DARWINISMO SOCIALE: LA LETTURA REAZIONARIA DELL’EVOLUZIONE

 

 

di Alberto Magnani

 

 

Il concetto stesso di darwinismo sociale si caratterizza, a ben vedere, per un elemento di implicita paradossalità: la lettura in chiave reazionaria di una teoria che, nel suo contesto storico d’apparizione, riveste un valore eminentemente rivoluzionario. E’ questa solo la prima (o la più significativa) di una molteplicità di incongruenze che rendono il fenomeno, nel suo complesso, di ardua decifrazione, impedendone un’analisi definitiva e organicamente intesa. In assenza di griglie interpretative condivise, e con la consapevolezza di non poter esaurire una tematica di tale respiro nell’alveo di un’unica riflessione, conviene ragionare sulla scorta di alcuni quesiti essenziali, che consentano, se non altro, di dipanare la trama generale dell’argomento in singole, e più facilmente sintetizzabili, linee direttrici.

 

Con qualche schematismo semplificatore, potrebbe essere utile ripartire gli interrogativi di nostro interesse in tre “passaggi” fondamentali:

 

A-   Il concetto di darwinismo sociale: cosa significa, le controversie della definizione

B-   Darwin e il darwinismo: incongruenze e affinità

C-   Le applicazioni del darwinismo sociale: Il Paradigma nazista

                                                                      

 

A-  Cosa si intende per darwinismo sociale? Chiamando in causa una tra le definizioni oggi più ricorrenti, si racchiuderebbero sotto questa etichetta le teorie che “applicano il concetto di selezione naturale alla popolazione umana”. L’utilizzo di un termine come “etichetta” ( o label, per dirlo alla britannica) non è casuale, e si spiega con relativa semplicità: il darwinismo sociale non consiste in una corrente di pensiero propriamente intesa, ma in una definizione, dal valore nitidamente peggiorativo, codificata in un contesto storico successivo all’epoca di Darwin stesso. Si tratta, in sintesi, di un raggruppamento arbitrario, costruito a posteriori, e non di un movimento di pensiero che raccolga una diretta adesione da parte dei suoi (ipotetici) esponenti. Da qui scaturisce un ordine di paradossalità ancora più vistoso di quello suggerito in sede introduttiva: generatasi dopo l’epoca di Darwin, l’etichetta  trova le sua fondamenta concettuali in personalità che precedono Darwin stesso. Per addurne due esemplificazioni, inerenti ad una prospettiva ora socio-politica, ora eminentemente scientifico, si potrebbero citare Herbert Spencer e Francis Galton. Spencer, discostandosi dalla sensibilità progressista che permea gli scenari del positivismo, applica alla cosa pubblica le teorie evoluzioniste. A derivarne, è un pensiero spiccatamente conservatore: consegnando alla biologia, e non più al libera scelta, la collocazione sociale degli individui, si delegittima qualsiasi pulsione riformatrice e/o egualitaria. La determinazione a priori della strutturazione gerarchica della società vanifica ogni stimolo al cambiamento: un invito alla passività e all’accettazione supina del proprio status che raccoglierà, come vedremo, lo strumentale interesse delle esperienze totalitarie. Si osservi che le tesi di Spencer si inseriscono nel dibattito dell’epoca già a partire dal 1851 (con la pubblicazione di Social Statistic), anticipando di ben otto anni le Origini della specie. Una eco ancora più drammatica sarà riscossa da The Human Faculty and its development, l’opera di Francis Galton che segna l’atto di fondazione della cosiddetta eugenetica. Quella che oggi ci appare, giustamente, una prospettiva aberrante, doveva risultare, agli occhi di uno studioso straordinariamente versatile come Galton, una soluzione compensatoria alle carenze della specie umana, un costruttivo contributo alla causa dell’ottimismo razionale: laddove l’evoluzione non garantiva un processo stabile di miglioramento, una “selezione attiva “ (ancorché artificiosa) dei singoli elementi avrebbe condotto a un’ipotetica perfezione della specie nel suo complesso.

 

B-   E’ su una non meno consistente onda di controversia che si imposta il rapporto tra darwinismo sociale e Darwin medesimo. Interpretazioni vistosamente strumentali vorrebbero prospettare una qualche aderenza le teorie del primo e la sensibilità del secondo: ma un’ampia documentazione dell’epoca ci consente, con discreti margini di sicurezza, di dimostrare il contrario. Il pensiero di Darwin a proposito del razzismo, ad esempio, si delinea con efficacia nelle Origini dell’Uomo: la teoria dell’esistenza di specie umane differenti (ribattezzate, con evidente scetticismo, “cosiddette razze”) viene categoricamente respinta, e anzi assimilata alle suggestioni creazioniste. “Coloro che non ammettono- spiega Darwin nel VII capitolo dell’Origine- l’evoluzione, guarderanno alle specie come creazioni separate, o in qualche maniera come a entità distinte”. Non solo: financo la supremazia della specie umana è oggetto di discussione, in virtù della “umile condizione” che inficerebbe, secondo Darwin, le pretese di dominio dei suoi congeneri. Valicando le pagine – comunque sia, decisamente esplicative- delle sue opere scientifiche, Darwin ribadisce, anche in forma privata, le sue tendenze liberal, sposando battaglie, all’epoca, non propriamente popolari: in primo luogo l’antischiavismo, condannato nella sua totale “innaturalezza”.

 

C-   Le applicazioni del darwinismo sociale

 

1-    L’UTOPIA MALATA DELLA PUREZZA RAZZIALE: DARWINISMO SOCIALE ED EUGENETICA NEL REGIME NAZISTA

 

Pur non essendo sempre riconosciuto come tale, il darwinismo sociale trova, già a partire dal diciannovesimo secolo, qualche pericoloso tentativo d’applicazione. Ma la molteplicità di sfaccettature che lo compongono, riassumibili nella preponderanti dimensioni politiche (colonialismo, conservatorismo) e scientifiche (eugenetica), convergono nell’unico, degenerante, fenomeno storico del nazismo. Gli angoscianti progetti del Terzo reich, nell’itinerario che condurrà alle barbarie dell’olocausto, riflettono e concretizzano le suggestioni di una selezione naturale su scala umana. La shoah rappresenta, in questi termini, la tappa ultima di un percorso complesso, incardinato sull’iterazione tra scienza e potere, dove la prima si presta, con le conseguenze drammatiche ci sono note, a supporto intellettuale del secondo. Al di là dell’olocausto in sè ( su cui, fortunatamente, si è andata consolidando una certa coscienza collettiva) è interessante osservare come il darwinismo divenga un tassello fondamentale nella formazione di una nuova mentalità della Germania nazista. In altre parole, l’oggettivazione della “legge del più forte” non solo assume i contorni di una gerarchizzazione sociale ben definita o di aberranti sperimentazioni scientifiche, ma si estende alla creazione di una “sensibilità nazional popolare” incardinata sul rifiuto di quei “deboli” che contaminano la perfezione della razza. Nelle deliranti suggestioni hitleriane si commistionano dunque, in rapida sequenza, diverse angolature del darwinismo sociale, destinate a sintetizzarsi nell’unica, atroce, macchina di morte dell’eugenetica nazista. Tra le prime (e, spesso, non debitamente considerate) vittime del “processo di miglioramento” razziale, figurano i malati di mente, etichettati come elementi di corruzione (“disgenetici”), parassiti inadeguati a qualsiasi funzione sociale. Lo sterminio del diverso inizia, con diversi anni di anticipo rispetto ai campi di concentramento, negli ospedali psichiatrici, con una scienza che avvalla (salvo rarissime eccezioni) la follia del terzo reich. Si legge in documento di quegli anni, a firma di Heinrich Wilhelm Kranz (1897-1945) direttore dell'Istituto di Eugenetica dell'Università di Giessen

 

 Esiste un numero assai elevato di persone che, pur non essendo passibili di pena, sono da considerarsi veri e propri parassiti, scorie dell'umanità. Si tratta di una moltitudine di disadattati che può raggiungere il milione, la cui predisposizione ereditaria può essere debellata solo attraverso la loro eliminazione dal processo riproduttivo

 

Parole che preludono all’orribile prassi della sterilizzazione: negli ambienti accademici dell’epoca, è un continuo fiorire di pubblicazioni in merito. Ridotta a fattore ereditario, la malattia psichiatrica inizia ad essere considerata non debellabile, consegnando all’eliminazione fisica dei malati l’unica chance di salvaguardia della razza.

 

 

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