LA COOPERAZIONE (VII)

La prevalenza che Marx ha sempre concesso alla quantità rispetto alla qualità (seguendo, in ciò, la lezione hegeliana) la si può riscontrare anche nel cap. XI, dedicato alla Cooperazione. Per Marx “il punto di partenza della produzione capitalistica è costituito, sotto l'aspetto storico e concettuale, dall'operare di un numero abbastanza elevato di operai che avviene nello stesso tempo e nel medesimo luogo (o, se si vuole, nel medesimo campo di lavoro), volto a produrre, sotto il comando di un medesimo capitalista, uno stesso genere di merci”(p.407), su scala quantitativamente molto elevata.

Questo modo di spiegare la genesi del capitalismo può aver valore sul piano fenomenologico, ma non su quello ontologico. Come spiegazione storica e concettuale, essa resta senza dubbio insufficiente.

Dire che “all'inizio la differenza [tra capitalismo e corporazioni medievali] è meramente quantitativa”(ib.), è come dire, implicitamente, che tra corporazione e capitalismo non vi è mai stata una vera rottura socio-economica, ma solo il passaggio obbligato da una formazione meno produttiva a una più produttiva.

Difficilmente Marx avrebbe ammesso che pur in presenza delle suddette condizioni “formali” per il sorgere del capitalismo, la corporazione avrebbe potuto continuare a restare corporazione per secoli e secoli. Difficilmente egli avrebbe ammesso che quelle condizioni non sussistevano nelle corporazioni artigiane appunto perché la ragione culturale che supportava la corporazione era di tipo pre-capitalistico, cioè “voluta” e non “casuale”.

La fabbrica capitalistica non è nata semplicemente perché “l'officina del mastro non ha fatto che ingrandirsi”(ib.): anche là dove ciò fosse avvenuto, avrebbe dovuto per forza maturare, ad un certo punto, la consapevolezza che si stava costruendo qualcosa di radicalmente diverso dal tradizionale modo di produzione. La transizione dal feudalesimo al capitalismo è stata anzitutto il frutto di una libera scelta, più o meno consapevole, o comunque non più obbligata in un senso di quanto non lo fosse in un altro. La necessità storica dell'affermazione del capitalismo è stata, se vogliamo, una diretta conseguenza del fallimento di una possibile alternativa democratica alla crisi del sistema feudale.

L'esigenza del capitalista di riunire in un medesimo campo di lavoro il maggior numero possibile di operai, riflette, già di per sé, l'esigenza di dare più peso alla quantità di ciò che si produce che non alla qualità di come lo si produce: il che implica l'assegnazione di un primato al valore di scambio rispetto a quello d'uso. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale.

L'interesse per il lavoro sociale medio, nell'ambito del capitalismo, implica la fine del lavoro creativo, di qualità, del singolo artigiano o dell'équipe di artigiani attorno a un medesimo manufatto, e la nascita del lavoro meccanizzato, di quantità.

Anche nel Medioevo c'era l'esigenza di determinare il lavoro sociale medio: infatti si parlava di “giusto prezzo”. Solo che tale esigenza non era finalizzata alla determinazione matematica del profitto. Il “giusto prezzo” era una garanzia soprattutto per il consumatore: una garanzia di tipo etico-giuridico, per quanto proprio la necessità di stabilire un “giusto prezzo” riflettesse, indirettamente, un abuso economico da parte dei produttori.

Al di fuori di tale esigenza, la determinazione di una giornata lavorativa sociale media, nel feudalesimo, non avrebbe mai potuto portare a un'esatta determinazione del prezzo di una merce, per la semplice ragione che, quando vige il principio della qualità del lavoro, taluni oggetti, in realtà, non hanno prezzo, e lo scambio avviene su basi che non sono strettamente economiche. Nel senso che se si pone uno scambio di equivalenti, esso non va inteso in modo matematico (o finanziario), ma etico: due oggetti possono essere equivalenti anche se il loro valore monetario è diversissimo. E' la coscienza dei contraenti che decide l'equivalenza.

La visione economicista di Marx potrebbe avere un qualche significato se si partisse dal presupposto che lo sviluppo storico non è altro che il continuo e necessario superamento di determinate condizioni negative di esistenza materiale. Ma anche in questo caso (che è già di per sé inverosimile) sarebbe tutto da dimostrare -e Marx naturalmente non lo fa- che ogni superamento, per quanto limitato sia, costituisca sempre una fase progressiva rispetto alla situazione precedente. Marx cade in un semplicismo disarmante quando fa chiaramente intendere che il capitalismo, proprio perché ha superato il feudalesimo, rappresenta la positività nei confronti della negatività. O, peggio ancora, quando lascia intendere che il socialismo rappresenta la positività nei confronti del capitalismo, proprio perché il futuro è sempre migliore del presente.

Uno dei difetti principali dell'analisi economica di Marx è quello di voler applicare al sistema feudale dei criteri interpretativi che, al massimo, sono validi solo per il sistema borghese. Quando Marx afferma, p.es., che nel feudalesimo il saggio generale del plusvalore, a causa del modo individuale di lavorare, era impossibile determinarlo all'interno delle varie botteghe del mastro artigiano, in quanto s'imponevano di continuo, e necessariamente, delle differenze tra un operaio e un altro, nel medesimo lavoro, egli, così dicendo, fa astrazione completa dal “vero feudalesimo” e si crea, su misura, una sorta di para-feudalesimo che risulti di molto inferiore al capitalismo.

Per Marx infatti la compensazione economica delle differenze individuali degli operai, si otteneva, nel feudalesimo, solo a livello dell'intera società, “non per il singolo mastro artigiano”(p.410). Questo svantaggio individuale è stato superato dall'imprenditore capitalista proprio con la sua volontà d'essere “borghese” sino in fondo, con estrema coerenza.

Marx non sospetta neanche lontanamente che la suddetta compensazione a livello dell'intera società feudale potesse avere della ricadute positive sullo stesso mastro artigiano. Cioè che l'eventualità di lavorare in perdita, in un determinato caso, non pregiudicasse di per sé un feed-back positivo sulla propria attività, in termini non strettamente o non esclusivamente economici (si pensi p.es. alla sicurezza sociale). Per Marx il mastro artigiano concepisce se stesso in antitesi alle esigenze della società - proprio come il borghese sotto il capitalismo. La differenza sta nella scelta dei mezzi con cui affermare tale contrapposizione.

Dice Marx a p.412: “l'economia nell'uso dei mezzi di produzione non proviene che dal loro consumo comune nel processo lavorativo di molte persone”. Qui sta la differenza tra artigiano e capitalista.

In realtà le cose non sono così semplici, altrimenti tale economia -si può pensare- si sarebbe potuta verificare anche nel feudalesimo, senza che per questo vi fosse il pericolo di far nascere il capitalismo. Un'altra, più profonda, ragione riposa invece nella volontà di ottenere un profitto economico individuale contro l'interesse sociale della collettività.

Paradossalmente è proprio tale ragione a far sì che l'uso “comune” dei mezzi lavorativi sia “sociale” solo in apparenza, essendo esso, di fatto, costrittivo per la totalità dei lavoratori. Mentre, all'opposto, il carattere “individuale” del lavoro feudale -sostenuto da Marx- è in realtà solo presunto, in quanto la maggioranza dei lavoratori, pur soggetta alle regole del servaggio, vive un relativo senso della collettività, conformemente anche all'ideologia religiosa di tipo cattolico e soprattutto di tipo ortodosso.

Fa specie che un attento economista come Marx non si sia accorto dell'esistenza di una forte socializzazione del lavoro anche nell'ambito del feudalesimo. E' singolare ch'egli non sia arrivato alla conclusione che se nel Medioevo il lavoro aveva un carattere meramente individuale, il capitalismo non avrebbe impiegato così tanti secoli prima di affermarsi. Non faremmo forse un torto all'intelligenza dell'uomo medievale, allorché lasciassimo intendere che gli occorrevano molti secoli prima di capire che un lavoro socialmente organizzato produce di più e meglio di un lavoro individuale? D'altra parte, se il problema di un maggior benessere socio-economico stava solo in questa migliore organizzazione produttiva, c'era forse bisogno di far nascere il capitalismo?

Ma la cosa più stupefacente nell'analisi di Marx, la sua contraddizione più macroscopica sta proprio nel fatto che mentre da un lato egli afferma che la transizione dal feudalesimo al capitalismo era inevitabile, dall'altro sostiene che le condizioni di lavoro per l'operaio della fabbrica sono diventate, nel capitalismo, molto più disumane che nel feudalesimo. Infatti, “contrapponendosi per conto proprio le condizioni di lavoro all'operaio, anche la loro economia [leggi: nel senso di “risparmio”] si presenta come operazione particolare a lui assolutamente estranea...”(p.412). Cioè per Marx il capitalismo è nato a prescindere dalla volontà del lavoratore: esso è stato subìto, come prima lo erano il servaggio e lo schiavismo. Il vero protagonista attivo è stato solo il capitalista, il quale, a sua volta, non ha fatto che adeguarsi a un processo storico immanente.

Volendo, l'analisi di Marx potrebbe essere considerata giusta se la si applicasse a quella fase di passaggio del capitalismo da commerciale a industriale. Dice infatti alle pp.416-17: “A causa della mancanza di tale cooperazione, nell'Ovest degli Stati Uniti si spreca ogni anno una grande massa di grano, e nelle parti delle Indie Orientali in cui il dominio inglese ha tolto di mezzo l'antica comunità, si spreca ogni anno una grande massa di cotone”.

Tuttavia, anche in questo caso bisognerebbe precisare che nella fase del capitalismo meramente commerciale, il modo di produzione dominante (nell'Europa occidentale, con tutte le sue colonie) restava quello feudale, poiché solo quando si realizza la rivoluzione industriale, il feudalesimo scompare definitivamente. Ciò significa che anche laddove s'era affermato il capitalismo commerciale, il passaggio a quello industriale non può mai essere considerato come “automatico”. Il macchinismo e la cooperazione sono stati una risposta ai limiti del capitalismo commerciale, ma tali limiti potevano essere superati abolendo il servaggio e democratizzando la vita rurale, per quanto proprio la nascita del capitalismo commerciale fosse una diretta testimonianza che nel feudalesimo vi erano forze intenzionate a conservare lo status quo. In tutto ciò comunque la categoria della necessità può essere evocata soltanto dopo aver costatato che con la libertà gli uomini non sono stati capaci di trovare delle risposte adeguate ai loro problemi.

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Per Marx la cooperazione di tipo capitalistico ha superato i limiti del capitalismo commerciale, perché ha saputo organizzare in maniera collettiva un lavoro ch'era individuale. Ora “molte persone prendono parte a un medesimo processo produttivo o a processi differenti ma connessi”(p.412).

E all'interno di questa attività sorge ciò che, per Marx, nel feudalesimo non esisteva: l'emulazione. “Il solo contatto sociale -egli afferma- fa sorgere nella maggior parte dei lavori produttivi un'emulazione e uno specifico eccitamento degli spiriti animali... che accrescono la possibilità di rendimento individuale dei singoli...”(p.413). Per Marx questo è del tutto naturale! “Ciò deriva dal fatto che l'uomo è per natura un animale se non politico, come ritiene Aristotele, almeno sociale”(p.414). In altre parole, il capitalismo avrebbe superato il feudalesimo perché avrebbe saputo valorizzare meglio la natura sociale dell'uomo!

Marx si lascia completamente suggestionare dall'alta produttività del capitalismo e non si chiede affatto quale prezzo ciò possa comportare sulla salute (sul benessere) psico-fisico del lavoratore. Anzi per lui proprio la cooperazione capitalistica ha permesso all'operaio di scoprire il meglio di sé, le proprie intrinseche potenzialità.

Cioè l'operaio si sente in competizione con altri operai non perché la cultura individualistica del capitalista ve lo obbliga, ma perché nella cooperazione egli avverte l'insopprimibile bisogno di produrre di più e meglio.

A quale cooperazione fa riferimento Marx? Come tutti sanno, agli albori del capitalismo gli operai distruggevano le fabbriche, quando lottavano contro gli imprenditori privati. Nel capitalismo maturo, invece, gli imprenditori devono di continuo incentivare gli operai per ottenere in cambio i frutti dell'emulazione.

A parte questo, chi l'ha detto che nel feudalesimo non esisteva l'emulazione? Certamente non esisteva un'emulazione fondata sul profitto, né una in virtù della quale si poteva emarginare dalla vita sociale il collega di lavoro. L'emulazione era, se vogliamo, una forma di “gioco”, una gara ludica in cui il vincitore, al massimo, poteva aspirare a una maggiore considerazione sociale.

Pur di non voler ammettere l'inferiorità etico-sociale del capitalismo rispetto al feudalesimo, Marx è stato disposto a ritenere come “naturali” gli istinti “animali” di emulazione e di reciproca concorrenza (cosa che, peraltro, nessun animale possiede). Come se il problema di fondo, nella produzione degli oggetti, sia sempre quello di produrre di più in minor tempo! Come se questa necessità non faccia già parte di una cultura di tipo “borghese”!

Ma di queste ambiguità il Capitale è pieno. Dice Marx ad es. a p.418: “La giornata lavorativa combinata produce una quantità di valori d'uso più grande...”. Da un lato egli usa un concetto di tipo “capitalistico”, come quello di “giornata lavorativa combinata” (per quanto -a ben guardare- tale concetto possa applicarsi anche al feudalesimo); dall'altro egli usa un concetto, “valore d'uso”, che si applicherebbe meglio al feudalesimo che non al capitalismo, dove la cooperazione è finalizzata unicamente alla produzione di merci, le quali hanno un valore d'uso solo in quanto ne hanno uno di scambio.

Prendiamo un altro esempio. “Nella cooperazione pianificata con altri -dice Marx nella stessa pagina- l'operaio si libera dei suoi limiti individuali ed esplica le proprietà della sua specie”. Qui vi è la stessa ambiguità di prima, dovuta a un modo troppo astratto e ideologico di affrontare i processi storici. Da un lato Marx parla della “cooperazione pianificata” come di un successo del lavoratore (mentre -si sa- nel capitalismo essa è una forma della sua condanna); dall'altro contrappone un inesistente lavoratore isolato all'esperienza del collettivo operaio.

Un altro esempio ancora. Dice Marx: “All'inizio il capitalista, quando il suo capitale ha raggiunto quella grandezza minima che sola può dare inizio alla produzione capitalistica...”(p.422). Qui la causa viene confusa con l'effetto. Da un lato Marx dice che per far nascere il capitalismo bisogna essere capitalisti; dall'altro però non spiega come si possa diventare capitalisti in un sistema pre-capitalistico. Infatti, se bastasse il possesso di un capitale minimo, il capitalismo sarebbe nato assai prima del XVI sec. e, in ogni caso, avrebbe potuto nascere anche fuori dell'Europa occidentale.

Marx potrebbe avere ragione solo in un caso, allorché dimostra che il lavoro dell'artigiano o del contadino privato è, nel capitalismo, molto meno produttivo di quello dell'operaio di fabbrica. Ora però, a parte il fatto che nella distribuzione generale del reddito, la differenza tra l'una e l'altra categoria di lavoratore non capitalista, non è poi così rilevante, ciò di cui Marx non vuole rendersi conto è che il lavoratore isolato non rappresenta affatto l'alternativa al lavoratore collettivo, ma semmai il simbolo del processo di disgregazione di un modo di produzione obsoleto. L'artigiano isolato è il residuo di un sistema in via di dissoluzione.

Dice Marx: “in qualità di persone indipendenti gli operai sono dei singoli, che stabiliscono un rapporto col capitale senza stabilire tra loro un rapporto sociale reciproco. Essi iniziano a cooperare solo nel processo lavorativo, ma in questo processo non sono più proprietari di se stessi”(pp.423-4).

Questo modo di vedere le cose è decisamente limitato, poiché porta a dare per scontata la vittoria (nel momento iniziale) del capitalista, il quale non è altri che un singolo agiato contrapposto a singoli liberi ma nullatenenti. Situazione, questa, che non si è mai verificata da nessuna parte, proprio perché il processo di superamento del feudalesimo è stato molto più complesso di quel che non si creda, essendo entrati in gioco dei fattori (quale ad es. la libertà umana) che sfuggono ad un'analisi meramente economica.

Marx non ha saputo resistere alla tentazione di attribuire al capitalismo, sul piano tecnico-scientifico, un progresso senza confronti, benché, nel contempo, non abbia potuto fare a meno di costatare che è soprattutto il capitalista ad appropriarsi dei benefici di tale progresso. Sull'altare della tecnologia Marx ha voluto sacrificare tutto quanto c'era di positivo nel sistema feudale. La grandissima alienazione sociale era un prezzo che l'operaio doveva pagare per il bene del progresso scientifico, per liberarsi “dei suoi limiti individuali ed esplicare le proprietà della sua specie”(p.418).

La diversità tra Marx e gli economisti borghesi non sta in questa analisi, ma solo nell'accento ch'egli ha posto sul rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. Infatti, l'economista borghese si limita ad affermare che, essendo il capitalismo un sistema produttivo molto potente, è bene che l'operaio svolga il suo ruolo senza opporre eccessive resistenze. Marx invece è dell'avviso che le forze produttive del capitalismo potrebbero meglio svilupparsi se si passasse al socialismo. Né l'uno né gli altri mettono in discussione il principio dell'incessante progresso scientifico e tecnologico, ovvero il rapporto di dominio e di sfruttamento che l'uomo moderno ha realizzato nei confronti della natura.

Nella concezione “positivista” di Marx il socialismo non è altro che una tecnica per far funzionare meglio il potere dell'industria, risolvendo una volta per tutta la questione dei conflitti sociali. Cioè è una tecnica che può funzionare solo se si presume la fine dello sfruttamento proletario. Se gli operai potessero pianificare per conto proprio la loro produzione, otterrebbero -a suo giudizio- risultati assai più positivi di quelli che il capitalista consegue con la propria limitata pianificazione.

Marx naturalmente è sempre stato convinto che il socialismo avrebbe superato il capitalismo in tutti gli indici produttivi. Nel Capitale gli è completamente estranea l'idea che nel socialismo si possano o addirittura si debbano abbassare alcuni indici strettamente economici (ad es. il PIL) a vantaggio di altri di carattere sociale (ad es. previdenza, assistenza ecc.).

Oggi in realtà va decisamente superata l'idea che il socialismo possa essere la continuazione del capitalismo dal punto di vista della classe operaia. La tecnologia non è mai stata una cosa “neutrale”, il cui effetto sull'ambiente dipende dalla “buona” o “cattiva” volontà di chi la usa. Essa è sempre stata il frutto (più o meno consapevole) di una determinata scelta culturale, di carattere etico e ontologico. Il mutamento radicale del sistema capitalistico comporterà inevitabilmente un uso diverso della tecnologia, ma anche, molto probabilmente, una diversa tecnologia, cioè non solo un uso più sociale, meno legato al profitto individuale, ma anche, in virtù di ciò, una nuova creazione tecnologica.

Sotto questo aspetto non dovrebbe affatto preoccupare l'ipotesi di un futuro sistema socialista dotato di scarsa tecnologia (rispetto agli attuali parametri occidentali), ma dotato, in compenso, di un'alta democrazia, e quindi di una tecnologia adeguata alle esigenze dell'intera collettività. Il ridimensionamento delle pretese tecnico-scientifiche: questo sì che può essere un prezzo che la democrazia può tranquillamente pagare!

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Solo alla fine del capitolo Marx ammette che la cooperazione non è una prerogativa del capitalismo, in quanto è sempre esistita. Ma lo fa semplicemente per ribadire la superiorità di quella capitalistica.

In Marx le conoscenze delle civiltà non-capitalistiche sono sempre state approssimative, anche perché gli studi critici, allora, erano piuttosto scarsi. Tuttavia, in lui emerge un pregiudizio che vanifica un'obiettiva valutazione del passato.

Anzitutto Marx ha sempre escluso a priori la possibilità dell'esistenza, nelle civiltà pre-capitalistiche, di una cooperazione sociale al di fuori dei rapporti di servaggio o di schiavitù. “Nel mondo antico, nel medioevo e nelle moderne colonie -dice a chiare lettere a p.425- l'uso sporadico della cooperazione a grande scala si basa su rapporti diretti di signoria e servitù, e in quasi tutti i casi si basa sulla schiavitù”.

La cooperazione, quindi, non era -secondo Marx- tra persone libere, come invece è accaduto -sempre a suo giudizio- nell'ambito del capitalismo. “La forma capitalistica presuppone sin dall'inizio l'operaio salariato libero, che vende al capitale la propria forza lavorativa”(ib.).

Ovviamente per Marx non può esistere libertà né nel servaggio né nello schiavismo. E tuttavia per lui non ne esiste neppure nella tribù o comunità primitiva, laddove era in vigore la “proprietà comune delle condizioni di produzione”(ib.). Qui non c'è libertà perché c'è dipendenza, e là dove c'è dipendenza, non c'è cooperazione produttiva su larga scala, poiché il lavoratore non è libero di vendere al mercato la propria forza-lavoro, e quindi non è libero di muoversi come meglio crede (o a seconda delle esigenze del capitale).

Marx ha sempre dato una grande importanza al concetto di libertà individuale. Non ci sarebbe capitalismo senza questa libertà. Tuttavia, nella sua analisi il concetto di libertà giuridica si confonde spesso con quello di libertà sociale. Di fatto il cittadino che chiede di lavorare in una fabbrica capitalistica (anche agli albori del capitalismo) è sempre stato libero giuridicamente, senza mai esserlo sul piano sociale.

Le due forme di libertà, se coincidevano nel borghese, non coincidevano affatto nell'operaio. Marx non è che si nasconda questa evidenza. Solo che, quando parla dell'operaio libero, non specificando che la sua libertà era meramente giuridica, lascia intendere ch'egli avesse accettato volontariamente, cioè in piena libertà, un rapporto lavorativo di tipo salariato: il che non è mai successo.

Perché questa ambiguità? Per la semplice ragione che Marx non vuole ammettere l'idea che in una società non-capitalistica l'uomo potesse sentirsi giuridicamente dipendente e socialmente libero (o comunque più libero del lavoratore salariato). Per Marx l'uomo pre-capitalistico era socialmente schiavo o servo, e quindi totalmente non-libero. Non era libero neppure l'uomo primitivo che non aveva “ancora strappato il cordone ombelicale che lo legava alla tribù o alla comunità”(ib.). La libertà, per Marx, sta nella contrapposizione del singolo alla comunità. In tal senso la cooperazione capitalistica è la migliore forma di cooperazione, perché garantisce alla libertà individuale il massimo di possibilità espressive.

Il libero contadino o l'artigiano indipendente perdono la loro battaglia nei confronti della cooperazione capitalistica, perché si rendono conto ch'essa è più forte, più potente sul piano produttivo. A Marx non interessa assolutamente esaminare il tipo di resistenza “etica” che la società feudale (meno individualistica di quella borghese) ha messo in atto nei confronti del capitalismo. L'opposizione esaminata da Marx era solo quella di tipo “politico” e ritenuta sempre di carattere “regressivo”.

Marx non avrebbe mai accettato l'idea di considerare il conflitto tra Medioevo ed Epoca Moderna come il conflitto tra un modo di produzione “sociale” (benché anch'esso antagonistico) e un modo di produzione “individuale”, in cui la cooperazione era utilizzata dal capitalista solo come mezzo per arricchirsi meglio.

Il pregiudizio ha portato Marx sia a sottovalutare le ragioni culturali sottese alla genesi del capitalismo, sia a formulare delle ragioni di tipo “psicologico” che non possono trovare un vero riscontro nella storia dei fatti. “Da un lato -egli afferma- il modo di produzione capitalistico appare come una necessità storica per la trasformazione del processo lavorativo in processo sociale” [trasformazione quindi avvenuta -com'egli stesso più sopra dice- “spontaneamente e in maniera naturale”]; “d'altro lato questa forma sociale del processo lavorativo appare come un metodo usato dal capitale per sfruttare con maggior profitto quello stesso processo tramite l'aumento della sua forza produttiva”(p.426).

Da un lato quindi Marx ragiona come un economista borghese, che non si chiede il perché delle cose ma solo il come; dall'altro egli ragiona come un economista socialista, che vede nel come una palese ingiustizia e propone un modo per risolverla.

Paradossalmente a Marx fa difetto proprio la nozione di libertà individuale. Estrapolando il singolo dal contesto sociale, egli ha creduto di renderlo più libero; invece è accaduto che il singolo si sia lasciato dominare da una cieca fatalità storica, nell'illusione che fra le leggi di questa necessità e le proprie soggettive non vi fosse una vera contraddizione.

Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/