di fatto la società mercantile non esprime una vera alternativa al servaggio e al clericalismo, ma un modo ancora più sofisticato di vivere lo sfruttamento e l'alienazione.

Marx ha tutte le ragioni ad opporre il denaro come merce universale a coloro che volevano considerarlo solo come un “segno” del valore. Allorquando era vietato considerare il denaro come merce e quindi venderlo, era il potere politico (monarchico) a stabilire il valore del denaro. In tal modo l'arbitrio delle istituzioni s'imponeva sullo sviluppo delle relazioni sociali, impedendo, per quanto poteva, che s'imboccasse la direzione “borghese”, o che tale direzione acquisisse un'eccessiva autonomia.

Tuttavia, Marx ha visto in questo solo il lato negativo. Concedendo il primato al valore di scambio, egli non avrebbe mai accettato l'idea che il denaro possa essere collettivamente considerato come un “segno” del valore d'uso. La caratteristica “simbolica” del denaro potrebbe essere del tutto lecita, in riferimento al valore d'uso, se fosse accettata consapevolmente e liberamente da tutta la società. In tal caso il denaro perderebbe la sua funzione di merce universale, che si contrappone a una qualunque altra merce, e conserverebbe sia quella di un particolare valore d'uso (ad es. per oggetti ornamentali), sia quella di equivalente generale, non in astratto, ma in concreto, cioè in riferimento a beni di utile consumo.

Se in una società dominasse il valore d'uso, gli uomini non avrebbero mai l'impressione che il potere del denaro, in ultima istanza, possa essere “onnipotente”, anche a prescindere da ciò ch'esso effettivamente rappresenta. Nel capitalismo il possesso del denaro autorizza automaticamente a credere che vi siano sempre delle merci da acquistare. “Non pare che una merce si trasformi in denaro solo perché in essa, da ogni lato, le altre merci indicano i loro valori, ma al contrario, pare che le altre merci indichino in generale in essa i propri valori, in quanto è denaro”(pp.97-8).

Marx ha compreso perfettamente “la magia del denaro”, ovvero il nesso tra “l'enigma del feticcio denaro” e quello del “feticcio merce”(p.98), ma non ha compreso il rapporto di causa/effetto che lega il feticismo religioso con quello economico. Cioè non ha compreso che quando saranno superate le radici culturali di ogni possibile feticismo, la funzione del denaro si ridurrà a quella di rappresentare simbolicamente il valore d'uso, semplicemente per rendere più agevoli gli scambi.

Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/