GUY DEBORD

 

 

A cura di Fabrizio Cerroni

 

 

«Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» (La Società dello Spettacolo).


 

LA VITA

 

Guy Debord nasce a Parigi nel 1931. All’età di quattro anni rimane orfano di padre. Compie tutti i suoi studi a Cannes.

A diciotto anni ritorna a Parigi. Qui scopre il surrealismo e avviene l’incontro con il poeta Isidore Isou ed i suoi amici lettristi. Dopo un’iniziale adesione, si allontana sia dal surrealismo, sia da Isou, e nel 1952 insieme all’ala radicale del lettrismo dà vita all’Internazionale Lettrista, in aperto contrasto con il fondatore del movimento.

Nel luglio del 1957 a Cosio d’Arroscia, paesino ligure, fonda l’Internazionale Situazionista. Costituzione alla quale, oltre a Debord, prendono parte Gianfranco Sanguinetti, il pittore Pinot-Gallizio, Milanotte, artisti del movimento COBRA (Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam), il comitato psico-geografico di Londra, ed il Movimento per una Bauhaus Imaginista. L’Internazionale Situazionista si attesta su una critica totale dell’ordine esistente, sotto l’aspetto politico, economico (consumismo) e urbanistico. Il testo costitutivo fu scritto dallo stesso Debord con il titolo: Rapporto sulla costruzione di situazioni e sulle condizioni dell’organizzazione e dell’azione della tendenza situazionista internazionale.

Dal 1958 l’Internazionale Situazionista inizia a pubblicare una rivista semestrale omonima della quale Debord sarà direttore fino al 1969, anno dello scioglimento del gruppo, e nella quale pubblicherà numerosi articoli.

Visita molto spesso l’Italia, in particolare durante gli “anni di piombo”, fino al 1977 quando il governo Andreotti, con Cossiga Ministro dell’Interno, decreta la sua espulsione con l’accusa di fomentare il clima insurrezionale del paese.

Nel 1959 esce Memoire, libro scritto da Debord in collaborazione con il pittore Asger Jorn.

Nel 1967 scrive il suo capolavoro, La Società dello Spettacolo, destinato ad avere una vasta eco mondiale soprattutto dopo il Maggio ‘68. In quest’opera Debord afferma che i paesi capitalisti si stanno evolvendo verso una società in cui gli individui sono meri spettatori passivi di un flusso di immagini scelte dal potere, giustificatrici dell’assetto istituito, che si sostituiscono completamente alla realtà. Circa vent’anni dopo, nel 1988, pubblica i Commentari sulla Società dello Spettacolo, in cui afferma che il processo descritto nell’opera precedente aveva subito negli ultimi anni un’ulteriore accelerazione verso quello che definisce lo “spettacolarismo integrato”.

In occasione dell’assassinio del suo amico ed editore Gerard Lebovici, avvenuto nel 1984, pubblica Considerazioni sull’Omicidio di Gerard Lebovici (1985).

Nonostante sia stato una persona molto schiva, non concedeva interviste, non aveva il telefono, non si lasciava fotografare (se non in rare occasioni), tanto da essere considerato l’intellettuale più misterioso degli ultimi anni; Debord ha realizzato due autobiografie: Panegirico (1989) e Questa Cattiva Reputazione (1993).

Tra il 1952 ed il 1978 dirige tre lungometraggi e tre cortometraggi. I film sono: Hurlements en Faveur de Sade (1952); La Société du Spectacle (1977); e In Girum Imus Nocte et Consumimur Igni (1978). I cortometraggi sono: Sur le Passage de Quelques Personnes à travers une Assez Courte Unité de Temps (1959); Critique de la Séparation (1961); e Réfutation de tous les jugements, tant élogieux qu’hostiles, qui ont été jusqu’ici portés sur le film «La Société du spectacle» (1975).

Lo scarso successo ottenuto da questi film induce Debord a pubblicarne i dialoghi nel volume Opere Cinematografiche Complete 1952-1978. Altra opera dedicata al cinema è Contro il Cinema, pubblicata nel 1968.

Il 30 Novembre del 1994 nella sua casa di Champot, paesino dell’Alta Loira, muore suicida con un colpo di pistola.

 

 

 

IL PENSIERO

 

Debord è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzati.

Tale critica è basata sui testi del giovane Hegel e di Marx, dei quali Debord opererà spesso un détournament, ossia una riscrittura creativa.

Esempio di tale processo è l’incipit della Società dello Spettacolo che riprende quello del Capitale di Marx: «tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci».

L’incipit dell’opus magnum di Debord è: «tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (La Società dello Spettacolo).

Questo détournament esprime bene quella che, per Debord, è la caratteristica principale del capitalismo moderno. L’accumulazione del capitale e l’espansione delle tecnologie della comunicazione hanno permesso di spingere il “feticismo delle merci” ad un grado prima impensabile.

La società dello spettacolo è il risultato di questa espansione. Lo spettacolo, concetto centrale della critica di Debord all’ordine capitalistico, non era inteso da questi meramente come espressione della tirannia dei mass-media. Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» (ibid.) ma non né l’unica, né la più importante. Lungi dall’esserne causa, la televisione è solo l’espressione della struttura delle società spettacolari.

Lo spettacolo è, piuttosto, il tipo di relazioni interpersonali costruite dalle immagini di una società spettacolarizzata.

«Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini» (ibid.).

Per questo motivo, esso non è qualcosa di esterno alla società, ma, al contrario, è la sua struttura profonda.

«La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista» (ibid.).

Tuttavia lo spettacolo è, allo stesso tempo, solo un settore della società separato dagli altri, e lo strumento attraverso cui questa parte domina il tutto. Questa contraddizione fa sì che esso sia necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.

«Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come una parte della società, e come strumento di unificazione. […] Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza» (ibid.).

Questo settore che domina sul resto della società non è altro che l’economia. Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione.  L’economia è ormai completamente autonomizzata.

Pertanto lo spettacolo può essere definito come «il regno autoritario dell’economia mercantile elevato a uno statuto di sovranità irresponsabile, e l’insieme delle nuove tecniche di governo che accompagnano tale regno» (Commentari sulla Società dello Spettacolo).

Lo spettacolo, dunque, è il risultato della frammentazione sociale, derivante dal fatto che un settore domina sugli altri, e la ricomposizione dell’unità perduta nella realtà sul piano delle immagini, le quali mostrano tutto ciò che manca nella vita degli individui. Si realizza così una nuova alienazione. Mentre nel capitalismo classico, descritto da Marx, l’alienazione è il risultato del passaggio dall’essere all’avere, nel capitalismo spettacolare essa deriva dal passaggio dall’avere all’apparire.

«La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima» (La Società dello Spettacolo).

Gli individui separati ritrovano la loro unità nello spettacolo, ma solo in quanto separati. Giacché la comunicazione è unilaterale; è il Potere che giustifica se stesso e il sistema che l’ha prodotto in un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte.

«Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza» (ibid.).

Lo spettacolo presuppone, quindi, l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. Condizione per raggiungere tale risultato è la totale separazione di individui sempre più isolati nella folla atomizzata. È da questo stato che lo spettacolo deriva, ed è esso che cerca costantemente di riprodurre, come mostrano i prodotti che realizza: televisione, automobile, ecc.

«Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento» (ibid.).

Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. Lo spettacolo è «il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (ibid.).

In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste.

«Quando l’immagine costruita e scelta da qualcun altro è diventata il rapporto principale dell’individuo col mondo, che egli prima guardava da sé da ogni luogo in cui poteva andare, evidentemente non si ignora che l’immagine reggerà tutto. […] Il flusso delle immagini travolge tutto, e analogamente è qualcun altro a dirigere a suo piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile» (Commentari sulla Società dello Spettacolo).

Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini tale alienazione del consumatore: «più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio» (La Società dello Spettacolo).

L’individuo, quindi, deve rinunciare alla propria personalità se vuole essere accettato dalla società, poiché questa richiede «una fedeltà sempre mutevole, una serie di adesioni continuamente deludenti a prodotti fasulli» (Commentari sulla Società dello Spettacolo); e ciò gli impedirà di conoscere i suoi veri bisogni e desideri.

È così che, secondo Debord, la società moderna, fondata sull’ideale dell’individualismo, produce la più mortale e sterile passività che la storia abbia mai conosciuto.

Non si deve credere, però, che lo spettacolo sia un’invenzione del capitalismo moderno. Esso si produce ogniqualvolta vi sia nella società una separazione gerarchica creata dall’esistenza di un potere istituzionalizzato. In questo senso la religione può essere considerata l’antecedente dello spettacolo. In questo senso si può dire che «il più moderno è qui anche il più antico» (La Società dello Spettacolo).

Tuttavia, solo nell’epoca moderna il Potere ha accumulato i mezzi sufficienti, non solo per dominare la società, ma anche per plasmarla secondo i propri interessi, attraverso una produzione volta alla diffusione dell’isolamento.

Rientra nello spettacolo anche la creazione di un antagonismo tra sistemi sociali che sono in realtà solidali tra loro. È stato questo il caso della guerra fredda, definita da Debord come «divisione dei compiti spettacolari» (ibid.).

Anche i paesi comunisti (o capitalisti) di Stato erano considerati da Debord sistemi spettacolari. Essi erano basati su uno spettacolo concentrato nel quale, a causa del minore sviluppo dell’economia, le merci erano sostituite dall’ideologia e dall’identificazione con il capo supremo. Ad essi si contrappone lo spettacolo diffuso delle società capitalistiche basate sul consumo delle merci. Tuttavia questa contrapposizione è in realtà fittizia, giacché vuole convincere gli individui che esistono solo quei due modelli di società, i quali in realtà hanno più affinità che differenze, essendo entrambi basati sulla logica capitalistica e sul dominio gerarchico di una classe: la borghesia nello spettacolo diffuso, la burocrazia nello spettacolo concentrato.

In questa pseudolotta il sistema vincente si è rivelato quello dello spettacolo diffuso, poiché questo permette la scelta tra un numero indefinito di merci, ed il dominio dell’economia sulla società equivale al dominio della merce sull’uomo.

«Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale» (ibid.).

In una società mercificata, sostiene Debord, non può che essere la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.

Debord afferma che questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”.  

Quando nel 1988 nei Commentari Debord tornerà ad analizzare lo spettacolo, affermerà che i processi descritti negli scritti precedenti avevano avuto un’ancora più rapida evoluzione.

Questa era dovuta al fatto che agli spettacoli concentrato e diffuso si era aggiunto un nuovo tipo: lo spettacolare integrato. Esso è al tempo stesso concentrato e diffuso e riesce così a combinare i vantaggi di entrambi. Il risultato è una società completamente spettacolarizzata.

«Il senso dello spettacolare integrato è che si è integrato nella realtà stessa man mano che ne parlava; e che la ricostruiva come ne parlava. […] Lo spettacolo si è mischiato ad ogni realtà irradiandola» (Commentari sulla Società dello Spettacolo).

Lo spettacolare integrato ha cinque caratteristiche principali:

«il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente» (ibid.).

In questo modo tutti gli effetti dello spettacolo si amplificano in misura esponenziale. La società è completamente dominata dalle immagini falsificate che si sostituiscono alla realtà, facendo scomparire qualsiasi possibilità di attingere la verità al di là della falsificazione continua che la ricopre.

Ciò determina la scomparsa del concetto di storia, e quindi anche della democrazia.

«Credevamo di sapere che la storia era apparsa in Grecia con la democrazia. Adesso possiamo verificare che la prima sta scomparendo dal mondo come la seconda» (ibid.).

La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo.

«Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati. La storia del terrorismo è scritta dallo Stato; quindi è educativa. Naturalmente le popolazioni spettatrici non possono sapere tutto del terrorismo, ma possono sempre saperne abbastanza da essere convinte che, rispetto al terrorismo, tutto il resto dovrà sembrare loro abbastanza accettabile, e comunque più razionale e democratico» (ibid.).

In questo contesto ogni critica diventa impossibile. Lo spettacolare integrato non vuole essere criticato, e, d’altronde, gli individui vengono educati sin dalla nascita per evitare che questo accada. Infatti, essendo inondati da un flusso inarrestabile di immagini che non lascia loro il tempo per comprendere e riflettere, questi individui fanno costantemente l’esperienza concreta della sottomissione permanente.

Questa formazione a quello che Debord chiama pensiero spettacolare è ciò che indurrà gli individui a mettersi sin da subito al servizio dell’ordine costituito. Ed anche se una persona riuscisse a superare questa formazione resterebbe comunque attaccata al linguaggio dello spettacolo, giacché è l’unico che conosce, essendo l’unico che gli è stato insegnato.

«Magari vorrà mostrarsi nemico della sua retorica; ma userà la sua sintassi. È uno dei punti più importanti ottenuti dal successo raggiunto dal dominio spettacolare» (ibid.).

La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma di importanza decisiva.

«Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza» (ibid.).

Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo» (ibid.).

Il risultato è quel villaggio globale di cui parla McLuhan, ma del quale Debord dà una valutazione opposta rispetto al sociologo canadese.

«I villaggi, contrariamente alle città, sono sempre stati dominati dal conformismo, dall’isolamento, dalla sorveglianza meschina, dalla noia, dalle chiacchiere ripetute all’infinito sulle stesse famiglie» (ibid.).

A questo stato di cose, prodotto dalla tendenza al feticismo delle merci ed alla reificazione dell’economia autonomizzata, Debord contrappone il concetto di totalità. Se la costituzione del potere produce una separazione gerarchica della società, l’unica soluzione è quella di ricostruire realmente l’unità della stessa.

Questa totalità è intesa da Debord come comunità umana che, egli considera la vera natura umana. Tale comunità è possibile solo se ognuno può accedere direttamente ai fatti, e se tutti hanno i mezzi intellettuali e materiali necessari per decidere.

Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Questa concezione consente a Debord di affermare che «là dove c’è comunicazione non c’è lo Stato» (L’Internationale Situationniste).

Al di là delle concezioni pessimistiche sullo stato della critica sociale nello spettacolo, Debord è rimasto sempre ottimisticamente convinto della necessità di una simile ricomposizione dell’unità. Si esprime qui una concezione deterministica della storia, che Debord condivide con Marx, e che considera necessaria sia la frammentazione dell’unità originaria, sia la sua ricomposizione ad un livello più alto, raggiunto grazie allo sviluppo dell’economia, considerato il vero motore della storia.

Questo risultato può essere ottenuto poiché anche nella società dello spettacolo rimane la lotta di classe. Il soggetto rivoluzionario è sempre il proletariato del quale Debord amplia la definizione, fino ad includervi tutti coloro che hanno perso il controllo sulla propria esistenza.

«È l’immensa maggioranza dei lavoratori, che hanno perduto ogni potere sull’impiego della loro vita, e che dal momento in cui lo sanno, si ridefiniscono come proletariato, il negativo all’opera in questa società» (La Società dello Spettacolo).

Affinché questa classe sia rivoluzionaria è necessario che prenda coscienza del tempo storico. Debord considera l’evoluzione di questa presa di coscienza strettamente legata al progresso tecnico. Originariamente, quando l’agricoltura era l’unica attività produttiva, la concezione del tempo era da questa determinata. Tale rappresentazione era pertanto quella del tempo ciclico dell’eterno ritorno. Il tempo diventa sociale quando si formano le classi al potere, le quali, non lavorando la terra, iniziano ad avere coscienza del tempo storico, e della sua irreversibilità. Per il vertice della società la storia inizia ad avere un senso, e quest’idea entra in contrasto con quella della base della società, per la quale vale l’opposto. La religione monoteista è il risultato di questa contraddizione.

La diffusione del tempo storico ha luogo con la borghesia, giacché con il capitalismo il lavoro cessa di essere regolare e ciclico, ma subisce anch’esso una continua trasformazione. Tuttavia nel momento in cui la concezione del tempo potrebbe diffondersi anche alla base, esso perde la sua storicità per tutta la società, divenendo il tempo «della produzione in serie degli oggetti» (ibid.).

«Il tempo delle cose» (ibid.) si sostituisce a quello delle persone. Ne risulta una perdita totale dell’aspetto qualitativo del tempo, il quale viene ridotto esclusivamente al suo lato quantitativo. In quest’ambito i momenti si distinguono solo per aspetti quantitativi, si attua, quindi, per il tempo, lo stesso processo descritto da Marx per la merce, con il passaggio dal valore d’uso al valore di scambio. Anche il tempo è mercificato.

Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato deve riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. Questo avviene grazie al progresso economico attraverso il quale l’economia non rimane la base incosciente della storia, ma, nel momento in cui dirige la vita, si rivela creazione dell’uomo;  ed in tal modo questi ne prende coscienza. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.

Il proletariato può arrivare alla coscienza della storia, del suo carattere di processo e lotta, dopo essere passato per uno sviluppo «complesso e terribile» (ibid.). Debord analizza questo sviluppo del movimento operaio, considerandolo come un’evoluzione verso la presa di coscienza.

Tale movimento è cominciato con la Prima Internazionale, nella quale il problema principale era l’autoritarismo, che Marx e Bakunin condividevano, e dovuto all’ideologia, vera e propria degenerazione della teoria rivoluzionaria. L’anarchismo individualista è considerato da Debord «risibile» (ibid.), e l’anarchia in generale poco efficace poiché ha posto attenzione più sull’obiettivo che sui mezzi, e si basa sulla concezione ideologica di una «libertà pura» (ibid.), idealista ed astorica. La socialdemocrazia, invece, commette l’errore di rafforzare la distinzione tra il proletariato ed i dirigenti del partito, in questo è precorritrice del bolscevismo. L’Unione Sovietica, e successivamente la Cina, non sono considerati da Debord paesi comunisti, ma capitalisti di Stato, con la burocrazia che si sostituisce alla borghesia come classe sfruttatrice. Anche Trotzkij, infine, ha condiviso l’autoritarismo bolscevico e non ha visto nella burocrazia una nuova classe, ma solamente un ceto parassitario.

«In questo sviluppo complesso e terribile che ha condotto l’epoca delle lotte di classe verso nuove condizioni, il proletariato dei paesi industriali ha completamente perduto l’affermazione della sua prospettiva autonoma, e, in ultima analisi, le sue illusioni, ma non il suo essere. Esso non è stato soppresso» (ibid.).

La forma nella quale tale essere può venire recuperato è quella del consiglio operaio. Esso «è il luogo in cui le condizioni oggettive della coscienza storica sono riunite; la realizzazione della comunicazione diretta attiva, in cui finiscono la specializzazione, la gerarchia e la separazione, in cui le condizioni esistenti sono state trasformate in condizioni dell’unione».

 La costituzione dell’Internazionale Situazionista ha lo scopo di favorire questa presa di coscienza. Tale obiettivo è stato perseguito in modo diverso in tempi diversi. Innanzi tutto attraverso un’attività di avanguardia culturale ed artistica. Tale avanguardia è resa necessaria dal fatto che la sovrastruttura culturale è rimasta indietro rispetto allo sviluppo della struttura; ed è questo il motivo per cui la borghesia è contraria ai movimenti avanguardisti.

La cultura, però, non deve più essere un’attività separata, ma deve inserirsi nella vita quotidiana, la quale rimane l’unico campo in cui può compiersi la rivoluzione. In questo contesto l’arte deve portare nuovi valori e nuove passioni, mirando alla propria distruzione come sfera separata.

«Ci collochiamo dall’altro lato della cultura. Non prima di essa ma dopo. Noi diciamo che bisogna realizzarla, superandola in quanto sfera separata» (L’Internationale Situationniste).

L’attività dell’Internazionale Situazionista in questa fase è diretta a portare alla luce i «desideri dimenticati», creando situazioni (da qui il nome del gruppo) in cui gli individui potessero divenire partecipanti gioiosi della vita e non osservatori passivi dello spettacolo. Lo scopo è la soddisfazione del desiderio, concretamente e senza sublimarsi nell'arte.

Successivamente Debord ha posto maggiormente attenzione alle nuove forme di ribellione sociale. Gli esempi che considera sono gli scioperi selvaggi, il vandalismo delle bande giovanili, il saccheggio, la rivolta nel quartiere nero di Los Angeles. Debord vi vede un rifiuto del consumo imposto e della merce. Debord definisce questi eventi «il secondo assalto proletario contro la società di classe» (La Società dello Spettacolo).

Questo assalto non è dovuto, come il primo, alla miseria, ma al contrario è diretto contro l’abbondanza. E proprio come il movimento operaio è stato preceduto dal luddismo, questo nuovo assalto assume inizialmente forme criminali, dirette alla «distruzione delle macchine del consumo permesso» (ibid.).

Debord continua, comunque, ad attribuire all’avanguardia un ruolo estremamente positivo. Per questo l’Internazionale Situazionista rimane un gruppo piccolo, elitario, molto chiuso. L’avanguardia è però concepita in modo diverso rispetto a Lenin. Secondo Debord essa ha un ruolo esclusivamente prerivoluzionario, volto a favorire l’insurrezione attraverso una critica radicale delle società  capitalistiche moderne, nei loro aspetti politici, economici, urbanistici.

«Noi organizziamo solo il detonatore: l’esplosione libera dovrà scapparci per sempre, e scappare a qualsiasi altro controllo» (L’Internationale Situationniste).

 

 

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