BENEDETTO CROCE

A cura di Diego Fusaro


" Un sistema filosofico è una casa che, subito dopo costruita e adornata, ha bisogno di un lavorio, più o meno energico, ma assiduo di manutenzione, e che a un certo punto non giova più restaurare e puntellare, e bisogna gettare a terra e ricostruire dalle fondamenta. Ma con siffatta differenza capitale: che, nell'opera del pensiero, la casa perpetuamente nuova è sostenuta perpetuamente dall'antica, la quale, quasi per opera magica, perdura in essa. " ("Breviario di estetica")


BENEDETTO CROCE INDICE


INTRODUZIONE AL NEO-HEGELISMO ITALIANO

LA VITA E I RAPPORTI CON GENTILE

IL PENSIERO




INTRODUZIONE AL NEO-HEGELISMO ITALIANO

L'indirizzo di cui Croce e Gentile sono espressione ha preso originariamente l'insegna del neo-hegelismo: è cioè l'indirizzo corrispettivo in Italia agli analoghi indirizzi di ritorno a Hegel che, marginalmente però ad altre correnti di pensiero, fiorivano tra l'Otto e il Novecento anche in altri Paesi. Per quanto riguarda nondimeno in particolare i due pensatori italiani, è più vivo e più accentuato in essi, rispetto a tutti gli altri, l'intento di operare una revisione critica innovatrice dell'hegelismo. E, ad onor del vero, dei due è più propriamente hegeliano Gentile, per essersi formato direttamente alla scuola, rigida e metafisicizzante, di Spaventa. Nipote di Spaventa, invece, Croce si è formato alla scuola del de Sanctis (risalendo, attraverso il de Sanctis, a Vico) e del Labriola (risalendo, attraverso il Labriola, a Herbart e a Marx), cosicchè alla diretta conoscenza del pensiero hegeliano egli è giunto (per influenza del suo stesso amico Gentile) solo in una fase giù matura (nel 1905) del suo sviluppo intellettuale. Sia Croce sia Gentile hanno accolto del pensiero di Hegel il principio animatore: l'idea cioè dello Spirito come attività dialettica che si svolge nel ritmo di sempre rinascenti opposizioni. E' il principio per il quale la realtà è attività pensante, è Soggetto che si oggettiva e si naturalizza per tornare in se stesso fatto più altamente personale e più consapevole. Diversamente da Hegel, tuttavia, essi prescindono del tutto, nella loro speculazione, dai problemi della natura, ritenendo pertinenti alla vita dello spirito solo i problemi propriamente umani. Ne consegue che non si è avuta in Italia la polemica che invece divampò e fu assai vivace nel mondo culturale tedesco tra scienziati assertori del metodo sperimentale e hegeliani propugnatori d'una razionalistica e aprioristica interpretazione della natura. In Italia, al contrario, l'indifferenza di Croce e di Gentile per i problemi della scienza ha solo concorso (in virtù del peso culturale dei due personaggi) ad approfondire il solco tra ricerca scientifica e investigazione filosofica, a rendere estranea quella a questa e, di conseguenza, questa a quella. Ne deriva dunque anche la crescente influenza ch'essi hanno esercitato nel campo letterario e nella vita politica del Paese: nel campo letterario hanno notevolmente innovato gli studi di estetica e di ricerca storica, giungendo per tale via a diffondere largamente tra le giovani generazioni del loro tempo il gusto e il modo della visione e della valutazione idealistica dei relativi problemi. Nella vita politica hanno esercitato un'influenza ancor maggiore e, soprattutto, ancor più differenziata: Croce s'è fatto espressione ideologica delle istanze liberali, Gentile è divenuto il filosofo e, al tempo stesso, il padre ideologico del fascismo.

LA VITA E I RAPPORTI CON GENTILE

La vita dei due filosofi si intreccia strettamente per una lunga serie dapprima di reciproci rapporti, successivamente di reciproci contrasti. Benedetto Croce, nato a Pescasseroli, in Abruzzo, il 25 febbraio 1866 da famiglia assai agiata e formatosi negli anni universitari a Roma presso il Labriola, si trasferì intorno all'86 a Napoli, dove visse da allora la sua lunga e operosa vita. Dalle iniziali ricerche di carattere erudito nel campo dell'arte e della storia egli passò ben presto all'indagine sulla natura stessa dei problemi di cui si era venuto occupando. Un primo tentativo di dare ad essi una sistemazione teoretica lo troviamo nel suo saggio giovanile " La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte " (1893): saggio nel quale, in polemica con la visione naturalistica dei positivisti, egli asserisce appunto che il conoscere storico dev'essere ricondotto sotto il concetto generale dell'arte, cosicchè gli eventi umani non sono, come i fenomeni fisici, soggetti a un principio meccanico di necessità, ma sono, come le figurazioni artistiche, espressione di una libera attività creatrice. Ciò che nondimeno resta indeterminato nel saggio è il concetto stesso di arte: ed è proprio su tale concetto che Croce, negli anni successivi, concentrò la propria attenzione. Frutto di tali sue meditazioni fu la pubblicazione, avvenuta nel 1902, dell' " Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale ". Da quest'opera, che è la prima grande opera crociana, egli trasse via via, come per sviluppo sempre maggiore di concetti già impliciti embrionalmente, le altre opere: la " Logica come scienza del concetto puro " (1909), la " Filosofia della pratica, economica ed etica " (1909), la " Teoria e storia della storiografia " (1917). Sono queste le opere che formano la tetralogia, in cui Croce ha dato trattazione organica di sistema al suo pensiero, alla sua Filosofia dello Spirito. Ma, congiuntamente ad esse, egli pubblicò negli stessi anni una serie di saggi (sul materialismo storico, su Hegel, su Vico, ecc), traendo di volta in volta in tali saggi le conclusioni del suo dialogo ideale coi filosofi con cui era venuto direttamente o indirettamente a contatto per l'influenza del De Sanctis, di Labriola e di Gentile. Proprio Gentile fu suo collaboratore per circa vent'anni nella rivista " La critica ", da lui fondata nel 1903 e diretta ininterrottamente per più di quarant'anni. Con " La critica " egli si foggiò lo strumento della più larga penetrazione nella vita culturale dell'Italia, orientando le giovani generazioni per lungo tratto di tempo così come prima dopo l'avvento del fascismo. L'avvento del fascismo segna il progressivo distacco di Croce da Gentile, o, meglio, di Gentile da Croce: l'accentuato contrasto o atteggiamento critico di Gentile verso il pensiero di Croce e, più ancora, la diversa posizione da essi assunta nei confronti della dittatura fascista valsero a cambiare i loro rapporti di sincera amicizia in rapporti d'irriconciliabile inimicizia. Se, infatti, Gentile aderì pienamente al nuovo regime dittatoriale e soffocatore di ogni libertà e se ne fece anzi propugnatore, Croce, dopo un periodo d'incertezza e di cautissima adesione, si scostò da esso e decisamente gli si oppose, giocando contro il fascismo la carta di un liberalismo ormai tramontato definitivamente. E bisogna riconoscere che Croce fu l'unico oppositore del regime a non essere brutalmente massacrato (come invece accadde a Gobetti) o indegnamente incarcerato (come accadde a Gramsci): gli fu anzi sempre riconosciuta la sua carica di senatore, forse anche in virtù del fatto che la sua era un'opposizione meramente teorica e che si appellava ad un liberalismo ormai incompatibile con la nuova temperie culturale e con la situazione in cui l'Italia versava; tanto più che il fascismo ci teneva a dimostrarsi un regime "aperto", pronto a dar voce agli oppositori. Liberale conservatore, Croce vide dapprima nel fascismo un'utile e, come s'illudeva, temporanea forza di contenimento del movimento socialista, il quale, dopo il celebre "biennio rosso" (1918-1920), pareva avanzasse quasi a travolgere anche in Italia come in Russia le dighe della struttura borghese della società. Ma, trasformatosi il nuovo regime in dittatura permanente col colpo di stato del 3 gennaio 1925, le istanze liberali prevalsero sempre più nel suo animo e lo indussero, senza comunque smettere l'aspra polemica contro il socialismo (per il quale da giovane aveva pure simpatizzato), ad avversare senza più esitazioni il totalitarismo fascista: si accorse che il fascismo, seppur idoneo per tenere a bada gli appetiti socialisti e per conservare la società così com'era, non era uno strumento di cui ci si poteva servire solo quando faceva comodo per poi rimetterlo nel cassetto; viceversa, il fascismo era una malattia passeggera dello Stato, quasi una sorta di deviazione nel corso assolutamente razionale della storia: si trattava dunque, una volta terminata la parentesi fascista, di ritornare allo Stato liberale vigente prima dell'avvento della "malattia" fascista. Il liberalismo di cui Croce si fece vessillifero fu, tuttavia, sempre di stampo conservatore, senza troppe aperture sul versante socialista: quando gli parlarono della possibilità di creare un liberal-socialismo, che coniugasse le istanze proprie del socialismo con quelle proprie della tradizione liberale (nella convinzione che la vera libertà è possibile solo in condizioni di uguaglianza sociale), Croce bollò questa iniziativa come " ircocervo ", ovvero come fantasticheria inattuabile. Croce, poi, rispose al manifesto con cui Gentile aveva raccolto l'adesione al fascismo da parte di alcuni intellettuali fascisti (tra cui Pirandello) con un manifesto di vibrante protesta firmato da un mare magnum di intellettuali antifascisti (tra cui ricordiamo Antonio Banfi). In questa seconda fase della sua vita Croce venne pertanto gradatamente accentuando il suo interesse speculativo per il problema politico (che aveva fin da allora considerato con un certo distacco), per il problema di un più intimo nesso tra il pensiero e l'azione, per il problema della libertà (centrale in Hegel). Frutto di tali sue nuove meditzioni è la pubblicazione in questo periodo di una serie di scritti, di cui meritano di essere menzionati, per la grande risonanza che ebbero e per la larga efficacia educativa che esercitarono sui giovani di allora, la " Storia d'Italia dal 1871 al 1915 " (1928), la " Storia d'Europa nel secolo XIX " (1932), " La storia come pensiero e come azione " (1938). Sono gli scritti nei quali la nozione di libertà è, secondo la stessa espressione crociana, innalzata a " religione della libertà " e identificata con lo Spirito nel suo dispiegarsi. La definizione molto vaga (e pressochè mistica) del problema della libertà doveva rivelarsi nondimeno, per l'istanza morale da cui procedeva, strumento efficace di educazione antifascista, finchè il fascismo imperò nel Paese; e anche, caduto il fascismo, continuò a ispirare in qualche modo le nuove generazioni nella loro azione per la ricostruzione del Paese, ma impregnandosi via via di nuove e più concrete istanze, in virtù delle quali non pochi degli antichi discepoli di Croce finirono col prendere, un poco alla volta, altre vie. Croce sopravvisse all'avversato regime: con la caduta di esso, però, riprese con rinnovato vigore, nella mutata condizione culturale determinatasi nel Paese, la polemica contro il marxismo. Si spense nel 1952, circondato dalla generale stima per quel che il suo nome aveva significato, per circa cinquant'anni, nella vita culturale della penisola. Egli fu una delle menti più poliedriche e versatili che il Novecento ricordi.

IL PENSIERO

Croce è, secondo la sua stessa definizione, il " filosofo dei distinti ": nella sua revisione della dialettica hegeliana, infatti, egli ha scoperto che l'errore precipuo di essa sta nel confondere insieme concetti puri e concetti empirici da un lato, momenti opposti e momenti distinti dall'altro lato. E in realtà altra cosa sono, egli dice, i concetti puri (o categorie filosofiche), che concernono le forme fondamentali dell'attività dello spirito; altra cosa sono i concetti empirici (o pseudoconcetti), che risultano da pure generalizzazioni e classificazioni, utili ai bisogni della pratica, ma destituite di ogni verità. Solo i concetti puri sono, nel senso hegeliano dell'espressione, universali concreti; solo per mezzo di essi è dato concepire la realtà spirituale (che è la sola realtà e la sola universalità) nella sua concretezza, nel suo concreto dispiegarsi o procedere secondo il movimento dialettico che le è proprio. Gli pseudoconcetti , invece, sono o universalità senza concretezza (come le astrazioni matematiche) o concretezza senza universalità (come le empiriche e sempre mutevoli classificazioni delle scienze naturali). Il vizio della filosofia hegeliana della natura, ed in parte anche di quella dello Spirito, risiede pertanto, secondo Croce, nell'aver voluto includere nel procedimento dialettico molti concetti empirici che, come determinazioni irrigidite e astratte, non sono per questo stesso motivo suscettibili di mediazione, di sintesi. Ma, per quel che riguarda i concetti puri, nell'ambito solo di ciascuno di essi, è valido il procedimento dialettico degli opposti, afferma Croce: il procedimento per il quale i termini dell'opposizione si risolvono nella sintesi, perdendo in essa ogni loro esistenza distinta. Nei loro reciproci rapporti, invece, i concetti puri non si risolvono l'uno nell'altro, ma restano sempre distinti l'uno dall'altro: vale per essi un diverso principio di unificazione filosofica. Ecco perché Croce sdoppia l'unica dialettica hegeliana in una dialettica degli opposti e in una dialettica dei distinti: l'errore di Hegel, infatti, consiste, stando a Croce, nell'aver esteso indebitamente la dialettica degli opposti ai distinti, cioè ai concetti puri o alle forme categoriali dello Spirito: “ Hegel non fece, fra teoria degli opposti e teoria dei distinti, la distinzione importantissima, che io mi sono sforzato di dilucidare. Egli concepì dialetticamente, al modo della dialettica degli opposti, il nesso dei gradi; e applicò a questo nesso la forma triadica, che è propria della sintesi degli opposti. Teoria dei distinti e teoria degli opposti diventarono per lui tutt’uno ” ( “ Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel ”, cap. IV). Il vero precursore della dialettica dei distinti è da Croce ravvisato, più che in Hegel, in Vico: secondo Croce, tra le forme dell’attività spirituale si svolge l’eterno processo, che Vico aveva chiamato “storia ideale eterna”; queste forme, infatti, sono eterne, ma si sviluppano e manifestano di volta in volta arricchite di nuovi contenuti. Pubblicato come volume autonomo nel 1906, il saggio “ Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel ” (tradotto presto anche in francese e in tedesco) è emblematico a partire dal titolo: esso simboleggia l’atteggiamento con cui Croce guarda ai filosofi del passato per trarne alimento al proprio pensiero e, in particolare, con cui si rapporta a Hegel. Questi, secondo il filosofo abruzzese, ha fatto oggetto del suo pensiero “ non solo la realtà immediata, ma la filosofia stessa, contribuendo per tal modo a elaborare una logica della filosofia ”. Contro ogni filosofia meramente individuale fondata su una conoscenza immediata, egli ha rivendicato la centralità del metodo della filosofia e della teoria di questo metodo. Nell’affrontare questo problema, Hegel ha individuato l’importanza della dialettica degli opposti, come motore del processo della realtà e del pensiero, ma ha commesso l’errore di estendere questa forma di dialettica anche al rapporto fra le forme dell’attività spirituale. Su questo punto, Croce non può più seguirlo, sicchè la coscienza moderna, a suo avviso, si troverebbe di fronte a Hegel come il poeta latino di fronte alla sua donna, quando affermava “nec tecum vivere possum, nec sine te”. E in realtà bello e brutto, vero e falso, utile e dannoso, bene e male sono realmente termini opposti tra loro: vale per essi il principio hegeliano secondo cui il termine positivo (il bello, ad esempio) non ha vita se non trionfando sul negativo (il brutto). Nell'ambito di ciascuna di queste coppie di opposti dunque ogni termine ha significato solo nell'altro e per l'altro (chi prende il vero senza il falso, il bene senza il male, fa del vero qualcosa di non pensato - perché pensiero è lotta contro il falso - e quindi qualcosa di non vero; del bene qualcosa di non voluto - perché volere il bene è negare il male - e quindi qualcosa di non buono): al di fuori della loro sintesi, che sola è reale, gli opposti non sono, in conclusione, che delle vuote astrazioni. Ma lo stesso non può dirsi di ciascuno dei termini positivi che si son sopra elencati (il bello, il vero, l'utile, il bene): nei loro rapporti, infatti, essi non si annullano l'uno nell'altro, ma si armonizzano l'un con l'altro. Sicchè il vero non sta al falso nello stesso rapporto in cui sta al buono, il bello non sta al brutto nello stesso rapporto in cui sta alla verità filosofica: bello e vero, vero e bene sono invece tra loro in un nesso di gradi, per il quale bello, vero e bene sono forme distinte e insieme unite. Questa unità-distinzione è il nesso, è la dialettica dei distinti o, meglio, la dottrina dei gradi dello Spirito. Per essa, lo Spirito si distingue in due gradi teoretici (mediante cui l'uomo vede, comprende le cose) e in due corrispondenti gradi pratici (mediante cui l'uomo muta, crea le cose). Le forme proprie dei due gradi teoretici sono quella, estetica, dell'intuizione o della visione-espressione dell'individuale e quella, logica, della concezione dell'universale. Le forme proprie dei due corrispondenti gradi pratici sono quella, economica, della volizione del particolare e quella, morale, della volizione dell'universale. Ne deriva che, come si è venuto chiarendo, le quattro forme fondamentali dello Spirito sono: quella estetica del bello, quella logica del vero, quella economica dell'utile, quella morale del bene. All'infuori di tali forme non vi sono altri concetti puri, non vi sono altri valori in cui o mediante cui si esplichi l'attività dello Spirito. Evidente è, nella loro determinazione, l'influenza che, attraverso Labriola, hanno esercitato su Croce la triade herbartiana, per un verso, dei tre supremi valori del vero, del bene e del bello e la concezione di Marx, per l'altro, del valore assoluto dell'attività economica: i quattro valori, fusi in unità di sistema, sono gli elementi costitutivi del pensiero crociano. Il rapporto tra queste quattro forme dello Spirito è tale che il passaggio, nell'attività teoretica, al grado superiore della concezione dell'universale può avvenire solo attraverso il grado inferiore dell'intuizione dell'individuale: nel senso che la logica, in quanto produttrice di concetti, implica l'estetica, mera produttrice di intuizioni (non può esservi concetto senza intuizione) e non viceversa (cosicchè può esservi intuizione senza concetto). E, in modo corrispettivo, il passaggio, nell'attività pratica, al grado superiore della volizione dell'universale può avvenire solamente attraverso il grado inferiore della volizione del particolare: nel senso appunto che anche per l'attività pratica vale il criterio che la morale implica l'economia (non può esservi azione morale senza la consapevolezza che l'ideale etico rappresenta il grado più alto di utilità), non viceversa (sicchè può esservi azione volta al perseguimento del mero vantaggio individuale, del tutto scevra di preoccupazione morale). E le due attività teoretica e pratica sono, infine, anch'esse legate l'una all'altra in modo tale che la prima è presupposto e condizione del dispiegarsi della seconda (l'agire è un agire secondo ragione, secondo conoscenza); e la seconda, a sua volta, è presupposto e condizione dell'ulteriore dispiegarsi della prima (per ciò che diventa materia di nuova intuizione, di nuova conoscenza). E' così che, secondo Croce, il ciclo teoretico-pratico si rinnova eternamente ed eternamente si arricchisce, nell'incessante svolgersi e crescere su se stesso della realtà spirituale. Di conseguenza, per la circolarità della vita spirituale appena illustrata, le quattro sue forme s'implicano a vicenda: si affermano tutte insieme nella loro positività e nella solidarietà che le lega e le fa compresenti in ogni singolo momento della vita dello Spirito. In questo propriamente consiste il rapporto di unità-distinzione: rapporto per il quale le quattro forme categoriali sono distinte nell'unità dello Spirito o (il che è la stessa cosa) lo Spirito è uno nella distinzione delle sue forme. Ora, passando ad esaminare il modo di esplicarsi delle singole forme, la prima forma dello Spirito teoretico è l' arte , la conoscenza intuitiva. L'arte è, cioè, visione-espressione di un'immagine contemplata per sé, senza che ci si chieda se essa sia corrispettiva o meno a una realtà oggettiva o che si tenti di determinare la natura della realtà di cui è espressione: essa è, perciò, solo conoscenza intuitiva, non conoscenza concettuale del contenuto della vita dello Spirito. E, oltre a non essere conoscenza concettuale, l'arte, a maggior ragione, in quanto forma teoretica, non è né atto utilitario, né atto morale: non è, cioè, né determinazione dell'utile, né in dipendenza di un fine morale. Ciò che conferisce unità e significato all'intuizione artistica è il sentimento: non il sentimento immediato, nella sua tumultuosa passionalità, bensì il sentimento mediato e, per così dire, trasfigurato, elevato a pura forma, a pura immagine, a pura espressione. Ciò equivale a dire che l'arte è intuizione lirica, è sintesi a priori di sentimento e di immagine, è unità indissolubile di contenuto (il sentimento) e di forma (l'immagine, l'espressione). Ne deriva che per Croce l'arte, in quanto intuizione di un sentimento, di un contenuto di vita, si identifica con l'espressione stessa di quel sentimento, di quel contenuto di vita: l'intuizione è la stessa espressione, l'espressione è la stessa intuizione. E da tale identificazione deriva anche, secondo Croce, l' identificazione di linguaggio e di poesia : è questo il motivo in parte tratto dalle dottrine del Romanticismo e, più ancora, dalla viva esperienza critica del De Sanctis e, attraverso il De Sanctis, dalla filosofia di Vico; ed è questo il motivo per il quale il linguaggio non è un segno convenzionale mediante cui gli uomini comunicano tra loro, ma è espressione viva, immagine spontaneamente prodotta dalla fantasia, dallo Spirito. Con l'identificazione di linguaggio e di poesia si spiega l'universalità dell'arte: il linguaggio poetico, quali che siano i modi tecnici (del suono, del colore, ecc) attraverso cui è espresso, è il linguaggio stesso degli uomini; quindi ogni uomo ha il potere di aprirsi una suggestione dell'arte, di rivivere in sé, contemplandola, l'opera d'arte, in qualsiasi tempo o luogo sia stata creata. Altra considerazione relativa all'arte è che, risolto il concetto di arte in quello di intuizione lirica, è negata da Croce ogni validità alla tradizionale dottrina dei generi letterari: alla dottrina che, come dice, è del tutto estranea al problema estetico ed è solamente espressione del bisogno pratico (economicistico, classificatorio) dello Spirito e, di conseguenza, è solamente costruttrice di preconcetti. All’estetica Croce dedica l’opera “ Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale ”: essa (che è l’opera che diede immediata celebrità a Croce) è lo sviluppo di una memoria che il filosofo aveva letto in tre sedute, all’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1900. Croce individua i caratteri costitutivi dell’arte nel fatto di essere conoscenza intuitiva, inscindibile dall’espressione. L’espressione, però, non deve essere confusa con l’estrinsecazione fisica in lettere scritte, suoni o colori materiali: Croce chiarisce che questo aspetto rientra nell’attività pratica dello Spirito, non in quella conoscitiva che è specifica dell’arte. Curioso è il metodo impiegato da Croce: egli procede alla determinazione dei significati dei concetti mediante negazioni e distinzioni rispetto ad altri concetti imparentati o affini o opposti.

La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti. […] Della conoscenza intellettiva c’è una scienza antichissima e ammessa indiscussamente da tutti, la Logica; ma una scienza della conoscenza intuitiva è appena ammessa, e timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la parte del leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna, le concede appena un umile posticino di ancella o di portinaia. Che cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume della intellettiva? E’ un servitore senza padrone; e, se al padrone occorre il servitore, è ben più necessario il primo al secondo, per campare la vita. L’intuizione è cieca; l’intelletto le presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi propri, validissimi. […] I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. […] Noi non possiamo volere o non volere la nostra visione estetica: possiamo, bensì, volerla o no estrinsecare, o, meglio, serbare e comunicare o no agli altri l’estrinsecazione prodotta. ” (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap. I).

Croce impiega una procedura dicotomica, distinguendo le due forme possibili di conoscenza, caratterizzate da due serie parallele di proprietà; da una parte, la conoscenza intuitiva, che avviene mediante la fantasia, ha per oggetto l’individuale, ossia entità singole, e dà luogo alla produzione di immagini; dall’altra, invece, la conoscenza logica (cui Croce dedicherà una trattazione apposita, la “ Logica come scienza del concetto puro ”), che avviene mediante l’intelletto, ha per oggetto l’universale, cioè le relazioni tra le cose, e dà luogo alla produzione di concetti. Contro la tradizionale subordinazione della conoscenza intuitiva, immediata, rispetto a quella intellettiva e concettuale, Croce rivendica a pieno titolo l’autonomia e la dignità di essa. In campo estetico, Croce mostra una netta chiusura verso l’allora trionfante decadentismo: esso è, ai suoi occhi, una grave malattia, una mancanza di sincerità, poiché con esso si crede e non si crede, si annega la confusione mentale in un mare magnum di parole altisonanti e suadenti che suggestionano, si creano miti nei quali si finisce per credere troppo. In altre parole, la cultura del decadentismo è un’offesa che l’uomo di cultura conduce contro i suoi lettori; la stessa nascita della dittatura fascista è da Croce, per alcuni versi, letta come produzione estrema del decadentismo: per usare le sue stesse parole, è “ un’industria del vuoto ”, che si adopera per non produrre nulla. La poesia, secondo Croce, non è tale in quanto dice belle cose imbevute di patriottismo (com’era per D’Annunzio): la vera poesia non è propagandistica, ma è intuizione pura, rappresentazione alimentata da un forte sentimento individuale in cui l’artista realizza una perfetta ed armoniosa fusione fra contenuto e forma: tipico esempio è la figura di Polifemo, che rappresenta in modo impeccabile la forza bruta. D’Annunzio è, del resto, secondo Croce il “ padre spirituale ” del nazionalismo italiano: il poeta e soldato, la cui sola musa fu la violenza, è un mistificatore del pensiero di Nietzsche, dice Croce, e ciò è perfettamente espresso nella frase crociana “ letto che ebbe qualcosa del Nietzsche ”, con cui sottolinea come D’Annunzio fosse andato incontro a colossali fraintendimenti del pensiero nietzscheano, in buona parte dovuti al fatto che l’aveva letto in modo non sistematico. Dal primo momento (appena descritto) dello spirito teoretico si passa, nel sistema crociano, al secondo momento, che è costituito dal pensiero logico . Come l'arte è conoscenza dell'individuale, così il pensiero logico è pensamento dell'universale; e, per il principio dell'implicazione dei distinti, il pensamento dell'universale è unità di universale e d'individuale, di concetto e d'intuizione. Come tale, il pensiero logico è rapporto di soggetto (ossia di un fatto, quale che esso sia) e di predicato, è determinazione della particolarità del fatto (che si è intuito) nell'universalità del concetto (di cui lo si predica): è, in fin dei conti, giudizio su singole realtà di fatto. E, giacchè il giudizio sulle singole realtà di fatto è giudizio sui fatti nel loro farsi (per la ragione che fatti che non si facciano, che non diventano, o fatti per così dire immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà), evidente è che tale giudizio è e non può essere che un giudizio storico. Ne consegue che il pensiero logico è, in quanto tale, un pensare storico : proprio in ciò risiede la tesi portante della " Logica " e, anzi, di tutta l'opera crociana. E' la tesi per la quale la filosofia, scienza dei concetti, si identifica con la storia, scienza dei giudizi: ecco perché Croce può asserire che " i veri filosofi, se ne avvedessero o no, non hanno mai fatto altro che rinvigorire e raffinare i concetti per far sì che meglio si intendano i fatti, cioè la realtà, cioè la storia "; è dunque necessario, per usare le stesse parole impiegate da Croce, rendere " filosofica la storia, ma nell'atto stesso storica la filosofia, e indirizzandola a non altro che a risolvere i problemi che il corso delle cose propone sempre nuovi ". Questa identità tra filosofia e storia implica un approfondimento storico dei problemi della filosofia e, insieme, un approfondimento filosofico della storia, cosicchè la storia non si compendia in un'arida registrazione e giustapposizione di nudi fatti individuali, ma in un'interpretazione e connessione mentale di essi, per cui il loro svolgimento coincide con lo sviluppo stesso della vita dello Spirito: e poiché lo Spirito è pura razionalità, allora la storia (come già aveva sottolineato Hegel) procede in modo assolutamente razionale. L'identità della filosofia con la storia rappresenta, di conseguenza, per Croce un'istanza decisiva contro la vecchiaia e, possiam dire, teologica filosofia della storia, che avanzava la pretesa di compendiare in astratti schemi e di predeterminare le leggi del divenire storico: il divenire storico, viceversa, ha in se stesso, e non fuori né al di sopra, la norma e la misura dei suoi valori. Ma, identificata la filosofia con la storia e intesa la storia come una realtà piena dello Spirito, ne consegue anche che l'idea di una scienza distinta ed autonoma che si occupi di problemi "massimi" ed "eterni" è un'idea antiquata (che non ha più ragion d'essere) della filosofia, dovuta alla sopravvivenza in essa delle vecchie sue forme metafisicizzanti. L'idea adeguata della filosofia è invece, nella prospettiva di Croce, quella per la quale essa diviene un semplice momento trascendentale della conoscenza storica, sicchè il suo solo compito è di apprestare alla conoscenza storica le categorie della sensibilità del reale. Ne deriva che la filosofia è, come dice Croce, il mero momento metodologico della storiografia, la mera delucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici; e poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello Spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (quali sono appunto le forme in cui si estrinseca) e in questa varietà delle sue forme è pur una, la delucidazione delle categorie storiche si muove secondo la distinzione dell'estetica e della logica, dell'economia e dell'etica, e le congiunge tutte nella filosofia dello Spirito: questa tesi Croce la esprime in " Teoria e storia della storiografia " e, più particolarmente, in " La storia come pensiero e come azione ". In questa concezione, tuttavia, vi è qualcosa di più della mera identità tra la filosofia e al storia: la filosofia, infatti, negata come scienza a sé stante e considerata come categoria della storia, finisce col trovare solo in quest'ultima il suo inveramento, finisce cioè col risolversi integralmente nella storia. E' così che Croce è via via pervenuto al pieno capovolgimento della posizione iniziale del suo pensiero di fronte al problema storico: dalla considerazione iniziale della storia come arte (nel saggio giovanile " La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte ") a quella che ne fa una forma di realtà autonoma, inferiore alla filosofia, a quella dell'identità e reciprocità piena con la filosofia, infine a quella dell'integrale risoluzione della filosofia nella storia come " storia pensata ", egli ha, come si vede, descritto un ciclo evolutivo, parallelo all'evolversi stesso e all'arricchirsi progressivo del suo pensiero. Ecco perché si è soliti definire la filosofia di Croce come la "filosofia dello storicismo assoluto". Per essa, infatti, tutta la realtà è Spirito, tutta la realtà è storia: anche ciò che chiamiamo natura è processo storico, è processo spirituale che abbiamo, nondimeno, distanziato così tanto che, per il fatto che ci limitiamo a considerarne le manifestazioni sommariamente e dall'esterno, ci sembra che siano manifestazioni di una realtà meccanica e quasi esterna allo Spirito. E' così mostrata l'umanità della storia nel senso più largo, nel senso inclusivo anche della storia della cosiddetta natura: come dell'uomo si può fare una storia naturale (esteriore e meccanizzata), così della natura si può fare una storia umana (interiore, cioè, e spiritualizzata). L'opposizione tra natura e spirito è pertanto opposizione non tra due realtà, ma tra due metodi diversi d'investigazione della medesima realtà, dice Croce. Il metodo interno al reale, o della spiritualità e storicità del reale, è il metodo per il quale la storia, per remoti o remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti presi a considerare, è sempre storia contemporanea, è sempre storia riferita al bisogno e alla situazione presente che la suscita e la crea: ecco perché " ogni storia è storia contemporanea ", in quanto la ricerca sul passato è sempre frutto di interessi, domande, curiosità, che nascono dall'oggi. Ed è, insieme, il metodo per il quale ogni storia, per particolare che sia il problema preso in considerazione, è sempre storia universale, è sempre storia procedente dall'universalità del soggetto e comprendente nella particolarità di quel problema la totalità dello Spirito. Il metodo invece esterno al reale, o della materializzazione e meccanizzazione del reale, è il metodo del giudizio classificatorio (produttore di pseudoconcetti), che, a differenza del giudizio storico (fondato sui concetti), dà d'una realtà oggettiva e resa estranea e delle infinite sue determinazioni una rappresentazione schematica, abbreviata secondo formule che non sono né vere né false ma sono solo utili ai bisogni della pratica. Si è pervenuti, per questa via, ad esaminare la sfera dell' attività pratica e, più precisamente, economica dello Spirito. E' la sfera nella quale, appunto, rientrano, secondo Croce, i "giudizi classificatori", che si son detti, e le scienze empiriche, che su quei giudizi si costruiscono. Appare qui evidente l'influenza delle filosofie empiriocriticistiche (specialmente quella di Mach) per le quali, come si ricorderà, le leggi formulate dalle scienze sono solo espressione di economia di pensiero; ma è anche evidente che, diversamente da quelle filosofie e conformemente in qualche modo alle filosofie spiritualistiche francesi, il sapere scientifico, come totalmente estraneo all'attività teoretica, non è per Croce che una sorta di sapere inferiore, non è anzi alcun sapere affatto (dato che il vero o il solo sapere è quello filosofico). Con le scienze della natura, o con la considerazione naturalistica della realtà, rientrano anche nella sfera dell'economico, dell'utile, le altre attività pratiche dello Spirito: quali quelle del diritto, della politica, dell'economia in senso stretto. Sono le attività su cui Croce si è soffermato con particolare attenzione, per la viva influenza che ha esercitato su di lui (anche se volto a tutt'altro segno) il pensiero di Marx. Come Marx, infatti, egli riduce a economia, a espressione dell'attività economica, il diritto e la politica; ma, in contrasto con Marx, da tale attività distingue, secondo la sua dottrina, e afferma come aventi propria assoluta autonomia così i valori morali (che stanno a quelli economici come l'universale all'individuale) come, e a maggior ragione, i valori del bello e del vero. Si conclude così l'esame delle forme categoriali dello Spirito, che (per il nesso dei distinti) sono insieme congiunte in un procedimento circolare, per il quale la teoresi è condizione per la prassi e la prassi è condizione per la nuova teoresi, e così via nell'infinito procedere della realtà. Giacchè la realtà, come è noto, non è altro se non storia: storia intesa come pensiero e come azione, come libero esplicarsi e incessante progredire della vita attraverso il dispiegarsi delle forme o dei valori (teoretici e pratici) che sono ad essa immanenti.