DAMASCIO

 

A cura di C. Lo Castro

 

 

La figura e l'opera di Damascio (462 – 538 d.C.) si inseriscono nel complesso panorama storico-culturale del neoplatonismo pagano fra il V ed il VI sec. d.C., in particolare sullo sfondo dei continui scambi e delle reciproche influenze fra le scuole di Alessandria e di Atene. La maggior parte delle notizie pervenuteci intorno alla sua vita ed al ruolo che egli svolse come ultimo scolarca dell'Accademia sono contenute nella sua opera Vita di Isidoro e nelle Storie di Agazia1. Egli nasce a Damasco, presumibilmente intorno al 462. La prima fase della sua formazione intellettuale, caratterizzata dagli studi di retorica, si svolge ad Alessandria. Qui conosce Ammonio, dal quale viene introdotto alla lettura di Platone ed avviato allo studio della filosofia e della dialettica, per la quale fin da principio mostra particolare propensione. Affascinato dagli studi intrapresi e attratto dalla fama di Proclo, Damascio si trasferisce ben presto ad Atene per riceverne l'insegnamento. Il rapporto di Damascio nei confronti di Proclo, come emerge dal complesso dell'opera, si connota come libera revisione e talora serrata critica della dottrina del predecessore, intesa al ripensamento e alla riformulazione dei fondamenti della metafisica procliana, pur sullo sfondo di un costante riferimento ai suoi principi e alle sue fondamentali acquisizioni. L'autore nei confronti del quale Damascio dimostra invece particolare predilezione è Giamblico, spesso definito "il divino", dalla cui speculazione egli attinge a mani piene nella costruzione della struttura archelogica che costituisce la materia del Trattato sui Primi Principi. Durante la sua permanenza ad Atene, scomparso Proclo e dopo il breve intermezzo di Marino, Damascio partecipa alle vicende della successione nello scolarcato. La nomina di Isidoro e successivamente dello stesso Damascio doveva essere intesa e forse anche osteggiata, in ambiente accademico, come tentativo di innesto di un ceppo alessandrino sul sempre più debole tronco ateniese. F. Trabattoni ipotizza a tal proposito che la Vita di Isidoro sia stata composta dall'autore con intento apologetico-propagandistico oltre che puramente biografico. Damascio avrebbe voluto legittimare la sua posizione di scolarca e l'indirizzo che intendeva imprimere agli studi accademici, quello cioè di un ritorno alla più autentica tradizione platonica, inscrivendo la sua attività in un preciso programma culturale, auspicato e voluto dallo stesso Proclo. L'orientamento ormai predominante conduceva a privilegiare l'aspetto mistico-religioso del pensiero platonico e la pratica della magia e della teurgia, come suo esito interpretativo estremo, a scapito dell'aspetto dialetticospeculativo. Damascio assume su di sé il compito, di cui cifra emblematica è la composizione del Trattato sui Primi Principi, di ricondurre l'Accademia al suo antico vigore dialettico-speculativo attraverso il recupero integrale dello spirito autentico del pensiero di Platone, salvando e per ciò stesso fondando la componente metadialettica ed irrazionale della filosofia greca. Il fervore di tale dibattito va quindi inserito e letto sullo sfondo di un ben più ampio e articolato contesto i cui elementi determinanti si possono forse ricondurre a due:

1. la progressiva diffusione del cristianesimo in area mediorientale e mediterranea,

2. la commistione e fusione delle istanze della più autentica tradizione filosofico-razionale greca con elementi della tradizione sapienziale orientale. Damascio, come già Proclo, appare consapevole del fatto che la tradizione filosofica del mondo pagano poteva proporsi come alternativa al nuovo messaggio cristiano e ai sistemi teologici che esso generava sul piano speculativo, peraltro mutuando e reinterpretando il lessico e gli strumenti concettuali del pensiero greco, solo operando un integrale ripensamento e recupero delle sue origini mitiche ed a-razionali. Il corpus dei testi di Platone viene studiato e letto come il compendio della totalità della teologia greca, secondo una linea di continuità che unisce Orfeo, attraverso Pitagora, a Platone stesso. Il sapere intorno a Dio e agli dei, questo significa propriamente il termine "teologia", viene così ricondotto alla sua origine simbolica. Custodito dal segreto dei riti misterici e cantato dal mito è tratto infine alla luce del logos, da cui pure non è mai esaurito né, per ciò stesso, profanato. Al contrario, affidato alla parte più alta della filosofia, è sospinto oltre il limite della inestinguibile tensione fra gli opposti dell'intelletto e al di là dei continui rovesciamenti del metodo dialettico, in modo tale che il possederlo coincida sempre con il perderlo ed il perderlo con il possederlo. Il testo in cui si ritiene compiuto il "venire alla luce" di queste verità è il Parmenide, che assume il ruolo di fondamento esegetico sul quale sorgono e a partire dal quale si sviluppano e si consolidano le costruzioni metafisico-dialettiche degli autori neoplatonici. In questa prospettiva, sia Proclo sia Damascio si rivolgono, in forza della comune radice, sia al pensiero di Platone, ritenuto e quasi venerato come lo "ierofante" delle verità intorno ai principi, patrimonio sacro del più autentico spirito della filosofia greca fin dal suo nascere, sia al pensiero di Aristotele, considerato come estremo sforzo di affinamento degli strumenti logici necessari alla penetrazione della dottrina platonica, invocando una linea di continuità e un fondamentale accordo fra i due filosofi che si trasmetterà, come eredità neoplatonica, a tutto il medioevo. L'unicità dell'oggetto del discorso filosofico (l'Uno) e la sua assoluta trascendenza rispetto al logos legittima, in ottica neoplatonica, un'operazione di ripensamento in senso enologico e deontologico delle categorie del pensiero aristotelico. Astratte dal loro contesto originario, quello di una metafisica ontologica la cui cifra è l'anteriorità dell'atto sulla potenza, dell'affermazione sulla negazione e dell'essere sul nulla, sono trasposte nell'orizzonte dell'ineffabile e del silenzio come sullo sfondo di un nulla, matrice del logos e della parola, che le sostanzia e conferisce loro un nuovo significato. Ciò spiega molte delle difficoltà di lettura delle pagine procliane e damasciane. Termini tecnici come quelli, ad esempio, di atto e potenza, possesso e privazione, sostanza ed accidente, vanno riletti e ridefiniti nella cornice di un universo concettuale totalmente mutato, in cui alla preminenza del finito e del determinato si è sostituita quella dell'illimitato e dell'indeterminato, in cui il sinolo parmenideo di essere-conoscere-parola viene scomposto e ricomposto alla luce del riferimento ultimo al nulla-tenebra-silenzio. Questo mutamento di prospettiva rimette in discussione l'intuizione centrale del pensiero greco, scaturita in prima istanza dal problema linguistico di definire il significato del verbo œinai come fondamento dell'attribuzione e della proposizione di senso compiuto. La sostanzialità dell'essere è un guadagno squisitamente ellenico, lì dove nella tradizione orientale il termine, quando esiste, significa principalmente la presenza e l'esserci. Le idee di essere e di sostanza vengono così restituite al loro valore di simbolo e reinterpretate come un permanere che rinvia ad un dileguarsi, come una presenza sempre irriducibilmente segno di un'assenza. In questo il pensiero di Proclo e ancor più quello di Damascio rivelano il tentativo di comporre le istanze del più autentico "intellettualismo greco" con elementi propri delle religioni orientali. Questo tentativo costituisce la prospettiva che ho scelto per il mio lavoro di ricerca. E' probabile, infatti, che Damascio, nella composizione del Trattato sui Primi Principi, abbia voluto radicalizzare, attraverso una serrata revisione critica del pensiero di Proclo e attingendo alle strutture portanti della riflessione di Giamblico, una prospettiva già definita dal pensiero neoplatonico ma non percorsa e sviluppata fino alle sue estreme conseguenze. Il Trattato sui Primi Principi non si presenta semplicemente come commento al pensiero dei predecessori o come inventario delle fonti mitiche e religiose del pensiero. Accanto a questi elementi e profondamente innestato su essi, l'opera contiene uno studio originale e rigoroso della sintassi del principio, strutturato secondo un metodo logico-dialettico la cui novità consiste nella funzione attribuita all'aporia e nell'uso che di essa si fa. La prima sezione del testo articola una complessa aporetica del principio assoluto nel corso della quale Damascio si pronuncia, a favore di Giamblico e contro Proclo, per l'esistenza di un principio ineffabile anteriore all'Uno che conservi, in relazione al tutto, le caratteristiche dell'incoordinazione e dell'assoluta inconoscibilità-inesprimibilità. La postulazione di tale principio non è un omaggio reso all'autorità di Giamblico, ma l'approdo ultimo di una critica stringente intorno alla nozione di principio e all'Uno neoplatonico.

 

1. Critica alla nozione di principio.

La nozione di principio è intrinsecamente e irriducibilmente aporetica. Infatti, la nozione di totalità, come unità mediata dal molteplice, contiene in modo costitutivo la coordinazione del principio ai suoi derivati. Viceversa, la nozione di principio contiene in modo costitutivo il carattere della trascendenza assoluta. In tal modo soltanto ciò che non rientra in nessuna guisa nell'unica

coordinazione del tutto può essere pensato come principio del tutto. Il ragionamento conduce a conclusioni contraddittorie ma entrambe necessarie: il principio è, ad un tempo, trascendente ed immanente ai suoi prodotti.

 

2. Critica all'Uno neoplatonico.

L'Uno neoplatonico, in quanto principio primo, è soggetto in pieno all'aporia di immanenzatrascendenza che riguarda la relazione del fondamento al fondato. Esso presenta un'inconciliabile duplicità di aspetti. E' origine di tutte le cose, dunque rimane presente ad ognuna come causa immanente e si inscrive nella struttura della realtà non solo come ciò da cui tutto discende e verso cui tutto ritorna ma altresì come ciò attraverso cui ogni processione ed ogni ritorno appare possibile. D'altro canto, in nessun modo rimane implicato nei suoi prodotti né si pluralizza in essi, ma conserva rispetto agli enti la sua trascendenza e la sua alterità perfetta. Il ragionamento conduce alla ricerca di un altro principio, che sfugga alla coordinazione del tutto in cui persino l'Uno è avvolto e

che, pertanto, sia anteriore all'Uno stesso.

 

A questo punto si apre una duplice prospettiva di lettura del testo.

1. Si può ritenere che la postulazione del principio ineffabile non rappresenti altro che il tentativo di estrarre dal sistema la contraddizione e di confinarla in un luogo la cui alterità assoluta consenta di dominarla. In questo caso bisognerebbe indagare se la posizione di tale principio costituisca un reale progresso teorico o non impedisca il ripresentarsi delle medesime aporie del fondamento anche a proposito dell'Uno di Damascio. Per tale giudizio sembra propendere A. Linguiti. Egli ritiene che la posizione dell'esistenza di un principio anteriore all'Uno sia dettata dall'esigenza di superare nel senso della trascendenza la dialettica immanenza-trascendenza dell'Uno neoplatonico. L'ineffabile non assolverebbe nel sistema di Damascio altra funzione che questa e finirebbe per risultare affatto estrinseco alla costruzione metafisica generale. "Sembra che l'unica funzione svolta dal principio ineffabile - afferma Linguiti - sia quella di "concetto-limite", e dubito che si possa parlare di un effettivo progresso rispetto alla tesi tradizionale che pone come irriducibile la duplicità di aspetti del principio supremo". In questa direzione si poneva già nel 1946, in modo senz'altro più categorico, R. Strömberg. Egli si propone di riscattare il filosofo dall'immagine di metafisico e mistico dedito alla ripetizione pedissequa dei suoi maestri. Pur riconoscendo a Damascio un ingegno particolare nella refutazione di obiezioni ed eccezioni, un grande acume dialettico nella sua attività di interprete e commentatore, una reale inclinazione alla ricerca e un autentico amore per la filosofia e per la verità, egli finisce per ritrarlo come una mente non creativa, dedita a modificare o rettificare indipendentemente le dottrine dei predecessori, in particolare quelle di Proclo e di Giamblico. La sua filosofia viene

ritenuta agnostica e fondata su un costitutivo scetticismo nei confronti di una possibile stabilità dei sistemi speculativi neoplatonici.

2. D'altro canto si può avanzare l'ipotesi che la revisione critica della metafisica di Proclo alla luce del pensiero di Giamblico rappresenti l'intento di ricondurre il movimento dialettico di costituzione dell'essere e di tutte le sue determinazioni ad un fondo ultimo di decostituzione radicale, cui allude simbolicamente ed in modo sempre insufficiente l'Ineffabile. La posizione di questo principio, coerentemente sviluppata nella costruzione archelogica del Trattato sui Primi Principi, sarebbe pertanto un reale approfondimento della dottrina procliana della negazione. L'intuizione attraverso cui Damascio ripensa la teologia negativa ed il suo metodo è paragonabile forse all'intuizione di una possibile legge per cui si possa far cominciare la serie dei numeri dallo zero anziché dall'uno. La scoperta o anche solo il sospetto dell'esistenza di un simile principio di derivazione determinerebbe, nella serie numerica, la ridefinizione di tutte le relazioni sussistenti fra i termini. Così anche nella gerarchia dei principi neoplatonici mutano i rapporti reciproci. I processi di derivazione divengono vere e proprie "funzioni" dell'assoluto, fondate sulla dialettica dell'autocostituzione del misto. Ogni funzione di autocostituzione si determina come l'inverso della decostituzione radicale che fa da sfondo a tutta la struttura dei principi. Ogni principio si configura come una funzione di inversione dell'assoluto, di modo che tutta la dialettica dei diacosmi dell'essere sembra riscrivere l'Ineffabile al contrario. La posizione del principio ineffabile come duplice nulla, d'essere e d'uno, determina, rispetto al sistema di Proclo, la ridefinizione della natura dell'essere e delle sue proprietà. Esso appare finalmente come la prima funzione di autocostituzione, fondamento di tutti i misti, che si articola

fra le funzioni di decostituzione dell'Ineffabile e della materia. Ad un tempo l'intelligibile, prima proprietà dell'essere, e le sue forme si ridisegnano sullo sfondo dell'inconoscibile e la parola diviene anch'essa funzione del silenzio. L'Ineffabile non è un espediente logico creato al fine di salvaguardare la coerenza del sistema, né il trinceramento dietro l'inconoscibile e l'indicibile dell'inevitabile processo all'infinito cui da luogo il tentativo di mediare il continuo e il discreto. L'intuizione, che spesso l'autore definisce "sospetto", dell'esistenza di questo principio libera all'interno del sistema un potenziale dialettico tale per cui tutti gli elementi ne risultano movimentati. La relazione fra l'Uno e il Tutto, paradigma della relazione del fondamento al fondato, del nulla all'essere, viene ripensata alla luce della possibile relazione fra l'Ineffabile e l'Uno. Determinare le modalità di questa "relazione", se ancora di relazione si può parlare, coincide a mio parere con l'individuare l'idea centrale su cui si regge tutto il discorso di Damascio e alla luce della quale valutare i punti di continuità e di frattura rispetto al pensiero di Proclo.

 

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