PIETRO VERRI

DIARIO MILITARE

 

Vienna, 14 maggio, 1759.

Eccomi giunto. Ma quanta diversità dal correre la posta tranquillamente al camino, e coll'itinerario in mano, dire domani al tal sito, posdomani comodamente al tal altro. Sedendo al fuoco agiatamente, da Milano a Vienna vi si passa in sei o sette giorni. Io però nel Tirolo, nella Stiria e Carinzia, ho incontrato delle difficoltà che sulla carta non erano scritte. La mattina al fare del giorno 5 di questo mese m'avete veduto partire; ora vi dico, che non ho potuto giungere a Vienna se non ieri, cioè il nono giorno, e vi sarei giunto assai più tardi, se non avessi sacrificato quattro notti. La sera del 5 dormii a Brescia, viaggiai tutto il giorno 6 e la notte, e dormii la sera del 7 a Bolzano. La mattina del giorno 8 partii, viaggiai di seguito tutta la notte e tutto il giorno 9, e la sera dormii a Lienz. Ripigliai il viaggio e lo proseguii anche la notte del giorno 10, né riposai che la sera dell'11 a Villac, da dove non mi riposai che a Vienna ieri sera. Non mi è accaduto nessun accidente per viaggio, niente s'è rotto del mio biroccio, non era nemmeno pesante, giacché sapete che il mio equipaggio l'ho spedito in dirittura a Praga, non ho meco se non un paio d'uniformi e la biancheria che m'abbisogna, il tutto rinchiuso in un mediocre baule. Non ho incontrato né neve, né cattivo tempo che m'abbia fatto rallentare il corso, la colpa si deve unicamente a sei o sette postiglioni, dai quali sono stato mal servito.

Sinché sono stato nell'Italia, sino a Bolzano ho potuto andare lestamente, passato quel tratto di strada, talvolta mi sono capitati dei villani per postiglione, i quali poteva batterli, poteva caricarli di denaro, ma farli correre no. La posta prima di Brunecken mi è costata un'intera notte, nella quale avrei pure fatto saggiamente a dormire s'avessi potuto essere profeta. Quella disgraziata bestia che faceva il postiglione nemmeno aveva gli stivali, appena uscito dalla posta ricevette varie bastonate sulla gamba dal timone, dal quale non sapeva preservarsi, ciò gli rese impossibile lo starsene a cavallo, onde ci servì a piedi, e a piedi zoppicando. Ne ho bastonato alcuno, ma vi perdeva inutilmente anche questo incomodo, onde abbandonandomi pazientemente al destino, mi sono lasciato condurre come una cassa di mercanzia, come e quando si poteva. Gli alloggi sono buoni, i letti morbidi, le stanze assai ben difese, e passabilmente si mangia, questo è quel poco di buono che ho trovato nei giorni scorsi, ma la maggior parte delle cose sulle quali mi è accaduto di volgere lo sguardo, mi hanno fatto noia e tedio. Dopo passato il Veronese s'ingolfa nel fondo di una valle circondata di monti sterili e assai alti, e quasi tutto il viaggio è in mezzo a sassoni pelati. Qualche cascata d'acqua di tratto in tratto fa piacere, ma abitualmente mi si stringe il cuore nel non vedere mai l'orizzonte. Talvolta anche la strada maestra nel Tirolo è sotto un masso enorme del quale si vedono i pezzi caduti e ve ne pendono altri sul capo: non vi si passa senza qualche inquietudine. Gli uomini poi sono robusti, quadrati, ma assai meno vivi e sensibili dei nostri. Esibite un pugno di monete ad un postiglione italiano perché scelga da se stesso la buona mano, lo vedrete sorpreso, forse arrossirà e ricuserà ad un tempo stesso di essere giudice e parte, ovvero sceglierà il giusto e consueto. Fate la medesima esibizione ad un tedesco, e vedrete che vi scoperà pulitamente tutto il palmo della mano, e sogghignando s'intascherà il tutto facendosi beffa di voi. L'italiano ha più bisogni, conosce il bisogno della stima altrui e ne è geloso; il tedesco oltre i bisogni fisici non ne conosce altri. Già altre volte sono stato in questo paese, ma ero allora troppo giovine, né riflettevo sulla maggior parte degli oggetti. Vi dirò che sono stato sin ora poco contento dell'assistenza di Giuseppe. Sapete che a Milano la sua famiglia gode l'intero salario; sapete che a lui ho fissato quattro zecchini al mese; e sapete pure come io son fatto; egli, stando con me, non avrà da pensare né al pranzo, né alla cena, né al vestito, onde quei quattro zecchini sono puramente per il suo divertimento. Mi pare che ogni altro servitore sarebbe grato e contento; ma costui è il più noioso ipocondriaco, il più inetto compagno che si potesse scegliere. Da principio gli consegnai una dozzina di zecchini a ciò che pagasse la posta; accadeva che erano già all'ordine e attaccati i cavalli senza che vi fosse modo di distanarlo dalla stanza, ove si rinchiudeva per scrivere il suo conto. Sino a Brescia egli stette dietro il biroccio, e non faceva che bestemmiare dietro ai postiglioni perché correvano. Mi sono incaricato io di pagare le poste, l'ho preso meco nel biroccio, e per quanto gli andassi predicando la discrezione, costui stava sedendo in mezzo al biroccio e mi comprimeva contro il fianco, e quasi sempre sonnolento mi cozzava, mi urtava; un pugno di tempo in tempo ch'io gli slanciava, lo faceva rimettere in dovere, ma non passavano pochi minuti che eravamo da capo. Del meglio che era preparato per me, io ne faceva divisione con questo mio don Sancio: ho portato l'umanità al segno che la mattina dopo viaggiato, e la notte mentre si cambiavano i cavalli, discendevo e preparavo io stesso il cioccolatte per due, e presane la mia porzione, uscivo a custodire il biroccio facendolo entrare a ristorarsi ove tutto era preparato, come se io fossi di lui cameriere. Costui non mi ha mai detta una parola di gratitudine e non mi riesce veramente che di peso e d'incomodo. Non sa una parola di tedesco, e si ostina a credere che questi postiglioni per malizia non vogliano intenderlo. Basta, ne sono fuori di questa seccatura. Gli ho fatto i conti, e non si sovviene di cinque zecchini che mancano, ed io anche di questi non ne parlerò più. Voglio pur vedere se v'è modo di rendermelo affezionato, ma ne dubito assai, egli è troppo stolido e duro naturalmente per poterlo ridurre a sentire.

Ora si apre per me una nuova scena, debbo presentarmi al signor conte di Kaunitz e ottenere da lui una lettera per far la campagna al quartier generale. Il marchese Clerici mi vorrebbe al reggimento, dove non avrei che noia senza conoscere niente di quanto mi può giovare. Giacché per opera del signor conte di Kaunitz impensatamente sono stato fatto capitano, io spero che farà il resto. Al reggimento non ci potrei stare che come volontario, giacché la mia compagnia, come sapete, non è all'armata; e posto che debba essere volontario, mi conviene vivere in più buona compagnia e dove possa imparare in grande cosa è il mestiere della guerra. Vi terrò informato di quanto mi accadrà. Frattanto vi abbraccio.

Vienna, 18 maggio, 1759.

Il marchese Visconti mi ha presentato al signor conte di Kaunitz. Questo ministro non suole dare udienza ad alcuno privatamente, e il tempo d'essergli presentati è o dopo che si alza da tavola, ovvero la sera dopo il teatro quando entra nella sala dell'assemblea che si tiene nel suo palazzo. In questa sala fui condotto e presentato alla sorella del signor conte la signora contessa di Questemberg che fa li onori di casa. II ministro ancora non v'era. La padrona di casa sta sedendo in mezzo ad un canapè, intorno v'è un circolo di dame e credo che osservino il rango della distanza; le persone della primissima distinzione siedono a fianco della contessa sul canapè. Tale e l'usanza di questo paese ove la padrona di casa invece di cedere il luogo più degno alle persone che vengono a visitarla, stassene, per lo contrario, come sul trono, a ricevere da esse li omaggi. Feci un profondo inchino, mi fu risposto con una piccola inclinazione di testa, e tutto è finito. Eravi nella sala un vecchio a sedere, il marchese mi avvisò che questi era il maresciallo Neiperg, e a lui mi presento; fui accolto cortesemente e mi disse se andavo all'armata, risposi di si - così va, diss'egli, quando si è giovani si sta in moto e s'acquista della gloria, quando s'è vecchi, come io lo sono, si sta a sedere riparato dall'aria. - Gli risposi che quando s'era fatto un nome come quello di Neiperg, s'era ben acquistato il diritto di godere il riposo. Replicò ringraziandomi della mia officiosità. Poco dopo comparvero nella sala due camerieri, ed accesero quella porzione di candele che tutt'ora erano spente. Questo è il segno, mi disse il marchese, che il conte sta per comparire. Anche questo mi colpì, come accogliendo il ministro in sua casa le persone più distinte non facesse compiere l'illuminazione che per sé medesimo. Si aprì poi la porta per dove suole uscire il ministro, e tutti colà si volsero, si fece un gran silenzio nella sala e il marchese mi fe’ cenno che lo seguissi e mi accostai a un circolo nel centro di cui stava il signor conte. La di lui figura è veramente nobile e bella, si veste con molta eleganza, i moti suoi sono tutti pittoreschi, ma peccano di studio, e fecemi l'impressione d'un personaggio da teatro. Parla varie lingue con molta grazia e colla più esatta pronunzia. Sembra un francese o un italiano ogni volta che cambia linguaggio. La fisonomia è dolce e previene sommamente, in ogni sua azione v'è un non so che di maestoso e ricercato che lo distingue. Quando ci fu dato me li accostai ringraziandolo, perché mi avesse ottenuto l'onore di essere al reale servizio come capitano, e inoltre perché col di lui mezzo avessi ottenuto il permesso di abbandonare l'Italia ove era destinato per fare la campagna all'armata, in seguito soggiunsi che per colmo de’ suoi benefizii imploravo di poter essere assegnato al quartier generale. Mi accolse con viso favorevole, e mi disse, che le buone informazioni avute di me da conte Cristiani, avevano determinato sua maestà a così collocarmi, e soggiunse, io poi avrò sempre piacere che mi si presenti l'occasione di giovarvi. Fui contento, ma non lasciò di farmi specie la confidenza di trattarmi col voi avendo io anche la chiave di ciambellano, mi accostai al conte Arconati, e gli chiesi s'egli fosse pure dal ministro trattato col voi, e inteso che ebbi questo essere il suo linguaggio con noi Milanesi, posi il cuore in pace.

Il giorno dopo questa presentazione, mi portai a casa del maresciallo Neiperg, il quale essendo presidente del Consiglio di guerra, è il mio superiore. L'accoglienza cortese della sera precedente mi determinò a farlo volentieri. Mi feci annunziare, nome, cognome, patria e qualità. Fui accolto. Era a sedere solo in una sala. Faccio una profonda riverenza, egli non si scuote, ma mi interroga: - Chi è lei? - Sono il tale, rispondo. - Che rango ha? - Sono capitano. - Di che reggimento? - Del reggimento Clerici. - Cosa vuole? - Niente, fuor che fare un atto di rispetto con Vostra Signoria. - Il marchese Clerici cosa fa? - Dei cattivi contratti, rispondo. - Perché dei cattivi contratti? - Perché ha speso a Roma centomila scudi per riportare due cadaveri. Questa mia risposta l'ha fatto smontare ed è entrato a schiarire cosa fossero i due cadaveri, io gli spiegai che il nuovo papa gli ha fatto il solito dono destinato alli ambasciatori cesarei, cioè, due corpi santi, i quali gli sono costati assai cari; dopo qualche discreto tempo sono partito contento di me medesimo. Veramente l'accoglienza è stata strana dopo l'accaduto della sera precedente, e dopo essermi fatto annunziare. Ma qui un italiano avvezzo all'officiosità e alla società delicata bisogna che deponga il pensiero né d'essere inteso se adopera modi gentili, né di riceverne. V'è qualche cosa di terreo nel clima stesso, e gli Italiani che per poco vi dimorino ne acquistano la scabrosità. Io ho osservato che li uomini che dall'Austria vengono in Lombardia, da principio sono assai duri, ma poi si ammansano e s'ingentiliscono nel nostro paese.

Questa visita del maresciallo non era per me la più importante, lo era bensì quella del barone Du-Beyne, che è il referendario delli affari d'Italia sotto il conte di Kaunitz. Volevo prevenirlo della supplica fatta al ministro per essere appoggiato al quartier generale, e ringraziando lui pure del passato, pregarlo a sollecitare la decisione, affine di poter sollecitamente andare al campo. pregai il Damiani, che è l’agente dei nostri fermieri generali, il quale mi presentò al signor Du-Beyne.

Questi ha l'aria veramente d'un ebreo ringentilito, e la sua moglie pare una Rebecca, tutta la famiglia mi sembra malsana, il referendario è uomo d'una studiata civiltà automatica, che tiene più al cerimoniale che alla cortesia dell'animo. Mi ha accolto assai bene, ma avendogli il Damiani detto, non so a qual proposito, ch'io fossi dedito alla lettura, il referendario mi ha chiesto quali libri avessi letti. Veramente una tal domanda è così impensata ed imbarazzante, che in riscontro gli dissi che il signor Damiani mi faceva un onore che io non meritavo. Vedete s'io ho ragione di chiamare la civiltà sua un cerimoniale, non una cortesia. Che giova a me che uno mi accompagni per più stanze con molte riverenze, quando mi pone indiscretamente nella scelta o di fare il ciarlatano colla lista dei libri da me veduti, o di fare la umiliante figura di un discepolo che va all'esame? Ma qui non se ne avvede chi fa di queste interrogazioni d'essere inofficioso, e conviene, come dissi, obliviscere populum tuum et domum patris tui, e livellarsi alla meglio senza a prendere a male delle sgarbatezze che vengono fatte non per offesa, ma per mancanza di riflessione. Il punto sta che bisogna guardarsi bene di non seccare il ministro, perché facilmente gli si diventa antipatico, e altronde io vorrei uscire dalla incertezza, ed avere la decisione se potrò o non potrò andare al quartier generale. La stagione è già avanzata, e non vorrei che accadesse un fatto d'armi frattanto ch'io sono in Vienna. L'ordine generale di Sua Maestà è che non si ammettono volontarii al quartier generale, ma quest'ordine è emanato perché nelle campagne passate era troppo grande il numero dei Moscoviti, Polacchi ed altri d'ogni nazione, i quali, non essendo al servizio, facevano da volontarii appresso il maresciallo Daun, che si trovò imbarazzato pei foraggi e viveri di questa inutile moltitudine. Io sono al servizio, e su questo spero una eccezione in favor mio. Non costerà al ministro che una lettera, avuta la quale, parto. Frattanto io mi lascerò regolarmente vedere tutte le sere dal ministro a ciò che si sovvenga di me senza che io l'importuni.

Ho preso un cameriere e un servitore e mi trovo meglio col lasciare il bisbetico Giuseppe a custodire la casa. Subito che avrò da darvi mie nuove le avrete. Vi abbraccio.

Vienna, 23 giugno, 1759.

Voi sarete maravigliati, come lo sono io stesso, dal ricevere anche sotto questa data mie nuove da Vienna. Vi avviso però che parto, ed ho ottenuto d'essere al quartier generale, almeno con probabilità, lo spero. Prima di dirvi come ciò sia accaduto, vi dirò qualche cosa della vita ed osservazioni che ho fatte su questo paese. Sono ammesso in molte case; dove vivo con qualche piacere è da monsignor Crivelli, buon uomo che ha buona tavola, che accoglie bene i suoi patrioti, e si vive con discreta libertà; ha seco due nipoti che hanno buone maniere. Nelle altre case mi annoio, ma ci vado. Generalmente questi signori Austriaci ci guardano come provinciali, come li Inglesi guarderebbero li Americani loro sudditi. Un galantuomo di merito e modesto può guardarsi come perduto, non s'accorgeranno mai che un uomo abbia cognizioni e spirito s'egli medesimo sfrontatamente non glielo ripete, e non conviene ributtarsi per freddezza o sgarbo, ma instare, proseguire, farsi avanti e parlare alto, fermo e decisivo. Io vedo uomini ben da poco, che con questa scuola vengono festeggiati e ben accolti. A me non fa invidia alcuna il loro destino e non comprerò mai le distinzioni con quest'arte. Passerò per un uomo comune, anche meno se si vuole, ma sarò sempre io stesso e non discenderò all'impostura. Ho osservato che in questa città capitale non vi son forestieri di sorte alcuna, se non quelli che per officio o speranza vi soffrono il soggiorno. Nell'Italia, in Toscana, a Napoli, a Roma, e così via, quanti forastieri vi soggiornano per puro genio di vivere in quella società piuttosto che altrove; ma qui vengono Inglesi, Francesi e Italiani per poter dire di esservi stati nei loro viaggi, e dopo pochi giorni se ne vanno. Si credono di buona fede questi Austriaci superiori al restante d'Europa, se ne eccettui Parigi e Londra, che hanno i loro partigiani anche qui. Quante siano poi nelle biblioteche le opere d'ingegno prodotte in questo clima e da questi nazionali, non saprei, non conosco un celebre pittore, non un architetto illustre che sia da annoverarsi fra li Austriaci, e nemmeno saprei se in tutta la monarchia abbia la casa d'Austria una città che sia paragonabile a Milano per ogni riguardo. Comunque sia, l'opinione di un paese non si affronta da un uomo solo, conviene soffrirsela in pace e sentirsi talvolta di riverbero rimproverare d'essere italiano. Se non sapete il tedesco, vostro danno, essi non hanno l'attenzione che abbiamo noi in Italia di usare del francese quando vi sia un forastiere che non sappia la nostra lingua, non s'incomodano punto perciò, vi invitano a pranzo, le tavole sono assai ben servite, ma talvolta vi è un silenzio stupido che vi annoia mortalmente nel tempo che pure altrove è destinato alla giocondità e alla amicizia. Le figlie nubili sono cortesi ed officiose, un forastiero che possa ammogliarsi è festeggiato da esse, le doti sono povere, e per una figlia si tratta di passare all'esistenza col trovare un marito; conviene però essere assai cauti, poiché per poco che vi addomesticate in semplici frequenze di parlare, vi faranno un'imboscata, vi accuseranno di mancare alla parola che non avete data, e potreste essere esposto ad un affare disgustoso anche in faccia della Corte, così è accaduto a varii italiani. Ordinariamente avviene che gl'Italiani generosi restano enormemente gabbati da questi Austriaci. Noi siamo in concetto di furberia; questa opinione ingiuriosa, l'italiano ben nato cerca di superarla con una decisa ingenuità e buona fede. Il costume rozzo e pesante di questa gente non ci rende cauti, non si teme l'insidia, e allora siamo enormemente traditi e nelle compre e ne’ contratti, nel giuoco, nel commercio colle figlie. Vi è tutto da temere, e non si falla mai se si esibisce la decima parte di quello che viene domandato, e se si sta cauti al giuoco, il quale non è indifferente, perché le signore della prima sfera non dimenticano nel giuoco tutti i vantaggi ai quali un'italiana non oserebbe né meno pensare. Il lusso è enorme, i mezzi sono scarsi, a tutto si mette mano per sostenere la pompa e la vanità.

Le dame qui non sono tanto riverite come da noi. Se siete al teatro od altro luogo pubblico nessun uomo abbandona il suo posto per cederlo ad una principessa che venga dopo; se si vede scendere o salir le scale una dama, non si usa di servirla in modo alcuno, ciascuno pensa a sé. Le donne in generale sono più franche e ardite che in Italia, la loro educazione le rende disposte a correre la città sole a far le compre per le botteghe, ed assai cosa rara è il veder sul viso d'una donna quell'imbarazzo, quel rossore, quel fiore di sentimento che dà il maggior vezzo al sesso amabile. Basti il dire che la maggior parte delle funzioni del carnefice è sulle donne che assassinano, rubano e si abbandonano ad ogni sorta di delitto. Persino le donne di partito in Italia, in mezzo all'abbandono de’sentimenti al quale le porta il loro genere di vita, conservano un non so che di nobile per cui si deve offrir loro la mercede del loro corpo con certa qual disinvoltura, sicché abbia l'apparenza di essere fatto per genio quell'atto che, secondo la natura, non dovrebbe appunto esser fatto che per esso. Qui il contratto è spaccato, e mi si dice che nell'atto medesimo della delizia non avrà difficoltà la vostra bella di replicarvi: "Mi darete bene uno zecchino!"

Il modo di fabbricar le case, d'ammobigliarle, di mangiare, di vestire è quasi uniforme presso i cittadini. Chi vede una casa può dire di averle vedute tutte. Pavimento di tavole; porte con serrature tutte uguali; finestre presso a poco della stessa misura, la soffitta piana coperta di stucco, tutto è uniforme. In Italia ciascuno ha la sua idea e fabbrica chi a vôlta, chi a soffitta, chi a finestra, chi a terrazzini a modo suo, e questa feconda varietà e capricciosa diversità qui non si vede, onde li alberghi paiono piuttosto fabbricati per istinto che per fantasia. Credo che i cibi del popolo e i loro alloggi siano i medesimi che erano ne’ secoli passati. Grand'uso v'è di sacre immagini, e statue gigantesche di santi e grandi aspersioni di acqua benedetta, e grandi preghiere nelle chiese di fanciulli che vi stordiscono, e grandi illuminazioni di candele che le donne accendono sulle panche della chiesa per riverenza alle imagini che hanno nei loro libri di preghiere; vi è parimente nell'insegne delle stesse botteghe dei pezzi tutti in gigantesco come fanno i cavadenti da noi. Tutto mi fa vedere che hanno bisogno questi abitanti di oggetti che vastamente percuotano i loro sensi per accorgersi che esistono. L'ordine della città però in parte mi piace. Le guardie che vegliano la notte per le strade, l'illuminazione di Vienna la rendono sicura di notte, sicché potete andarvi con l'oro in mano. Le carrozze di noleggio sempre pronte e numerizzate sono d'un gran comodo. Il vitto non è caro né dispiacevole, l'alloggio è comodo e tutto è in certa regola e simmetria; meglio che a Milano. Solamente m'incomoda che quando meno si crede bisogna avere la borsa alla mano. Sia che passate le porte della città ad una certa ora, che andate al teatro o che giuocate una partita tutto si paga al momento. A Milano posso uscire senza mai aver meco denari, a Vienna se ho dimenticato la borsa bisogna che me ne torni a casa a prenderla. Queste in breve sono le poche idee che mi ha fatte nascere la vista di questo paese. Vengo a me. Periodicamente mi lasciavo vedere la sera dal ministro pel fine che vi dissi; ma un giorno dopo l'altro passava senza risoluzione; avvertito che non bisogna infastidirlo, mi trovavo imbarazzato vedendo avanzarsi la stagione. Giorni sono fui dalla contessa d'Harrach, la quale mi chiese del mio destino, le manifestai il desiderio di sbrigarmi e il motivo che mi tratteneva. Essa si offerse di parlarne l'indomani al conte di Kaunitz, il quale, essendo giorno non so se di sua nascita o nome, veniva a pranzare in amicizia da lei. La sera al solito mi trovai dal ministro; vedo che mi adocchia più del solito, m'accosto verso di lui, egli verso di me e mi apostrofa a tal guisa: - Siete voi quello che va dicendo per Vienna di non poter partire per cagion mia?... - L'esordio detto con maestà non era piacevole; decisamente risposi. - Eccellenza, sí son quello, perché aspetto ch'Ella si degni decidere sulla supplica mia per servire al quartier generale. - E che volete, disse il ministro, che sua maestà vi trovi il generale presso del quale servire? - Non questo, risposi, ma unicamente che l'eccellenza vostra si degni o di farmi avere il permesso da servire come volontario al quartier generale, ovvero di negarmelo. - Rispose che mi avrebbe dato una lettera per il maresciallo Daun. Questo è quello che io cercava e lo ringraziai. Vedete però che il modo era un po' duro, e per un italiano sensibile non è il più aspettato in ricompensa della somma delicatezza usata nel non infastidirlo; spendendo frattanto inutilmente i miei soldi e a Praga dove ho il mio equipaggio, e qui. Ma ringrazio il cielo perché son fatto in modo che quando sento che un uomo ingiustamente mi vuole abbassare, mi sento raddoppiare l'animo e la franchezza in corpo, e perdo tutte quelle delicate misure che son naturali con chi le usa meco. Insomma, domani o dopo al più avrò la lettera, mi son raccomandato al signor Du-Beyne che deve stenderla e sarà fatta in modo che spero di restare presso il maresciallo. Subito avutala, partirò. Frattanto le armate sono state nell'inazione, spero che giungerò in tempo. Ma se la disgrazia portasse che dovessi far la campagna nella cattiva compagnia del reggimento Clerici sarei ben malcontento, sarebbe un'annata di mia vita passata male senza farmi conoscere da alcuno, senza imparar nulla e gettando senza frutto la sanità, il tempo e i denari. Vi abbraccio.

Praga, 2 luglio, 1759.

Ebbi la lettera il giorno 27 scaduto, e la sera del 28 partii da Vienna e sono giunto a Praga ieri. Gli alloggi non sono sì buoni come nell'altro viaggio e la tavola delle osterie è pessima. Qui ho ritrovato il mio Federico e i miei cavalli, la mia roba tutto in buon essere. L'armata è lontana da qui quasi due giorni di viaggio per posta. Vi dirò alcune particolarità che mi sono accadute in queste ventiquattro ore che mi trovo a Praga. Damiani di Vienna m'ha appoggiato qui a certo signor Ubiale che fa li affari de’ Fermieri generali, dai quali passono le mie rimesse. Questo Ubiale, genovese, non mi pare tanto buon uomo come il Damiani. Mi hanno preso un alloggio di sette stanze magnifiche in fila, e in questa città spopolata mi fanno pagare uno zecchino al giorno per l'alloggio, mentre io avevo ricercato due o tre stanze, ché niente più mi occorre essendo di passaggio. Questo Ubiale mi va continuamente raccomandando di prevalermi d'un certo signor Peppe italiano che fa il fattore, e mi pare un poco di buono. Ieri per forza ha voluto che andassi a pranzo da lui, ove va pessima compagnia d'ufficiali la maggior parte italiani. Peppe ha una figlia che sta a tavola ed ha adescato un ufficiale con un empiastro sopra d'un occhio, forse spera di sposarlo almeno ad tempus. Costui è informato che posso avere tutto il denaro che mi occorre dall'Ubiale, ed è affannoso per me a ciò che nulla mi manchi all'armata, vorrebbe che mi provvedessi di pellicce, di stivali in quantità, di vestiti pei domestici, e che non vorrebbe costui farmi comprare! Tutta la mattina mi ha perseguitato a farmi entrare in molte botteghe; egli crede che io non sappia una parola di tedesco, e a ciascun bottegaro dice che gli conduce una buona fortuna, un italiano ricco, che faccia bene i suoi affari, ma che si ricordi poi che egli vuole la sua porzione. Io ho dissimulato d'intenderlo, gli ho fatto passeggiare mezza Praga da una bottega all'altra e non ho mai trovata cosa a proposito, onde a frutto della sua insidia non ho ricavato che stanchezza e sudore. Voleva, strada facendo questo Peppe impormi, perché è Servente Muratore, io colla scorta del libro stampato Ordre des Francs Massons trahi ho avuta la fortuna di farmi credere non solamente Franco Muratore, ma Maestro e Gran Maestro, e quel che più gran Maestro Visitatore, e voglio visitare li arnesi ch'egli conserva della Loggia e criticarli ben bene. Non v'è piacere più gustoso di quello d'imporre ad un impostore. Costui, che pretendeva di farla da bello spirito, ora mi sta intorno con rispetto e riverenza. Strada facendo mi andò raccontando ch'egli da giovane aveva studiato assai, che specialmente aveva fatto progressi nella magia bianca, e mi interrogò, per esempio, come avrei fatto per far salire in aria un uovo da sé. Poi mi raccontò che riempiendolo di rugiada ed esponendolo al sole, siccome la rugiada tende ad alzarsi, così l'uovo sarebbe montato da sé. Presi la cosa sul serio e gli mostrai che non avrebbe avuto che a bere assai rugiada, ed indi esponendo il suo panciuto ventre ai raggi del sole con questo principio sarebbe volato. Oh che animale è costui! Nelle anticamere e ne’ postriboli credo bene che anco in Italia se ne troveranno di simili, ma a me riescon nuovi, perché col nuovo genere di persone fra le quali mi pone il vestito che ho indossato, mi pare che la natura umana, che ora vedo, non sia certamente più bella e colta di quella porzione nella quale ho vissuto sin ora. Qui in Praga, nessuna casa nobile, ammette gli ufficiali, a meno che la persona non lo meriti per sé stessa, ed io non ho portato meco alcuna lettera, onde mi trovo in una sciocca società. Ho spedito il mio equipaggio all'armata, la quale non si sa bene ove precisamente sia; ho alcune piccole spese da fare, poi fra una settimana vado al campo. Vedrò nuovi oggetti, spero che gli interessi dei pericoli reciproci renderà quella società più viva e brillante. Vi sono delle persone della più elevata nascita, se posso essere al quartier generale potrò avere un'idea della guerra, occuparmi di grandi cose, far conoscenze utili, insomma mettere a profitto il tempo e i quattrini, meglio che non m'è accaduto sin ora, giacché sia per le cognizioni acquistate, sia per i piaceri provati, vi posso dire che non ho impiegato niente bene il mio capitale. Vi scriverò dal campo; non vedo l'ora d'allontanarmi da Praga. Vi abbraccio.

Görlitzheim, 14 luglio, 1759.

Eccomi alla grande armata del maresciallo Daun, oggi verso mezzodì vi sono giunto, partii da Praga il giorno 12, e prima di mettermi a dormire vi scrivo anche le cose più minute a ciò che conosciate esattamente gli oggetti tanto da vicino come li vedo io stesso. Da mezzodì a questa parte già qualche strana cosa mi è capitata. Giungendo all'armata non vi ho conosciuta veruna regolarità; di tratto in tratto ho incontrato tende di vivandieri e mercanti; chiesi del quartier generale e mi fu indicato. Promisi di regalare il postiglione affinché restasse coi cavalli in un prato colla mia gente e col mio carrettino, sul quale ho la tenda, il letto e qualche mio arnese, perché, non sapendo se vi sia al campo il mio Federico co' miei cavalli, non sapevo di quali servirmi per collocare al mio alloggio l'equipaggio. Poi preso meco il cameriere di Vienna, m'incamminai alla casa ove alloggia il maresciallo. Avanti la porta di quella casa eravi, come sempre, una compagnia di granatieri con due sentinelle. Entrai. Tutto era in moto pel pranzo. Un ufficiale dello stato maggiore interrogato da me se si poteva presentarsi a Sua Eccellenza, rispose che andava allora a tavola, e conoscendo ch'io era un ufficiale che veniva da Vienna, e che aveva una lettera pel maresciallo, pulitamente mi invitò a pranzare ad un tavolino con lui e un altro aiutante generale, che poi finito il pranzo mi avrebbe annunziato. Accettai l'invito e fummo serviti bene. Durante il pranzo chiesi a quei due che erano del quartier generale, se l'inimico che avevamo di fronte fosse il re ovvero il principe Enrico, non lo sapevano; se era lontano o vicino, se era forte più o men di noi, a quanto ascendesse la nostra armata, a nessuna di queste questioni seppero né l'uno né l'altro rispondere, eppure uno era aiutante generale del maresciallo, l'altro aiutante d'ala. Terminato il pranzo, l'aiutante d'ala mi chiese nome, qualità e reggimento per annunziarmi, poi mi disse che s'immaginava che avrei fatto la mia campagna al mio reggimento; risposi, dipenderà questo dalla volontà del signor maresciallo. - Oh, il maresciallo, soggiunse egli, sicuramente lo manderà al reggimento. - Con questa bella prevenzione mi scortò alle stanze superiori ove era la gran tavola, e mi introdusse nel momento in cui s'alzavano da tavola. Ero prevenuto che il maresciallo Daun fosse sommamente altero, ma da quanto m'è accaduto non posso dirlo. Mi ha ricevuto con cortesia, gli ho presentata la lettera del conte Kaunitz, un'altra della contessa Simonetti, e lettele mi fece varie interrogazioni intorno il teatro di Vienna, intorno Milano e la signora contessa, con grande meraviglia di molti generali e signori che, facendo circolo, ascoltavano il dialogo. Alcuni cominciarono a mirarmi bieco, non so bene perché, forse perché non avendo il ventre gallonato, osassi rispondere in loro presenza al maresciallo; ma io gli squadrava con eguale franchezza e non m'imbarazzava di essi. Dopo ciò la conversazione cangiò, ed io mi sottrassi al circolo e mi posi alla porta ove doveva passare il maresciallo. Lo abbordai umilmente al passaggio, e lo supplicai a decidere di me ove dovessi fare la campagna. - La scelta dipende da lei, rispose il maresciallo cortesemente. - Io sarò al colmo dei miei voti, soggiunsi, se avrò il bene di servire immediatamente presso di Vostra Eccellenza. - Mi ringraziò della mia ufficiosità, e immediatamente ordinò ad un generale aiutante che mi venisse assegnato il quartiere. Ecco svanita la mia inquietudine ed ottenuto il fine propostomi. V'assicuro che questo mi ha veramente allargato il cuore, pensando che niente avrò più a che fare con quei signori del reggimento, mezzo italiani e mezzo intedescati, che hanno i difetti delle due nazioni. Avevo premura di conoscere il mio quartiere e collocarvi la roba mia che avevo lasciato sul prato col postiglione. L'aiutante generale adunque scrisse un ordine al colonnello quartier maestro, in cui venivagli comandato d'assegnarmi un quartiere per essere io fissato al quartier generale. Questa cedola fu consegnata ad un sergente d'ordinanza, col quale mi venne voglia d'incamminarmi per disbrigare più presto il mio affare. Intesi che il colonnello quartier maestro era discosto quasi una mezz'ora di cammino, ma non m'increbbe, e giuntovi dissi al sergente che gli presentasse la cedola e gli dicesse che ero venuto per visitarlo; mi fece poi entrare. Stavasi il colonnello a sedere col cappello in testa nella casa d'un villano ove alloggiava, e appena cavatosi il cappello se lo ripose e mi chiese chi ero, poi di qual reggimento, poi voleva il mio rango; alla terza interrogazione tanto incivile, alla quale lasciava che io rispondessi in piedi e scoperto, mentre egli non si era mosso dal suo sito, risposi ponendomi il cappello e sedendo. - Signore, non sono venuto per subire l'interrogatorio. Il nome, la qualità e tutto sta scritto nella cedola che il maresciallo le invia affinché mi dia un quartiere. Io non son venuto che per usarle una civiltà, se vuol riceverla. - Sin qui il nostro discorso era stato in francese. Allora il colonnello cavò il cappello, si alzò, mi chiese se ero italiano, si mostrò molto amico degli Italiani, e finì per disporre subito pel mio quartiere. Voi vedete adunque quale è il tuono di società di questi signori. Partii buon amico, trovai il mio nuovo albergo, mi aveva fatto scusa il colonnello che essendo già l'armata collocata ove siamo, non poteva darmi per ora che un quartier cattivo, ma che nelle altre marce vi rimedierà. Trovai modo di far collocare i cavalli e condurre la mia roba al quartiere, che è veramente un meschino tugurio d'un povero contadino, e non so come vi potrò stare. Poi mancavano ancora almeno due ore al finire del giorno, mi sentivo bene ed allegro, non sapevo che fare, e pensai di visitare il reggimento Clerici, e vedere come sarei stato accolto da quei signori. L'armata si vede bene dal mio quartiere, è un bel colpo d'occhio, e solo mi incamminai al campo. Prima di chiudere e mettermi a riposo vi voglio raccontare l'accoglienza avuta.

Dopo aver trovato che gli aiutanti generali non sanno dire dove, come e quale sia il nemico che di qui non si vede, non mi fece più meraviglia il girare il campo e chiedere conto a quanti incontravo dove è il reggimento Clerici, senza trovare un'anima che me lo sapesse indicare. Eppure un reggimento non è un ago da smarrirsi, e dopo anni che si guerreggia vi parrà impossibile che i soldati ed anche gli ufficiali non conoscano l'esistenza d'un reggimento, ma la cosa è così: passeggiai molto lungo l'armata, sempre cercando ove fosse il reggimento Clerici, e non lo seppi allora che la ventura mi vi fece cadere. Ascolto parlare italiano, osservo l'uniforme, ecco il famoso reggimento. Cerco della tenda del signor colonnello Ferretti, mi viene indicata, ed io mi presento dicendo, se era permesso al conte Verri d'inchinarsi al signor colonnello. - Oh, signor capitano, rispose egli, è giunto ben tardi, cosa ha avuto a Vienna, è stato forse ammalato? - Sanissimo sempre, risposi, forse è accaduto qualche fatto d'armi del quale non si è saputa la nuova? - Ma lei, soggiunse, doveva venir prima. - Il signor colonnello, diss'io, sta bene? me ne rallegro. - Poi mi interrogò il colonnello se avessi meco la mia tenda. - La tenda! risposi, ed a qual uso? - Bisogna, soggiunse egli, averla se non vuol dormire a ciel sereno. - Oh per questo poi frattanto vi rimedierò e dormirò in qualche alloggio di contadino. - Questo non si può, non lo permetterò mai. - Ma, signor colonnello, vuol ella ch'io stia alla pioggia a dormire? - Suo danno, si cerchi una tenda! - E perché non potrei frattanto stare in qualche casuccia da villano? - Io le dico di no, che non lo voglio. - Ma lei, signor colonnello è meno cortese del signor maresciallo... - a questo nome restò come attonito. - E come, replicò, ha ella parlato al signor maresciallo? - Sicuramente, soggiunsi, e crede il signor colonnello che vorrei venire all'armata senza prima presentarmi a chi comanda e a lei e a me? - Ed il signor maresciallo, disse il colonnello, le ha permesso d'alloggiare in una casa? - Signor sì, in una casa. - Dunque ella è al quartier generale? - A questo scongiuro diventò l'uomo il più ufficioso, m'invitò a pranzo per domani, mi fece cento cortesie. Amico, credo che costoro facciano automaticamente il mestiere del soldato per necessità. Che vivono come frati al loro reggimento e il nome di quartier generale loro impone. Forse non osano mai presentarsi al comandante. Credo che lo scopo fosse di tenermi al reggimento per avere la mia tavola e per impedire ch'io mi faccia degli appoggi. Ora è sventato. Che gente, amico, guai ad aver bisogno di essi! Vedete se in quest'oggi ho avuto degli oggetti per me interessanti. Sono stanco, chiudo la lettera abbracciandovi di cuore.

Lichtenau, 2 agosto, 1759.

Gli altri dall'armata scrivono per comparire spaccamonti, io scrivo semplicemente a fine di farvi schiettamente partecipi di quanto vado io osservando, e se non vi dico la verità degli oggetti, sicuramente almeno vi paleso la verità delle mie sensazioni. Ho almeno il piacere di porvi in situazione di conoscere qualche poco il mestiere del soldato in campagna, e voi lo potete conoscere con meno incomodo certamente che non faccio io.

Io mi figuravo venendo all'armata di dovervi trovare assai libertinaggio, assai festa e allegria, e molta familiarità fra uomo e uomo: tutte le idee sognate. Mi pare che questa unione di uomini che forma l'armata sia un aggregato del rifiuto delle altre società. I soldati comuni sono o canaglia, che invece della galera è stato loro destinato un reggimento, ovvero scioperati che per essersi ubbriacati una volta hanno giurato fedeltà. I bassi ufficiali sono scelti da questo primo fondo. Gli ufficiali poi pochi sono gente di buona nascita, e quei pochi sono ordinariamente spiantati cadetti che, essendo incapaci d'altra occupazione, indossarono un abito bianco e rosso per vivere. Ora tutto questo bel composto è un'unione di persone essenzialmente malcontente. Vi vorrebbe una energia di animo non volgare, un amor della gloria, una passione di farsi distinguere assai violenta per soffocare nel cuore il tedio della vita che ciascuno mena. Non calcolo il pericolo, ché questo è il meno, perché nel corso di un anno difficilmente troverete un uomo che sia stato per sei ore tutto in complesso esposto al pericolo, ma calcolate tutte le intemperie delle stagioni che s'hanno a soffrire, le marce, la schiavitù di non poter uscire dal distretto del reggimento, il cattivo cibo, la mancanza di ogni distrazione, non una donna, non un ballo, niente che rassereni o ravvivi. Io vedo su tutti i visi della tristezza feroce che palesa l'uomo malcontento; questo introduce delle maniere assai ruvide reciprocamente. Si cavano il cappello gli ufficiali l'un l'altro quasi che s'insultassero. Passare delle ore con davanti un bicchiere di cattiva birra o fumando, questo è il solo bene che comunemente prova un ufficiale. Interrogate sulla guerra, pochissimi sapranno rispondervi, non sono al fatto né degli avvenimenti della guerra presente, né della teoria dell'arte in generale della guerra. Un capitano sa come campa la sua compagnia, quanti uomini la compongono e il dettaglio delle scarpe, stivaletti, ecc., che gli occorrono. Sa che si è battuto nella tale e tale occasione, che ha fatto la tal marcia, ecc. Ma fuori dalla sfera di quanto lo riguarda immediatamente, ben pochi sono che ne sappiano qualche cosa. Erano otto giorni da che io ero giunto all'armata a Görlitzheim ove da più settimane era il campo, ed io non avevo mai potuto sapere precisamente se eravamo nella Slesia, ovvero in Boemia, ovvero nella Lusazia, giacché questo piccolo luogo non si trovava sulle mie carte, e i confini erano vicini. Alcuni da me interrogati non lo sapevano, altri davano varie e contradittorie risposte, finalmente il giovine principe Lobkovitz, che è assai più colto degli altri, mi ha mostrato una carta esatta ed ho da esso saputo che eravamo veramente in Lusazia. Un bastimento in mare almeno sa in qual parte del globo si trova e in un corpo d'armata dopo venti giorni nessuno sapeva dirlo! Che direte della mia ingenuità se vi scrivo che gli stessi generali aiutanti fanno arrivare da Vienna la gazzetta per avere le nuove dell'armata! Io lo vedo ogni giorno e me lo crederete. Il maresciallo Daun non parla mai di guerra, alla sua tavola, ove v'è sempre un luogo per me, si sta come se fossimo in città, non si nominano mai i Prussiani, non si tocca mai discorso che appartenga alla guerra. Vi assicuro che a vedere da vicino questi oggetti sono diversi assai da quello che appaiono da lontano. Noi crediamo di vedere le descrizioni del Tasso e dell'Ariosto, un'unione di eroi che avvampano per la gloria, anime passionate pel mestiere, avide d'illuminarsi, animate da principii di generosa elevazione... cassa, cassa, ipocondria, noia, schiavitù, invidia, rusticità e non altro.

Pochi giorni dopo che fui all'armata mi raggiunse il mio Federico e mi liberò dal pensiero che avevo, che se frattanto capitava una marcia non solamente dovevo farla a piedi, ma rischiavo perdere la roba mia non avendo cavalli da trasportarla. Privo di cavallo, dovevo in quei giorni fare le cinque o sei miglia a piedi, poiché distante il quartier generale più d'un miglio, vi andavo due volte al giorno se non altro per sentire se si marciava. Avuti i miei cavalli, i quali con Federico avevano fatto un giro cercando l'armata ove non era, ho cominciato a soffrir meno incomodo. Anzi ho abbandonato il quartiere così meschino e discosto, ed ho piantata la mia tenda in vicinanza del signor maresciallo: dormo assai meglio sotto la tenda che in quella puzzolenta stanza che non basta a contenermi ritto in piedi e ove una falange di mosche non mi lasciava quieto. Il giorno 29, secondo il solito, io era dopo pranzo all'anticamera del maresciallo. Egli uscì e tutti gli facemmo seguito a cavallo, si fece un gran giro per visitare il terreno all'intorno ed io non capii nulla, né trovai alcuno che mi sapesse insegnare qualche cosa; a notte ritornai nella tenda e vidi che il mio cameriere aveva già fatto impacchettare il letto e stava per spiantare la tenda. - E perché questo? gli chiesi. - Perché domattina all'aurora si marcia, rispose. - Questo è impossibile, or ora vengo dal quartier generale, nessuno parla o sa di questo. - Se non lo sanno quei signori, io l'assicuro che è così, la tenda del principe d'Anhalt è già spiantata, lo so dal cameriere del principe che è mio amico, e il cameriere lo sa per mezzo dei stallieri di sua eccellenza il maresciallo. - Imparai da quel punto a regalare i palafrenieri e stallieri del signor maresciallo, i quali ai loro buoni amici sanno dar avviso preventivo delle marce, essendo essi informati di ciò, coll'ordine che ricevono per la biada ai cavalli più per tempo e per tenerli sellati. Questi fatto non si crederebbero se venissero scritti da altri, tanto sono veramente poco ragionevoli e difformi dagli usi comuni della vita. Ricevuto quest'annunzio feci immediatamente por mano perché tutto fosse pronto, e allo spuntar del giorno il mio carro potesse essere dei primi a mettersi in fila onde in tal modo fosse anche dei primi a giungere e collocarsi al mio nuovo quartiere, il quale, come quello d'ogni altro assegnato al quartier generale, sarebbe scritto alla porta del nuovo alloggio del maresciallo. Vi confesso che nell'interno dell'animo mio ebbi in quell'ora dell'agitazione. Si marcia. Si osserva un mistero impenetrabile sulla marcia, non meno che sul luogo ove dobbiamo portarci. Verosimilmente si vuol sorprendere ed attaccare l'inimico. Forse a quest'ora domani sarò senza una gamba... Ma è il mio mestiere, son venuto qui per questo; tanti altri corrono lo stesso pericolo; vi sono alcuni che contano ventine di battaglie e sono sani; avrò piacere di raccontarlo poi, queste ragioni mi raccomodano con me stesso. Vi dirò però, che dell'inquietudine mia interna nessuno né meno i miei domestici se ne sono accorti, anzi non ho mai detto pazzie tanto buffone [come] in quella notte, effetto naturale per distrarre me stesso. All'albeggiare del giorno monto a cavallo col mio palafreniere e vado dal signor maresciallo. Fui dei primi, un'aiutante generale s'alzava allora dalla paglia nell'anticamera, chiesi ove andavamo, nessuno lo sapeva. Cessai d'interrogare a ciò che nessuno sospettasse inquietudine in me. Poco dopo giunge il generale principe di Montacoremi. Cerca da me ove si marciava! compare il maresciallo, si dice messa, si legge l'orazione per la fortuna delle nostre armi, si discende, il maresciallo monta a cavallo e tutti noi di seguito. Il maresciallo aveva avanti da sé quattro aiutanti generali e due aiutanti d'ala, poi subito dopo la sua persona eravi un trombetta poi un ussero di suo servizio, poi una moltitudine di volontarii. Il duca di Braganza, il principe Luigi di Vittemberg, un figlio del conte Kaunitz, un Lobkovitz, e una folla d'altri generali. Io povero capitano, naturalmente venivo in seguito con altri Dii minorum gentium. Nessuno sapeva ove si andasse, per il che non chiesi altro; la polve era enorme alzata da tanto calpestio; nelle marce bisogna stare attenti che i tanti cavalli, che guidano a mano i palafrenieri, non vi favoriscano un calcio. Si marciò fin verso mezzogiorno. Ebbi pena ad informarmi che il nuovo campo ove giungemmo fosse Lichtenau. Tutti quanti girammo avanti e indietro nel nuovo campo senza ch'io abbia potuto formarmi un embrione d'idea come eravamo accampati. Non ho osservato che linee irregolari, parte dell'armata fa fronte da un lato, e parte dall'opposto; non v'è uomo fra tutti costoro che capisca od abbia volontà d'insegnare a chi ha voglia d'istruirsi. Dopo questo gran cavalcare per dieci ore di seguito, io e il cavallo non ne potevamo più dal caldo, dalla stanchezza e dalla polvere. Accompagno il maresciallo sino al suo alloggio, e alla porta vedo il libro, cerco il mio nome, trovo che il mio quartiere è presso Matthias Hilber. Cerco un ragazzo che con pochi soldi mi conduca da Matthias Hilber, spero trovarvi la mia gente che mi avessero apparecchiato il pranzo, ma non erano giunti. Del pan nero e del burro che aveva il buon Matthias, furono il mio pranzo. Però mi sentivo stranamente stanco, e la mia gente di servizio tardarono a comparire sino verso sera. Mi dissero tante scuse e pretesti che non posso verificare, fatto si è che non mi hanno servito bene.

Il punto essenziale è che sin ora non ho veduto il nemico, nemmeno col cannocchiale, nessuno sa dove sta o presso a poco. Gli uni dicono che contro di noi v'è il re, altri al contrario sostengono che vi è il principe Enrico. È una vera babilonia, e, amico caro, se la cosa continua così, mi pare che questa sia veramente una vita da disperato. Non intendo né imparo precisamente nulla affatto, e tocco con mano che la massima parte degli ufficiali non ne sanno più di me. Basta, potrò almen dire e conoscere che nel mestier della guerra, il quale pare a primo aspetto sia da farsi con energia, con impeto, con calore e con impegno, realmente gli uomini sono spossati, indifferenti, annoiati e ignoranti. Hoc tantum scio me nihil scire. Se coll'andare avanti la scena muterà ve ne avviserò, e di buon grado mi ritratterò, sempre però vi communicherò i sentimenti che mi occupano.

Il signor maresciallo mi ha fa tutte le graziosità, m'ha fatto avvisare che per me sempre vi è luogo alla sua tavola; io vi vado di tempo in tempo per farmi vedere, ma mi piace pranzare colla roba mia. È accaduto che volendomi collocare alla seconda tavola, ove però vi sono gli ufficiali dello stato maggiore, sono stato tolto di là e collocato alla prima dal maresciallo istesso. Osservo che m'indirizza sempre qualche parola; sono contentissimo di questo signore, che non so come da taluni siasi creduto altiero.

Un generale m'ha lodato il mio tabacco di Spagna ed esagerava che a nessun prezzo se ne può qui trovare. Gli feci avere al suo quartiere un barattolo di due libbre. Mi ha ringraziato; in seguito non mi salutò più. Prima che io doni l'altro barattolo, me lo sapranno dire! D'inezie ne abbiamo sin che se ne vuole: vi sono merciai all'alloggio del comandante che vendono tutte le più inutili galanterie del lusso; ma se volete un paio di stivali, un cappello, del panno per servirti, un paio di guanti, ecc., non si trovano. Si vive del resto da veri cappuccini, non vedo una donna, giacché non darò questo nome alle orribili figure di quelle che vengono insieme all'armata coi vivandieri. Credo anzi che la più bella e fresca giovane in venti giorni che vivesse con noi, diventerebbe deforme dal sole, dalla polve, dagli stenti, e dal dormire vestita, oltre poi la rogna e qualche insetto che acquisterebbe. Oh, amico, quanto sarebbe mai deforme il peccato! Vi abbraccio teneramente.

Sorau, 7 settembre, 1759.

Da che vi ho scritto, poco è accaduto di nuovo, siamo marciati avanti e indietro, abbiamo accampato in diversi luoghi, a Penzig, a Rothenberg, a Priebus, a Triebel, a Muskau, a Forst, poi nuovamente a Triebel, poi a Eskerswalde, poi qui. La prima volta che ho potuto vedere i Prussiani è stato il giorno 2 del corrente. Almeno questa volta siamo stati avvisati. La sera di sabato scorso, giorno 1, al quartier generale si disse: "Domattina prima di giorno tutti i carabinieri e granatieri dell'armata marceranno verso Sorau. Li equipaggi a ruota resteranno indietro". Non v'era dubbio che dovevamo batterci, ed io mi trovai meno sensibile a questo affare che non ho lo fui l'altra volta, forse vi contribuì il non esservi mistero. Venni al mio quartiere, mi posi per tempo a letto, e mi raccomandai singolarmente a Giuseppe perché nella piccola valigia che porta il palafreniere, solo equipaggio che doveva servirmi, vi riponesse le cose più necessarie. Mi promise tutta l'attenzione, m'assicurò che dormissi quieto. L'avvertii che poteva darsi che per qualche settimana non ritornassi a vederlo, onde mi premeva d'avere il bisognevole. Che non dubitassi, che mi fidassi, ecc., fu la risposta. Due ore prima di giorno eccomi lesto, giungo col mio palafreno dal maresciallo, ci poniamo in marcia, la notte era oscurissima, ed io non travedevo che qualche raggio delle torce a vento che portavano i lacché del maresciallo; ma il gran numero dei cavalli che mi precedevano faceva sì che io andassi a caso. Spuntò il giorno che eravamo vicini a Sorau, e già cominciammo ad udire delle schioppettate. Erano i Prussiani, niente più che sei o settemila, un piccol corpo staccato dall'armata e accampato vicino a Sorau. Appena videro che venivamo sopra di loro in numero assai maggiore, i soldati più bravi dell'armata frettolosamente scamparono, ma non sì tosto poterono ritirarsi perché dovevano passare un piccol fiume sopra un sol ponte. Se da parte nostra ci fossimo contemporaneamente distribuiti ad impadronirci del ponte, erano battuti o forse presi. Io seguìto il maresciallo cogli altri, c'incamminammo sopra un'altura imminente alla città ove stava un mulino a vento. Ivi si fermò, e dalla finestra del mulino col cannocchiale stava osservando. Un certo capitano Colin, che è al quartiere generale, mi chiese cosa facevamo colà. - Non lo so per verità, risposi, io sono cogli altri. - Volete voi, mi disse, che andiamo a prendere la città di Sorau che vedete? - Prenderla? Noi due soli! - E perché no, disse; noi le intimeremo la resa, e se nessuno ci ha preceduti, avremo la gloria di questo fatto. - Così disse quel capitano. A me veramente pareva ridicolo il progetto; ma perché non sospettasse che il mio dissenso venisse da timore, mi determinai e andammo ben lesto. In breve fummo alla porta che era già aperta.- Ebbene, disse Colin, andiamo a batterci? - Andiamo, risposi, e seguendo il mio Ruggiero, c'incamminammo là ove si ascoltavano le schioppettate, e salita una riva assai alta, ci trovammo in un prato che di fronte terminava con un bosco, e nel prato gli usseri dalle due parti facevan piccolo fuoco, mentre c'inoltravamo, il Colin per pazzia, io per puntiglio, eccoti che dal bosco sbocca una turba di usseri prussiani e cannonate e una tempesta di schioppettate; i nostri usseri, che erano pochi assai, fuggono, e il mio Colin si mette a precipizio gridando in buon francese, fouttez le camp, fouttez le camp, e giù a rompicollo tutti e due da quella ripa. Appena scesi, c'incontriamo in uno squadrone di nostri usseri che venivano in buon ordine, ci accompagniamo con essi e ritorniamo al prato, fischiavano le palle da fucile, e il capitano Colin mi disse, per la pratica ch'egli aveva, che passavano di mezzo a noi con assai gentilezza senza toccarci. Noi stavamo per curiosità colà piantati come due statue equestri senza scaricar nemmeno le nostre pistole, pazienti di ricevere una schioppettata senza dovere che ci consigliasse, senza gloria. Non so cosa pensasse il Colin, forse la curiosità pura ve lo tratteneva, so che io mi trovai tranquillo e senza gran ribrezzo, il rumore delle palle da fucile non mi è spaventevole come quello della palla da cannone che mi fa terrore, ma lo nascondo. Venne una palla che colpì vicino. Oh mom ami, vous êtes blessé, grida Colin. - Io no, sarete voi, io sono sano, ecco le gambe, ecco le braccia, infatti credo che il colpo sia stato rasente terra, perché anche il mio cavallo era sano. Dopo qualche tempo i Prussiani si sono ritirati nel bosco, ed io con Colin abbiamo girato il loro campo, e i dintorni. Stanco per aver cavalcato più di undici ore senza cibo, contento di aver provato quanto possa rispondere di me, pranzai dal maresciallo verso sera a Eskerwalde, indi andai al quartiere assegnatomi. La porta della stalla era più bassa de’ miei cavalli, il mio alloggio era un fienile, delizioso per chi era stanco come lo era io. Mi congratulavo che la vista dei morti, il sibilo delle palle non mi avessero eccitati troppo vivi sentimenti nel mio animo, cerco le cose bisognevoli nella valigia, e non trovo né pettini, né fazzoletti, né camicia, né tabacco, né forbici, né rasoi. Niente insomma, di quello che mi premeva. Dovetti farne senza. Questa minuzia è stata per me un martirio, e bisogna veramente avere delle gran bestie scortesi al suo salario per essere assistito come lo sono io, singolarmente da Giuseppe. Soltanto l'altro ieri giunsero gli equipaggi, andai loro incontro, e veduto finalmente il mio carro, non dissi altro se non che in avvenire saprei quanto fidarmi della loro attenzione, e nominai le cose che mi mancavano. La sera mentre cenavo nel mio quartiere non vidi Giuseppe, ne feci ricerca, né mi si diceva il motivo perché non veniva. Seppi che era in un orto attiguo, lo ritrovai coricato e involto nel tabarro, lo chiamo, non risponde, gli do un colpo o due di canna, allora si scuote, è la prima volta che fui obbligato usare di questa eloquenza con costui. Indovinate cosa mi rispose. Disse, questa sera io sono a Brescia e domani a Milano, e non gli potei cavare altro di bocca. Costui o era pazzo od ubriaco, il giorno dopo aver concertato di rimandarlo spesato in patria col mezzo dei direttori del treno dei muli, mi si gittò in ginocchio, pianse, supplicò, insomma mi fece compassione, ed ho fatta la pazzia di lasciarmelo vicino ancora. L'imbecille teme d'esser fatto prigioniero dai Prussiani, e che lo faccian tamburino e lo bastonino, sempre invoca i morti di San Bernardino e trema, davvero dubito che diventi pazzo del tutto. Son pure stato buono a prendermi per Sancio pancia un decano della signora marchesa Litta!

Ho provato una sensazione affatto nuova prima dell'affare di Sorau. Dacché ero all'armata, non avevo veduto niente di bello e d'elegante. I miei quartieri erano un miserabile granaio, al quale si ascendeva con una scala a mano, ove il tetto mal rattoppato mi faceva piovere sul capo mentre dormivo, e dove non poteva muovermi per le sconnessure del pavimento. Anelo l'alloggio del maresciallo, se ben sia la casa più degna del luogo, è meschino. Dopo un mese di visita unicamente di questi oggetti, passiamo a porre il quartiere generale in una villa mediocremente ben fatta; il passeggiare da solo per qualche viale, il mirare i verdi tappeti ben fatti che lo costeggiano, mi fecero provare nell'animo un'emozione deliziosa. Credo che i villani ne provino di simili, se pure la mia delizia non nasceva dalla grata illusione di credermi per un momento in Italia, di che non saprei darvi buon conto; pare che i beni e i mali si compensino, e che la consolazione consistendo nel passare ad uno stato migliore, sia anzi più facile il provarne di più vive, quanto più infelicemente viviamo.

Mi è accaduto qui un caso assai strano, come sono quasi tutti i casi che capitano in questa società formata dal rifiuto delle altre. Stavo qui sulla piazza di Sorau in circolo con cinque o sei alti ufficiali, e fra questi il tenente colonnello conte Origo, che da molti anni conosco. Mentre pensavo a tutt'altro, ecco che entra nel circolo un ufficiale col petto gallonato, che con viso arcigno mi squadra dalla testa ai piedi, e mi domanda se sono del reggimento Clerici. - Sì, signore, rispondo. - M'avvedo bene, diss'egli, che lei è un ufficiale che non sa il suo dovere, perché non s'é presentato a me che sono il maggiore del reggimento. - A tale improvvisata mi montò il sangue alla testa. Non avevo mai veduto colui, secco secco gli risposi che non sapevo cosa si volesse dire, che non dipendevo che dal signor maresciallo, e che né conoscevo lui, né mi curavo di conoscerlo. Origo mi prese pel braccio, mi trascinò in disparte dicendomi che col superiore si ha sempre torto, che per amicizia m'avvisava di dissimulare e non cercarmi un affare; che le leggi militari condannano nella testa chi sfida un suo superiore, ecc. Non dissi altro, ma sottrattomi subito da Origo, cercai il maggiore, che frattanto stava sulla piazza contrattando delle erbe, gli lasciai fare il contratto, poi me gli accostai senza testimoni, e gli dissi che non avrei sofferto d'essere maltrattato da lui, e che s'egli aveva piacere d'intendersela con me, ero pronto. Colle sue erbe in mano voleva provarmi che un capitano è obbligato a questo e a quello; non volli sentir altro, e gli dissi che ogni volta che mi voleva, io stavo di quartiere al tal sito, ove ora sono. Gli voltai le spalle e fu finita. Oggi ho veduto il maggiore stesso venire alla volta del mio alloggio. Sopra di me dimora uno che fa spade, ivi egli è salito, al suo discendere mi affacciai alla porta affinché mi passasse davanti e mi vedesse, ha cavato il cappello, e pare affare finito. Ma che razza di bestie! Questo maggiore si chiama Brady, è un irlandese che si ubriaca tutte le mattine, ed ha già avuto un processo per altre brutalità. Perdinci, al reggimento non vi tornerei per tutto l'oro, nemmeno se m'avessero a far generale dopo un solo anno di pazienza. È una maledettissima compagnia. Vi abbraccio e sono.

Bautzen, 15 settembre, 1759.

Delle notizie della guerra non mi impegno a scrivervi. Primieramente, son tanti i corpi in moto, Daun, Laudon, De Ville, Buccow, il re, il principe Enrico, i Moscoviti, l'armata dell'Impero; tanti pezzi che giuocano a scacco, io conosco appena i movimenti di quel pezzo in cui sono collocato, né vi potrei dare alcuna idea interessante delle cose attuali. Mi pare di avervi già detto che i generali, gli aiutanti generali fanno venire le gazzette da Vienna per sapere le cose della guerra, vi rimetto dunque alla sorgente istessa. Io vi comunicherò solo le mie idee nate dalle cose che vedo ed osservo, elleno sono assai più minute, ma le loro conseguenze diventano grandi in un uomo che ragiona. Innanzi tutto adunque vi dirò che ho trovato un uomo, e coll'opera di lui comincio ad intendere qualche cosa. Il caso ha fatto che mi trovassi in piccola compagnia con un ufficiale affamato, che avendo corso tutta la giornata, pranzava; la sua figura non ha niente di singolare, ma tre o quattro proposizioni che gli sfuggirono, e il tuono ragionevole e ingegnoso col quale le disse mi scossero. M'accostai a lui, cominciai ad entrare in dialogo, e m'avvidi che anche il mio umore non gli spiaceva. Gli confessai che ero felice d'aver incontrato un essere ragionevole, e dissi vestigia hominum video. La nostra amicizia fu presto incominciata. Egli è inglese, ha vissuto molto in Italia e nella Spagna, e ne conosce assai bene le lingue oltre la sua nativa, ed il tedesco che s'insegna di parlare. È tenente, e tenente nel più miserabile reggimento dell'armata, il suo nome è Lloyd, non ha ancora trent'anni, è d'una singolare penetrazione d'ingegno, d'una serie di cognizioni che sorprende, uomo pieno di coraggio, deciso, umano, generoso, non finirei di dirvi la stima, l'ammirazione e l'amicizia che ho per lui. Vi dirò come egli è all'armata. È nato nella contea di Galles, da giovane uscì dalla sua patria disgustato d'un tutore che aveva sposata la vedova sua madre; non credo che sia né ricco, né molto nobile. Da ragazzo passò a Berlino, s'innamorò d'una ballerina, ebbe guai e se ne partì venendo a Venezia. I debiti che vi contrasse e ai quali non poteva soddisfare lo posero in situazione assai triste, e i Gesuiti lo cavarono d'intrigo tacitando i suoi creditori, poi lo mandarono a Roma nel Collegio Inglese, ove s'abbandonò allo studio. Terminato il corso, non volendo egli farsi gesuita come avrebbero desiderato, ritornò a Venezia raccomandato all'ambasciatore di Spagna, che gli si affezionò, e di lui si prevalse come secretario, poi, per fargli una fortuna, lo mandò in Spagna raccomandandolo al marchese de Las Minas, governatore della Catalogna. Visse in Barcellona assai bene col marchese, che, non potendogli dare un impiego se non nel militare, lo appoggiò a Madrid al signor Watt, secretario di gabinetto del re cattolico. Ivi lavorò, si guadagnò la grazia del ministro, che lo lusingava volerlo spedire secretario d'ambasciata, ma passarono due occasioni e Lloyd si vide preferito; non volle più sperare alla Corte, ritornò a Barcellona, e dal marchese de Las Minas, che lo stimava, ottenne di essere ufficiale negli ingegneri militari. Allora si consacrò totalmente allo studio e meditazione sulla guerra. Non c'è autore di questa materia del quale Lloyd non sappia render buon conto. Eruditissimo nella storia, egli trova le somiglianze e dissomiglianze fra le attuali posizioni e quelle del tal romano, del tal cartaginese, greco, ecc. Fatto si è ch'egli ebbe uno studio profondo nell'arte della guerra, dell'artiglieria, tattica, fortificazione, ecc. Scoppiata la guerra in Germania, aspettava che il suo re prendesse qualche partito, e che la guerra diventasse universale come credevasi; ma vedendo ch'essa era ristretta in Germania, chiese al marchese d'essere raccomandato nell'armata austriaca, ove aveva desiderio di vedere in pratica il mestiere e tentare la fortuna. Ebbe soccorso e due lettere di raccomandazione, una al principe di Lichtenstein, l'altra all'arcivescovo di Vienna monsignor Migazzi. Le presentò a Vienna quest'inverno scorso, ed ottenne l'amicizia d'entrambi, anzi a segno quella dell'arcivescovo, che lo volle alloggiato presso di lui. I suoi due protettori gli diedero lettere per l'armata dirette al generale Lascy, che è generale quartier mastro ed ha sotto di sé un corpo d'ufficiali. Lascy è assai sprezzante, ma ha buone qualità. Lloyd viene ricevuto in mezzo ad un circolo di ufficiali, e presenta le sue lettere, Lascy le legge, e poi gli dice che l'avrebbe fatto tenente nel reggimento Staps. Lloyd sapeva già che quel reggimento, composto di invalidi, era destinato a custodire i bagagli dell'armata. Risponde adunque ch'egli non ha fatto trecento leghe di viaggio per custodire li equipaggi dell'armata. - Cosa dunque è venuto a farvi, disse Lascy. - Ad imparare il mestiere della guerra, risponde Lloyd. - Allora, con tuono derisorio replicò Lascy, cosa intende ella pel mestiere della guerra? - Intendo, rispose Lloyd, quello che suppongo Vostra Eccellenza sappia. - Allora Lascy con amara ironia terminò col dire che non aveva impiego per un uomo di tanto merito. Figuratevi che Lascy è un vero bascià a tre code, temuto, ossequiato, al quale nessuno oserebbe replicar parola. Tutto il circolo degli ufficiali stava in silenzio, attoniti per questo dialogo. Il mio Lloyd, che si vede insultato, con tuono deciso e tranquillo terminò col dire: - Signore, voi non mi conoscete, forse non ho verun merito, ma fors'anco ne posso avere più di voi. - Ciò detto, gli voltò le spalle, e se ne partì per cercare al maresciallo Daun un passaporto e ritornare a Vienna. A Lascy, sebben piccato, piacque la risposta, andò al quartier generale, ritrovò Lloyd, se gli accostò chiedendo a che fine fosse ivi, e Lloyd glielo disse. Lascy soggiunse che s'egli aveva piacere servire sotto di lui, l'avrebbe accomodato, che accettasse un posto di tenente, il solo vacante che potesse dargli, e che l'avrebbe dispensato dallo stare al reggimento, lasciandolo servire sotto di lui, e così fu accomodato. Da questo succinto abbozzo d'un romanzo, conoscerete che Lloyd è uomo non volgare, d'una impazienza somma e d'una libertà di parlare egualmente grande: questi sono i due difetti ch'io gli conosco, difetti che pregiudicheranno alla sua fortuna, se non si modera.

Ora che v'ho fatto il ritratto del mio amico, non già ciecamente su quello che di lui mi fu detto, ma sulle informazioni che ho avute d'altre parti, vi dirò che egli ne sa incomparabilmente più d'ogni altro che v'è al campo, e sebbene sia un povero tenente senza nome e senza soldi, vedo che il generale Montazet, francese, il duca di Braganza, il principe di Vittemberg e quanto v'è di più illuminato, cerca di ragionare con Lloyd sugli affari nostri e prevedere, conoscere e definire le cose dell'armata co' suoi lumi. Lloyd conosce che pochissimi capiscono cosa si faccia o cosa facciano. Io cavalco seco girando il paese, ora passiamo davanti la nostra armata ed egli mi dà idea dei vantaggi e svantaggi delle posizioni in cui siamo, come nel tal luogo siamo forti, deboli nel tal altro, cosa potrebbe fare il nemico per vantaggiosamente attaccarci, cosa dovremmo far noi, ove egli avrebbe preferito accampare, come e perché. Poi scorriamo a conoscere il terreno fra noi e il nemico, visitiamo i posti avanzati dei Prussiani, egli entra nei particolari con una chiarezza e maestria, che mi solleva l'animo, e più ho imparato in un'ora col mio Lloyd, che non avrei fatto da me in un anno fra mezzo a questi ufficiali. Lloyd ha passione per la guerra, è instancabile. Dopo aver localmente osservato e ragionato da uomo superiore, egli sa valutare sotto un sol colpo d'occhio i reciproci movimenti di questa campagna, rilevarne il bene e il male fatto, ragionare sulle teorie della guerra. Ora comincio a vivere all'armata, perché vedo che ottengo il fine di istruirmi, sia ch'io continui a fare questo mestiere, sia che l'abbandoni, sempre mi gioverà il conoscerlo ed averne una idea.

Il modo col quale si fa da noi questa guerra è certamente un vero disinganno per chi abbia entusiasmo di mestiere. Il maresciallo, secondo tutte le apparenze, ne sa pochissimo, e lo prova anche la sua ritenutezza nel non parlare mai di guerra. L'amor proprio di ciascuno lo porta naturalmente a mettere in mostra il buono che ha, e quando nel cuore v'è una passione è necessario che sbucci. La continua riserva è una continua dimostrazione di mancanza d'energia e di cognizioni. Il maresciallo s'è acquistato un gran nome con la vittoria di Kollin. È stato il primo che ha battuto il re Federico; ma a saper le cose come sono, questa gloria svanisce. Alla battaglia di Kollin il maresciallo aveva già comandata la ritirata, e la vittoria era pei Prussiani. Un reggimento fiammingo, piccato contro i Tedeschi che lo deridevano perché non stava esattamente in linea retta, e le sue armi non erano tanto lucide quanto le austriache perpetuamente strofinate; questo reggimento, dico, per un movimento spontaneo, mal soffrendo di non aver combattuto e che il nemico non fosse mai venuto a quella parte, attaccò una colonna prussiana di fianco. Cominciò la colonna a piegare, altri reggimenti vennero spontaneamente dietro ai Fiamminghi, mossi unicamente dai loro comandanti, furono battuti i Prussiani, dovettero ritirarsi, e la vittoria immortalò Daun, e Praga fu liberata, e liberata tutta la Boemia. Ciò dipendette dalla direzione del maresciallo Daun quanto dalla mia. Ebbe il maresciallo il frutto, per la passione d'un fiammingo di farsi stimare dagli Austriaci, e quel fiammingo avrebbe meritato un processo per aver agito a proprio capriccio, e altrettanto ne meritavano i colonnelli che lo seguivano.

L'anno passato il maresciallo ebbe nuovo titolo d'onore colla sorpresa di Hochkirch, ma tutto il progetto era di Lascy, e il buon maresciallo nel tempo della sorpresa andava interrogando se si credeva che quell'affare avrebbe prodotto qualche cosa di buono. Io vi presento gli uomini quali sono, e come io stesso sono passato dalla meraviglia al disinganno, così passatevi voi pure. Daun che si trova così bene assistito dalla fortuna, credo che non vorrebbe battersi più. Se dalla Corte gli venisse dato pien potere, credo che sarebbe inconsolabile, perché i suoi fautori non potrebbero attribuire alla dipendenza della Corte la lentezza colla quale si fa da esso una guerra offensiva. Si tratta non di difendere i nostri Stati, ma d'acquistare la Slesia, e per acquistarla noi stiamo sulla porta! Certamente quando il re comanda ei stesso le sue truppe, ogni soldato si batte con più impeto, e sopporta i mali con pazienza, animato dalla speranza di far la sua fortuna sotto gli occhi del suo re. All'incontro da noi prima d'approfittare d'una occasione, conviene aspettare l'ordine della Corte, e tutto languisce, cominciando dal comandante, discendendo sino al fantaccino. Sin ora non abbiamo fatto che una finta d'andare nella bassa Lusazia, poi ai confini della Slesia, poi ritorniamo nell'alta Lusazia, accostandoci a Dresda. I nemici non gli ho veduti più a far schioppettate con noi da Sorau a questa parte. Le sentinelle avanzate prussiane sono così umane, che quando con Lloyd ci accostiamo di troppo, ci avvisano di ritirarci senza offesa alcuna. Veramente l'uccidere un uomo o due non cambia la cosa, ognuno di noi siam quattrini in un tesoro, non val la pena di sottrarveli. Così ci calcolano costoro, io però e Lloyd protestiamo altamente, e siam persuasi di valere di più.

In questi contorni di Bautzen (che nelle carte si scrive anche Badissin, ora in tedesco e ora in lingua schiavona che si parla dai villani) si trova una piccola società d'uomini che merita osservazione. Ve ne dirò qualche cosa. Nella Moravia si formò una setta che somiglia ai quaccheri cristiani che non hanno simbolo, non sacerdote, non sacramenti. Fanno professione di non dire mai il falso, di non offendere mai il prossimo, d'assistere i poveri e adorar Dio. Vennero perseguitati in Moravia, e ottennero dall'Elettore di Sassonia di ricoverarsi in Lusazia poco da qui discosti. Venne loro assegnato uno spazio di terreno incolto e deserto. Ottennero il privilegio che non avrebbero avuto né presidio militare, né giudici, ma avrebbero ivi goduto delle libertà, non solo d'esercitare la loro religione, ma altresì d'amministrarsi civilmente la giustizia, mediante, credo, un annuo fisso tributo.

Questi, che si chiamavano Fratelli Moravi, fabbricarono un borgo in breve tempo, con case gentilmente fatte, ma senza fasto. Fu chiamato Hernhutt. Il vicino territorio fu in breve coltivato. La maggior parte di questi Ernuttesi fa il mercante, e voi trovate da essi la più eccellente mercanzia utile in ogni genere, e nessuna di vanità o di lusso. Telerie eccellenti e sopraffine. Panni d'Inghilterra i più perfetti. Pellicce le più belle del nord e dell'America, cuoi, stivali, ecc. Mandate un bambino a comprare o andate voi è lo stesso; comprate o lasciate, vi viene detto precisamente il prezzo. Questi hanno i loro fratelli già sparsi pel mondo, alle Indie orientali, all'America, in Olanda, a Londra, ecc. Staffe d'oro, merletti, galloni d'oro o d'argento non ne trovate, bensì tutto il liscio più elegante. Quasi tutti sono ammogliati. Se hanno mezzi e volontà di custodire i figli ed allevarli, sono padroni; se vogliono deporli nella casa di fanciulli, lo possono. In queste case pubbliche è somma la decenza e l'attenzione nell'educarli, a loro niente manca perché stiano sani e siano ben allevati. Alla loro tutela, sinché sono bambini, vegliano le donne rimaste vedove, le quali hanno un decente e libero ricovero in quelle case ove sono mantenute di tutto. Esse hanno cura dei bambini; cresciuti ad una età di sette ad otto anni, passano ad essere educati in un'altra casa, ove a questo fine vengono mantenuti uomini savii, capaci di bene allevarli, e questi sono quei fratelli, che mancando di mezzi di fare il commercio, sono mantenuti a pubbliche spese. V'è un'altra casa per le zitelle, allevate pure con la direzione delle vedove. Non crediate già che siavi né la povertà, né la schifezza degli ospitali, la società non è numerosa, lo spirito della sua setta è fresco e vigoroso, il loro commercio li rende ricchi, il lusso e la pompa non disperdono le loro ricchezze, quindi di buon grado s'impone ogni abitante la tassa d'un tanto per cento sugli utili del suo negozio, e questa serve al mantenimento di queste pubbliche istituzioni. Un giovine che allevato che sia sa leggere, scrivere, e qualche mestiere, trova da servire come garzone presso qualche artigiano o mercante, e se ha condotta unisce bastantemente per negoziare poi da sé. È incredibile il numero de’ Sassoni e Boemi che vengono a lasciare il loro denaro a questi industriosi repubblicani. Se un giovine si dispone a prender moglie, è ammesso all'albergo delle zitelle, e dopo qualche esame può scegliere, e se la figlia acconsente, ella è sua moglie. Anche nelle case private può far ricerca di una moglie. Il costume di questi Ernuttesi è puro. Non si ha idea d'infedeltà coniugale, è quello che da noi si considera come una piacevole galanteria, farebbe orrore e sembrerebbe un tradimento presso questi buoni uomini. Ognuno vive nella casta unione del matrimonio. Del libertinaggio non v'è ombra alcuna. Nemmeno si dà il caso che uno dica ad un altro un'ingiuria, ma si trattano con una dolcezza e amorevolezza l'un l'altro, e s'aiutano come fratelli ed amici. se nasce qualche differenza fra di essi o per affari di negozio o per cose di famiglia, v'è un conte di Zinzendorf, che vive con essi, è della stessa religione, ed ha fuori le sue rendite e questo saggio signore arbitra, accomoda, tutti stanno alle sue decisioni unicamente per una stima personale che hanno di lui. La loro religione, come dissi, consiste principalmente nelle buone azioni, soccorrere i loro fratelli, essere fedeli, veridici ed esatti. La domenica si radunano in una sala senza imagini, so che non hanno né pastore, né parroco, né prete, non so poi se cantino o predichino. In fine, vi dirò che la virtù di questa gente ha sparsa tanta opinione, che, sebbene le armate nostre e dei nostri nemici siano spesse volte girate intorno a loro, alcuno non ha mai osato violare il loro tranquillo e rispettabile asilo. Sino a che le istituzioni son vicine alla loro origine, e non siano molto dilatate, quando abbino una base di vera virtù, abbelliscono la natura umana, e la fanno esistere bella e senza vizi. Non vi ho parlato di carceri, sgherri, di pene di questa giovane repubblica che non le conosce, né ha idea che di scacciare dalla sua società un cattivo membro, se mai col tempo alcuno se ne trovasse. Per ora sono stanco, e vi abbraccio.

Host in Sassonia, 8 ottobre, 1795.

Dai fogli pubblici avrete osservato che il secreto del nostro piano di campagna era di vincere col sangue dei nostri alleati e risparmiarci; in fatti i Moscoviti, credendo alle nostre finte, si son bravamente battuti; noi dovevamo cader sopra al re, uno o due giorni dopo la rotta, approfittare dello sconcerto della sua armata, e non abbiamo mai fatto niente da vero. Mentre stavamo avanzando, ritirando il quartiere, un errore del generale De-Ville ci ha obbligati a correre per salvare Dresda. De-Ville comandava un corpo staccato di diecimila uomini, fu collocato per riparare Dresda dalle invasioni che potevano farsi dalla Slesia. Si appostò senza alcuna precauzione. Un sergente non collocherà trenta uomini, senza porre prima uno o due in sentinella avanzata verso il nemico, almeno per avvisarlo quando possa essere attaccato. Un corpo di diecimila uomini stacca sempre qualche compagnia che stia ai posti avanzati, e da questa vi staccano sentinelle ancora più vicine al nemico, in modo che dai colpi di fucile sia avvisato dall'avanzarsi del nemico, prenda le disposizioni e si metta in istato di riceverlo e respingerlo. De-Ville aveva dimenticato tutto ciò. Una banda di Prussiani s'avanzava per attaccarlo, non per riconoscerlo. Questa cade immediatamente sul campo. Sorpresi i nostri e il De-Ville, non ebbero tempo d'esaminare quanti fossero i nemici, tutti si precipitarono sbandatamente in fuga, e obbligarono l'armata a venire nei contorni di Dresda ove era l'armata dell'Impero, se pure merita il nome d'armata. Ho veduto Dresda un momento; ma da che ci avanziamo alla volta di Vittemberg, ogni giorno vediamo il nemico che si ritira a piccole marce, e noi a piccole marce andiamo seguendolo. Tutto il giorno si fanno schioppettate fra i nostri usseri e Prussiani, e sempre, grazie al cielo, rimangono sani e salvi. L'ussero non ammazza mai un ussero, né un cannoniere un cannoniere, credo abbiano un patto di famiglia e gettino la polve al vento.

A Dresda si sono uniti con noi i due principi reali di Sassonia, Alberto e Clemente; è qualche cosa di grande pel maresciallo vedersi corteggiato uno per parte da simili volontarii. Oltre il principe Luigi di Vittemberg, il duca di Braganza e altri signori della prima distinzione, il maresciallo ha per la sua persona una guardia del corpo d'usseri e cacciatori, e al suo alloggio una compagnia di granatieri. L'imperatore non ne avrebbe di più se fosse qui in persona. La subordinazione lo rende superiore a tutti, e si vedono i principi reali fargli i rapporti col cappello in mano, mentre egli sta coperto. La guerra ritorna gli uomini allo stato di natura, il più forte comanda, chi ha bisogno cerca la benevolenza; questi due principi, dei quali il paese è in preda alla guerra, senza tributi, senza sudditi, senza armata, sono costretti a vedere sotto i loro occhi depredate le loro contrade, e inutilmente compiangere la sventura de’ suoi. Vi dirò un aneddoto. A Dresda mi fu mostrata la porta dell'archivio, sulla quale la regina in persona voleva opporsi all'ufficiale prussiano incaricato di estrarre alcune carte originali, ma inutilmente adoperò l'incanto della maestà regia, perché l'ufficiale aveva troppi precisi ordini, e il re Federico vuole esattezza. L'aneddoto è questo. Il ministro imperiale a Berlino era, come sapete, il generale conte Puebla, al quale dalla nostra Corte era stato assegnato per secretario di delegazione il Veingarten. Puebla non era tranquillo sulla fedeltà di questo secretario, infatti costui tradì la Corte, e svelò al Gabinetto prussiano il trattato che era sul tappeto fra la Moscovia e il re di Prussia e noi per la Slesia. Questo filo bastò perché i ministri prussiani a Pietroburgo, a Vienna e a Dresda fossero avvisati di scoprirne l'oggetto. Il ministro prussiano a Dresda aveva un abilissimo secretario, questi fece lega con un secretario di Gabinetto di Sassonia, onestissimo, fedelissimo, ma per sua sventura dato al giuoco ed alle donne. Il prussiano aspettò che il sassone avesse fatta una perdita e fosse inquieto per comparir puntuale, e gli esibì denaro in prestito. Poi l'amicizia sempre più stringeva, si passava a cene deliziose con belle e facili fanciulle, e così voluttuosamente il povero sassone si trovò d'aver contratto un debito sensibile. Fece perdite, e il prussiano si mostrò afflitto per non aver più di che soccorrere il suo amico, lo lasciò per qualche tempo in pena, poi gli propose l'espediente di ricorrere al ministro di Prussia suo principale, essendo egli uomo che aveva del denaro e inclinato a far piacere. Questa proposizione sbigottì il buon secretario sassone, al quale fece senso, essendo il Gabinetto in un geloso ufficio di Stato, di poter comparire legato con un ministro estero e singolarmente d'un vicino gelosamente osservato come il re di Prussia. Ma il bisogno, l'inopia d'altri mezzi, la fiducia nell'apparente buona fede di quel secretario che credeva suo amico, la speranza di sanar tutto con miglior fortuna al giuoco, gli fecero sorpassare il passo e ricevette soccorso in prestito dal ministro prussiano. Legato che fu, forse anche con replicate somme, la scena cambiò. Il secretario prussiano cominciò a chieder la restituzione in nome del suo principale; fingeva dispiacere di questo e gettava tutta la colpa sul ministro, pretestava i motivi del bisogno che il ministro aveva del denaro, e gradatamente dopo alcune settimane venne all'intimazione che se non pagava la somma, il ministro avrebbe trovato modo d'esser pagato. A questo colpo il secretario sassone si vide perso. Se avesse almeno avuto vigore d'animo, egli stesso doveva confessare al conte di Brühl il suo fallo prima di lasciarsi trascinare a perdere la sua virtù e sacrificare il dovere e tradire il sovrano; ma fu timido, e le anime timide sono le più disposte a far male. Nella desolazione in cui si trovò, gettossi ciecamente nelle braccia del suo finto amico, che destramente lo condusse dove voleva, cioè, che il ministro prussiano potesse essere introdotto nell'archivio, soltanto per un momento al fine di conoscere un tal nominato dispaccio (e questo era di nessuna importanza), gli prometteva che avrebbe lacerato ogni suo vaglia e tutto sarebbe finito. Gli spianò ogni difficoltà sul modo dell'esecuzione, l'ora, la strada, il mezzo cauto e sicuro furon trovati, fu indotto il sassone a questa rea condiscendenza. Posto che ebbe il piede il prussiano nell'archivio, cercò invece gli scaffali nei quali eranvi i dispacci del conte di Flemming ministro di Sassonia a Vienna; vi dimorò quanto gli piacque, fece le annotazioni che volle, e il sassone smarrito non poteva più né ritrarsi né dir ragione, dovette lasciar fare, ed ecco che il re di Prussia, nell'invadere la Sassonia, poté dar ordine al suo ufficiale di prendere dal tal scaffale, al numero tale, la tale e tal carta, che si ritrovò esattamente, e queste carte originali le fece poi dai suoi ministri alle Corti dell'impero vedere, e giustificare come fosse ordita la trama di spogliarlo della Slesia, e la guerra fosse difensiva per parte sua, come poi pubblicò anche colla stampa quei documenti nel suo Mémoire raisonné. Quest'aneddoto potrebbe servire ad ammaestrare gli uomini che sono mal sicuri contro qualunque eccesso, tosto che smoderatamente si abbandonino al giuoco, e che la virtù e l'onestà si perdono colla debolezza e coll’incauta docilità anche da chi abbia un'ottima ed onorata indole. Io deploro il povero secretario sassone, disonorato ed in preda ai rimorsi. S'egli fosse stato un uomo perverso, non avrebbe né rossore, né rimprovero al suo cuore; era buono e virtuoso, e perciò è più miserabile, e degno di compassione.

Il maresciallo è sempre dello stesso umore, quando si è presso di lui non si parla mai di guerra. Son sempre ben trattato alla sua tavola e m'indirizza qualche parola. Nei calori dell'estate scorsa alcune volte al dopo pranzo usciva a capo nudo e pelato, senza parrucca o berretta, con un giubboncino di tela bianca slacciato il collo, e sedeva circondato da vari dei primi signori e generali che stavano in piedi. Veniva il maresciallo a prendere una gran tazza enorme di sorbetto di limoni senza che ne venisse offerto a nessuno, e godendo delle ciarle che si facevano si rinfrescava, mentre io mi sentivo un'impetuosissima voglia d'avere un sorbetto. Ma come trovare ghiaccio in un miserabile villaggio. Dopo il sorbetto beveva una caraffina di tockay. Il costume non è cortese, poteva prendere da solo nella sua stanza quella delizia, senza farla invidiare a tanti galantuomini. Ma la società austriaca non riflette delicatamente, né fa economia di sensazioni disgustose agli altri. Il mio Lloyd è il mio mentore, la mia consolazione, più lo conosco e più lo stimo ed amo, egli ha dell'amicizia per me; mi son distaccato da alcune mignatte di capitani che avevano amicizia col mio cioccolatte e col mio cuoco, per disfarmene ho dovuto chiaramente dir loro che se n'andassero perché volevo pranzar da solo. Questi parassiti ruinerebbero al pari degli altri, né vi consolerebbero colle apparenti officiosità dei nostri. Lloyd è sommamente generoso, è povero, ma è indifferente a vivere con un pezzo di pane. Il Lascy lo adopera assai, ultimamente l'ho veduto incaricato a far fortificare un sito, egli portava le fascine, adoperava la zappa, travagliava come i soldati che erano sotto i suoi ordini, e li chiamava fratelli, lavorava allegramente, rallegrava gli altri, e sotto di lui in un giorno s'è fatto quello che un altro avrebbe fatto in tre o quattro. Giriamo il paese, visitiamo le posizioni, ragioniamo sulla guerra: dico ragioniamo, perché sebbene io senta la gran distanza che v'è fra le sue cognizioni e le mie che cominciano, sento però che principio a ragionare. Ma vi ripeto che sono rarissimi coloro che all'armata sappiano cosa sia la guerra e cosa si faccia. Vi abbraccio, addio.

Schilda, 1 novembre, 1759.

Son già dieci giorni che siamo immobili in questo quartiere, passo a passo siam giunti sin qui. Il nemico è accampato a Torgau contro di noi, che siamo appostati prima a Belgern, poi qui, ma si dice che non è visibile da vicino, sta sopra una costa elevata, ha davanti delle paludi, ai due fianchi l'Elba e un'altra cinta di boschi.

Lloyd vorrebbe dar fuoco a quel bosco di piante resinose, aspettare che il vento spingesse il fumo nel campo, ha designato come attaccarlo; ma le sue idee sono idee d'un povero tenente. Abbiamo distaccato il duca d'Aremberg, con diciottomila uomini, che si è appostato dietro al nemico a Dommitzch, ma i Prussiani hanno libera la riva diritta dell'Elba e non s'imbarazzano d'essere fra due, attesa la vantaggiosa situazione del loro campo. Giorni sono è accaduto che l'aiutante del duca d'Aremberg, è stato fatto prigioniero dai nemici, mentre dall'armata andava a portare al duca le lettere della posta. Il principe Enrico, ricevute queste, ed osservato il sigillo della duchessa d'Aremberg, spedì un trombetta al corpo del duca colla lettera e due righe, nelle quali gli diceva che, sebbene avesse prese coll'aiutante le sue lettere, non voleva differirgli la soddisfazione d'avere nuove della duchessa sua sposa, giacché era informato dei rispettabili sentimenti che li univa. In questa guerra si vedono altresì dei tratti d'umanità. Tutto il bene che si può fare ai nemici senza pregiudicare la causa, si fa. Se un servitore mi ruba e va al nemico, con una trombetta si passa l'avviso, e reciprocamente si consegna. I nostri prigionieri erano ben trattati nei primi anni a Berlino e dovunque; ma avendo poi il re di Prussia saputo che i suoi si confinavano nel Tirolo, non si tolleravano in Vienna, ed erano maltrattati, cambiò metodo; però non si può dire che siano maltrattati. Qui non v'è opinione né stabile, né ragionevole sul conto del re di Prussia, è un asino e peggio se occorre. Nel momento però che abbiamo un minimo rovescio, tutti ammutoliscono e si guarda il re come un gran soldato, e si teme. Un gran soldato lo è certamente, e lo dobbiamo dire per nostra riputazione, giacché resiste alla Francia, Austria, Moscovia, Impero e Svezia collegati, contro di lui, e attualmente non possediamo un palmo del suo.

Da che v'ho scritto mi son più volte trovato nella piccola guerra che i posti avanzati fanno a Belgen. Mi son trovato in mezzo alle nostre batterie di cannoni e quelle dei nemici. La curiosità mi spinse ad accostarmi verso il villaggio di Benewitz, che se ne disputavano il possesso una banda di Prussiani e dei nostri; a mezza strada cominciò a sentirsi lo scoppio alle spalle del nostro cannone; dopo un momento si sentì di contro la risposta e il muggito delle palle sulla mia testa, la musica rinforzava d'ambe le parti, e ingenuamente vi dico che niente mi piaceva. Quel rumore della palla di cannone ha del ferale, e bisogna ch'io faccia uno sforzo per resistervi, ma erano con me altri ufficiali; incontrammo il generale O'Donnel, che disse: - Costoro ci hanno preso di mira. - Il vicendevole impegno ci ha tenuti tutti fermi e tranquilli, sebbene continuasse vivamente la musica. Io solo ho saputo che avevo assai timore, ma intanto distribuivo tabacco, e il capitano Castelli, aiutante di O'Donnel, ne prese e mi parlò, credo che allora avesse tanto pensiero di sé che nemmeno dopo gli potei far risovvenire d'avermi parlato. Bel bello il generale s'incammina verso i nostri, e tutti noi lo seguimmo con eguale gravità sotto il continuo muggito di queste palle, che credo non passassero lontane. Un movimento naturale mi avrebbe costretto ogni volta a piegarmi sul collo del cavallo; ma la brama dell'opinione mi faceva star ritto come un palo. Quando ne fui fuori, dopo un buon quarto d'ora di questa faccenda, v'assicuro che mi trovai ben contento. Mi direte perché mi vado esponendo così alla ventura, sebbene non lo debba fare che in seguito al maresciallo; vi rispondo che l'occasione porta di essere in compagnia, e quando uno propone d'andare per curiosità, non mai bisogna farsi desiderare; non vorrei che per essere io più civile e ragionevole di costoro, mi credessero di minor coraggio, la mia cortesia nasce da scelta educazione e da principii, non da timidezza. Eccovi il secreto. Il maggiore del mio reggimento comanda un distaccamento di granatieri, quando il maresciallo cerca il mio cannocchiale che è eccellente e quasi sempre lo cerca per osservare il nemico, il maggiore cerca di formarsi un crocchio con un cannocchiale di Venezia di cinque o sei paoli, e pare un saltimbanco cercando di screditare il mio in confronto del suo. Vedete che vendetta! Fatto sì è che nessuno degli ufficiali del reggimento vedonsi al quartier generale, non osano mostrarsi e vivono nel loro covile, annoiatissimi fra gli annoiati, sapendo nulla di ciò che accade e non conosciuti da alcuno. Il bel mestiere che avrei fatto, se non otteneva di essere collocato dove sono! Il quartier generale è veramente la Corte dell'armata. Credo che l'accoglienza fattami dal colonnello, e la bella cortesia del maggiore siano state eccitate dal maresciallo Clerici; egli è di carattere ad ordire simile ricevimento, per qual ragione poi due uomini ai quali non aveva fatto alcun dispiacere, e che mi vedevano per la prima volta di mia vita, dovevano usarmi ostilità? Fra costoro del reggimento non ho veduto che un solo il quale mi è parso ragionevole, ed è il tenente colonnello Lombardi, egli vi è addetto e da poco tempo. Difficilmente m'indurrò a vivere in così disgustosa società. Ho già scritto ad un amico di casa per vedere se mi vorranno assistere per le altre campagne, sulla risposta prenderò le mie misure. Il marchese Clerici, mio cugino, quando partii mi raccomandò vivamente di scrivergli nuove. Sino a che fu a Milano le aggradì moltissimo e mi rispose graziosamente, ora che è a Vienna e non ne ha bisogno, ha cambiato stile; può aspettarsi altre mie lettere! Non ho mai cercato d'entrare nel suo reggimento. Il conte Cristiani spontaneamente s'era esibito di collocarmi in un impiego. L'anno scorso prima di morire mi fece avvisare che, s'egli soccombeva, dovessi dirigermi al conte Kaunitz, già da lui prevenuto; in conseguenza di ciò, v'assicuro che nessuno è stato più maravigliato di me, quando in agosto dell'anno scorso mi venne annunciato che ero capitano nel reggimento Clerici, colla inaspettata condizione di dover servire sempre nel battaglione d'Italia, per non scostarmi dai miei parenti. Questa condizione mi ha spinto appunto a chiedere il permesso di fare la campagna. Ma quel poco tempo d'otto mesi che fui a Milano coll'uniforme, bastò per farmi desiderare di non aver a che fare col marchese cugino. Alla domenica egli lascia venire gli ufficiali alla sua anticamera, ove li lascia per un'ora, frattanto entrano i suoi buffoni, e termina col farci dire che ci ringrazia, ma non può riceverci. Per un galantuomo ben nato, la cerimonia è poco graziosa. Egli è aspro, in faccia diventa officioso, non mi va a genio il suo carattere. Giorni sono il maresciallo ha spedito secretamente a Dresda, il capitano Collin per sapere dal generale Griboval, che ha la cura di fortificarvi un campo, qual sicurezza avremo. Questo prova che probabilmente finiremo l'anno col tornare indietro. Di più so che il maresciallo non sa di fortificazione, e il capitano ha avuta molta difficoltà a fargli comprendere i movimenti di terra che si son fatti. Quantum est in rebus inane! Sento che questo Griboval sia un francese di molto merito, non vorrei che anch'esso finisse a disgustarsi. I due generali prussiani, Rebentisch e Finck, che ora comandano due corpi separati, e ci perseguitano giorno e notte senza posa, erano due ufficialetti al servizio nostro, maltrattati forse perché non erano al livello degli altri. Finalmente disgustatisi, abbandonarono e passarono al servizio di Prussia, Federico gli ha conosciuti, gli ha rialzati, e lo proviamo noi: coloro fanno la guerra del loro padrone e la loro propria.

Il mio Lloyd è generalmente temuto ed odiato, perché non sa trattenersi e lascia vedere il proprio disprezzo che ha per chi lo merita. I primi signori gli corrono dietro come ad un uomo singolare. Al quartier generale, nell'anticamera, alle volte egli ha un circolo di quanto v'è di più distinto, lo stuzzicano a parlare dello stato delle cose, su quello che si può fare, sul bene e male dei nostri movimenti, egli lascia sbucciare la sua impazienza sulla nostra inoperosità, ed una volta l'ho udito alla porta stessa del maresciallo, interrogato cosa credeva che si facesse. - Delle scioccherie al solito - rispose ad alta voce. È molto se non si perde: ma egli vuol volare, od andarsene. Qualunque sia il suo destino, lo amerò e lo onorerò sempre, perché sin ora non ho trovate riunite in un uomo tante eccellenti qualità. Egli dice che invidia la cortesia del mio carattere, e se ne potesse avere una dose nel suo tutto, vorrebbe diventar padrone del mondo.

Vi abbraccio.

Dresda, 28 novembre, 1759.

Troppe cose vorrei scrivervi, né so se ne avrò l'agio; prima vi dirò dell'affare di Maxen accaduto giorni sono: omettendo interamente quello che potete sapere dai fogli pubblici, vi informerò invece di quelle circostanze che formano la storia arcana. Figuratevi che la nostra armata, dopo aver inutilmente contemplato il nemico nel suo campo di Torgau per quindici giorni, inoltrandosi la stagione si ripiegò verso Dresda, dove fummo il giorno 17. L'armata appoggiava il suo fianco dritto alla città, e faceva fronte al nemico che era a nord. Il re di Prussia non trovando il suo conto d'attaccarci ove eravamo, pensò d'obbligarci ad abbandonare Dresda col tagliarci la comunicazione colla Boemia: Distaccò un corpo di dodicimila uomini sotto il comando del generale Wunsch e lo portò a Maxen. Ciò fatto, a noi non restava altro partito o di passar L'Elba e ritornarcene in Boemia, ovvero far sloggiare il nemico da Maxen, d'onde ci avrebbe rappresagliati i viveri che ci vengono dalla Boemia e intercettata la comunicazione. Il maresciallo marciò con porzione di gente verso Maxen il giorno 19, poi vi marciò il 20, e sempre ritornò senza mai aver potuto vedere i nemici, i quali sono controllati da boschi e scavi impraticabili. Anche il giorno 21 il maresciallo stava per ritornarsene a Dresda colle truppe. Era veramente cosa meschina il vedere come non si trovasse un villano che potesse spiegare come fosse quel terreno al di là del bosco. I Sassoni non sono niente nostri amici. Si stava disputando che convenisse fare, perdendo il tempo verso Reinharksgrimme, piccolo villaggio. Un nostro italiano, il tenente colonnello Fabris, nativo del Friuli, uomo di testa e di quei pochi che amano la gloria, impazientato del ridicolo perditempo che si faceva per ritornare alla volta del bosco, da cui si passava al nemico, incontrato un capitano dei Croati che era al nostro posto avanzato, gli chiese se volesse venir seco colla sua compagnia, e questi lo seguì. Eravi una piccola altura che dominava l'unica strada per cui si passava al bosco. Fabris l'esaminò, e vide che il nemico aveva mancato d’impadronirsene, ove, collocando qualche pezzo d'artiglieria, poteva impedire l'accesso. Cominciò a giudicare che i Prussiani s'erano malamente appostati. Entrò nel bosco seguito dai Croati, osservò che non si erano gettate delle piante attraverso la strada per impedirvi il passaggio dei cavalli e della artiglieria. Osservò altresì che non v'erano cacciatori, né truppe leggere a dritta ed a sinistra del bosco. Queste negligenze dei Prussiani sempre più gli fecero pensare che poco sapientemente s'erano collocati. Stava già per isbucare dal bosco, quando vide alcuni usseri prussiani che alla vista dei Croati, credendoli forse in assai maggior numero, presero la fuga per unirsi al loro corpo. Allora Fabris si mise a galoppar loro dietro per non perderli di vista; osservò che, terminato il bosco, eravi una pianura capace a schierarvi dodicimila uomini; ma questa era dominata da tre alture, dalle quali il cannone avrebbe potuto molestarci troppo. Era a conoscere se su quelle alture fossero appostate artiglierie. Fabris teneva di vista gli usseri, affine, mi diss'egli, d'osservare se essi, avvicinandosi a quelle alture, rallentavano il corso, allora avrebbe giudicato che questa tranquillità nasceva dall'esser ivi i loro compagni; se poi proseguivano, era segno che anche quelle importanti alture erano sguernite. Infatti continuarono a galoppare. Fabris allora apposta i suoi Croati all'imboccatura interna del bosco, e ascende solo quelle alture, e vede tutto libero. Esamina il nemico, e vede che nel campo tutto era in movimento ed inquietudine, quasi per cercare una nuova posizione. Osservò che v'erano due strade poste in modo dalla natura, che, senza essere vedute dal nemico, potevano due nostre colonne portarsi sino al colpo di fucile ed attaccare senz'essere prima offese. Il nemico era collocato su di un'altura, per cui conveniva a noi, giunti alla portata del fucile, discendere, e poscia arrampicarsi ad essi. Il contegno dei Prussiani, la somma negligenza di non aver difeso il loro ingresso del bosco, non gli lasciò dubitare dell'esito. Conviene ch'io dica che il nemico non era accessibile ai fianchi, perché scorrevano due cavi profondi che sboccano l'acqua nell'Elba, con rive altissime e intralciate d'alberi. Visto ciò, Fabris lascia i Croati ove li aveva collocati, e a gran galoppo ritorna a noi, e dice al maresciallo: - Signore, questo è il momento, venite e vi rispondo della vittoria. Io condurrò una colonna alla portata del fucile senza perdere un uomo, darò a Beaulieu la condotta d'un'altra, che giungerà sicura come la mia, i nemici non sanno quello che si facciano, ho visitato tutto, il momento decide. - Fabris era conosciuto, perché serviva nel numero degli addetti al generale Lascy per le marce e i quartieri. La sua franchezza, la necessità d'appigliarsi ad un partito, il non conoscerne uno migliore, determinarono il maresciallo ad ordinare la marcia del corpo di truppa che aveva seco. Fabris precedeva. Passiamo tranquillamente nel bosco, ci schieriamo con sicurezza nella pianura, e, usciti fuori dal bosco, ci dividiamo in due colonne. I nemici cannoneggiavano senza far danno ad alcuno, perché eravamo coperti dalle alture. Fabris, alla testa della sua colonna, appena si mostrò ai nemici, scivolò sedendo, ed in egual modo fece scivolare sul loro sedere i granatieri che gli venivano dietro, così i cannoni d'un fortino che stava sul fianco sinistro dei Prussiani, e di contro al quale si mostrò, non poterono più offenderli, giacché, oltre una certa inclinazione, il cannone non si piega. Poi arrampicandosi e sostenendosi siccome ad una scaletta, attaccarono il fortino. I Prussiani, dopo una scarica generale dei loro fucili, la maggior parte li gettarono e si diedero alla fuga. Fabris, posto il piede nel fortino, mandò al maresciallo un complimento di congratulazione per la vittoria. I nemici furono inseguiti, ma sopraggiunse la notte. I Prussiani si trovarono coll'Elba alle spalle; di contro eravamo noi, ai fianchi eranvi i due cavi come ho detto, sopra d'uno eravi il generale Brentano col suo corpo, sull'altro verso Dohna il maresciallo Serbelloni coll'armata dell'Impero. Durante la notte tentarono di farsi strada verso l'armata dell'Impero, ma con pochi colpi di cannone vennero respinti. Comparve il giorno, cercarono essi capitolazione, non fu ammessa, dovettero arrendersi, dimettere le armi e darsi prigionieri; l'unica cortesia loro accordata fu di lasciare a ciascuno il suo equipaggio. Notate che dalla costa, sulla quale erano accampati i Prussiani, sino all'Elba si discende continuamente, laonde abbandonato che ebbero il campo, noi fummo loro sempre imminenti.

Di questo fatto pochi ne sono informati, come ora lo siete voi. Il vulgo anche gallonato incolpa d'errore il re, d'aver così collocato questo corpo; ma voi vedete che se il Wunsch si fosse collocato con più sapienza, a noi sarebbe stato impossibile l'accostarvici. A me sembra che il re ha disposto da abile capitano, che se il suo generale avesse saputo meglio il suo mestiere, noi eravamo scacciati dalla Sassonia, e alla campagna ventura da capo alla guerra. Del trionfo poi del maresciallo parlerà l'Europa e forse la storia; sempre più mi confermo nel mio pirronismo sulla storia. Ecco Kollin, Hockirken e Maxen, tre trionfi di Daun, senza sua saputa. Fabris è stato dichiarato colonnello sul campo di battaglia, e, sebbene il maresciallo non abbia questa facoltà, nessuno dubita che la Corte applaudirà a questa promozione confermandola. Daun venne a Dresda come in trionfo, conducendo nel suo seguito i generali Wunsch, Fink e Rebentisch, che ha tenuto seco a pranzo. Nell'accogliere Wunsch, gli disse una freddura che è un giuoco di parole. Wunsch in tedesco significa desiderio, il maresciallo gli disse che aveva piacere di conoscerlo, che spiacevagli la circostanza, ma che in questo modo le cose non vanno sempre a seconda di Wunsch, cioè del desiderio.

Il reggimento Clerici aveva perduto le tende, che l'inimico gli aveva tolte, e perciò s'era collocato in Meissen. Nel ritirarsi verso Dresda, una delle nostre colonne attraversava Meissen. Il reggimento Clerici era schierato sulla piazza ed aveva ordine di marciare dopo il tale reggimento. Poi doveva venirgli dietro la cavalleria.

Un reggimento di cavalleria appostato fuori dalle porte di Meissen, che riceveva qualche colpo di fucile dalle truppe leggere nemiche, non volle sapere d'aspettare, e s'inoltrò nella città; Clerici non riescì a metterlo in ordine, sì che dovette incamminarsi l'ultimo, col nemico vicino. In fine se ne uscirono lasciando, sia per paura o per smemoratezza, i loro cannoni in Meissen. Per caso il maresciallo li vide, osservò che mancavano i cannoni, ne chiese al colonnello, il quale in quel momento aveva meno imperio di quello che aveva mostrato al mio ricevimento, rispose scioccamente. Non ho mai veduto il maresciallo Daun sulle furie se non in quel punto; deciso gli disse che andasse a riprendere i cannoni, e se non li conduceva ne avrebbe risposto colla sua testa. Il giorno dopo vidi giungere all'anticamera del maresciallo il tenente colonnello Lombardi, e fu la prima volta che vidi uno del reggimento Clerici in quel luogo. Il signor duca di Braganza lo conosceva, gli si avvicinò incoraggiandolo. Il Lombardi, stato leggermente ferito in una mano, aveva riacquistati i cannoni; col mezzo del signor duca poté avvicinarsi al maresciallo, che al sentire il nome Clerici avvampò in volto, e sebbene il buon Lombardi non ne avesse colpa, fu bruscamente ricevuto, ed in pubblico intesi che gli replicò che aveva tutti i torti il colonnello, che non aveva fatto il suo dovere. Il maresciallo Daun è però assai di rado collerico. Il generale Lascy è assai più duro. Egli ha un drappello d'ufficiali colonnelli, maggiori capitani, unicamente dipendenti da lui, e sono i migliori dell'armata. Fra questi il Fabris e il Lloyd. Questi non si ricordano se sia notte o giorno, s'espongono a mille incomodi e pericoli allo scopo di riconoscere il paese, gli accampamenti, e quanto dipende dal generale quartier mastro. Non v'è memoria che Lascy abbia detto una volta ad alcuno: - Son contento di voi. - Egli è impetuosissimo, ha un sogghigno derisore, è pieno di valore, è anche generoso, ma non conosce la moneta che costa meno e fa operar di più, la cortesia, e le buone parole de’ grandi. Al di lui quartiere in ogni ora i suoi ufficiali trovano tavola, e in ciò spende liberamente ed è necessario, poiché chi è sotto ai suoi ordini non può avere ore fisse per far cosa alcuna. Mentre giorni sono eravamo a Heinitz, ebbimo un piccolo assalto coi nemici. A un nostro capitano, appostato con due cannoni di campagna sopra un'altura, pronto a difendersi, il generale Lascy mandò a dire che se muovevasi l'avrebbe fatto appiccare; per un uomo d'onore, questa è una maniera assai strana di comandargli. Eppure chi vi è, conviene che vi stia, non v'è rimedio con un superiore. Non so se nelle armate francesi o spagnuole si usi simile linguaggio. I Moscoviti si bastonano tutti, non v'è che il generale in capo che non lo possa essere. Il generale è bastonato dal tenente maresciallo, questi dal tenente generale, e il tenente generale dal generalissimo, ossia generale in capo. Così si vive all'armata moscovita. In fatti, non vi sono a quel servizio né ufficiali francesi, né italiani, né credo d'altre nazioni. Noi non siamo a questo segno; è cosa disgustosa per un uomo d'onore il vedersi minacciato del capestro nell'ingiusta ed ingiuriosa supposizione che voglia fuggire dal nemico, ovvero ricevere la bastonata. Il problema meriterebbe una dissertazione, che non ho tempo di farvi. Questi sono gli aneddoti che pochi dicono, perché ciascuno vorrebbe far invidiare il suo mestiere, ma a voi svelo gli oggetti, e vi mostro interiora rerum. Ve ne scrivo un altro per illuminarvi sulla nobiltà della professione a cui siamo elevati. Il conte Origo, tenente colonnello posto nel corpo comandato dal duca d'Aremberg, ebbe occasione di respingere una banda di nemici e ne approfittò per recarsi a farne il rapporto in persona al duca, e così farsi conoscere, e in quella occasione raccomandarsi. Fu ammesso al suo quartiere; il duca stava sedendo su una seggiola senz'appoggio, e un cameriere da una parte, un altro dall'altra stavano pettinandolo. Si inchinò profondamente a sua altezza il nostro tenente colonnello, riferì il fatto, e poiché vide che il duca n'era contento, s'avanzò per esporgli i suoi lunghi anni di servizio, e si raccomandò alla sua persona per essere promosso. Il duca chiese ad un cameriere un pezzo di carta e se ne servì all'uso che un altro fa senza testimoni, poi altro pezzo, poi un altro, e frattanto andava rispondendo al tenente colonnello ch'egli non ha nulla a che fare con lui, che ha abbastanza da pensare al suo proprio reggimento, e che non infastidirebbe Sua Maestà per il conte Origo, e così si congedò il tenente colonnello.

Questo fatto fresco fresco l'ho dalla bocca dello stesso Origo. Vedete se i nostri allori sono splendenti, se la gloria e l'onore hanno grandi adorazioni da noi. Quello che più mi sorprende si è che ciò sia fatto non da un soldato di fortuna, ma da un duca d'Aremberg, che per la sua nascita dovrebbe certamente avere tutt'altre maniere. Vedete cos'è l'armata, cos'è questo mestiere! Vi abbraccio.

Dresda, 20 dicembre, 1759.

Da un mese a questa parte mi trovo assai ben collocato in questa città. Ho preso a mie spese un quartiere, ed alloggio da un trattore alla vecchia cancelleria di guerra, dove mi trovo con decenza e comodo. Ho pregato Lloyd di venire con me, perché se dovessimo ricoverarci nei meschini quartieri assegnatici, staremmo male. Il caro Lloyd non mi ha mai cercato a prestito un soldo, ed è povero; non mi ha mai cercato un pranzo, finalmente accettò di starsene con me; mi è di nessun peso, bensì d'un'amabile ed utile compagnia, e credo che egli voglia bene a me ed a quelle poche oneste qualità che ho nell'animo.

La vita che facciamo noi due si è d'uscire tutte le mattine soli, senza palafreniere, per riconoscere l'inimico ed il terreno di mezzo. Il freddo è così intenso, che talvolta la terra è come uno specchio, tutte le notti trovansi soldati morti pel freddo. Gli ufficiali riparati sotto le tende, s'aiutano con alcune stufe di ferro, ma questo aiuto, in una casa ove soffia l'aria da ogni cucitura, e coll'entrarvi d'un uomo si muta tutto l'ambiente, è debole assai. Bel piacere assai se avessi dovuto stare sotto una tenda!

Varie mattine abbiamo scaramucce coi posti avanzati degli usseri prussiani. Una fra le altre, Lloyd s'avvide che una dozzina di questi usseri ci avevano adocchiati, e ci facevano la festa per prenderci. Costoro avrebbero rubato quello che avevamo, e poi ci avrebbero consegnati prigionieri. Essi si divisero da lontano per poterci chiudere l'uscita; Lloyd m'avvisò dicendomi di star seco e saldo che non potevamo riuscire nell'intento. In fatti fra essi e noi eravi un fosso stretto e profondo ch'egli conosceva perché il terreno lo conosce palmo a palmo. Quando i Prussiani credettero d'essere a tempo, si posero a galoppare alla nostra volta. Lloyd quando li vide vicino alla riva del fosso, cavò loro il cappello canzonandoli. Gli usseri scaricarono le loro pistole, e Lloyd nuovo inchino canzonandoli; poscia li usseri ci fecero segno d'aspettare che avrebbero ricaricato le armi. Lloyd freddamente rispose: - Oh, eroi dei miei stivali, siete veramente valorosi, dodici contro due, che nemmeno adoperan le armi contro di voi. Non siete buoni a prenderci, né buoni di mirarci colle pistole, e avete l'ardire di farci segno di starvi ad aspettare! Eroi de’ miei stivali. Dodici di voi altri non valgono un mezzo uomo. - Così disse, e fatto un terzo inchino d'arlecchino, passo passo ritornammo ai fatti nostri. Vi assicuro che è un uomo unico nella sua specie. Una mattina vi fu del fuoco più generale, il maresciallo era presente. Lloyd ed io, dopo finito l'affare, abbiamo voluto visitare, vedere e riconoscere, sì che fummo di ritorno a casa assai tardi. La mia gente cominciava a dubitare ci fosse accaduta qualche cosa di peggio. Sapete qual sentimento aveva il mio bravo Giuseppe? osservò che mi ero dimenticato l'orologio appeso al letto, e si consolò che non l'avessi portato via. Vi sono delle anime che non si rendono mai sensibili per qualunque beneficio loro si faccia. Dunque, come vi dissi, la mattina siam presi in moto, il resto della giornata lo passo a mio modo. Buon pranzo. Abbiamo un eccellente pasticciere, squisiti vini di Sciampagna, Borgogna, ecc. Il mio padrone di casa serve una buona tavola. Dopo pranzo andiamo dal libraio Valter, che ha un gran negozio e stamperia, compro, leggo e porto quello che voglio al mio quartiere. La sera dopo una passeggiata per la città, ritorno a casa. In Dresda non v'è nessun nobile; son tutti rifugiati chi in Polonia, chi altrove, non vi si trovano che cittadine ed artigiani; vi posso dire una verità che non è esagerata, ed è che le donne che son rimaste a Dresda, e son molte, son tutte al comando di chi offra loro uno zecchino. Il libertinaggio è così facile che non costa un momento di pensiero, e per questo mi pare che se ne diminuisca lo stimolo. In tutte le case di queste cittadine siete ammesso, se lo volete. Il solito cerimoniale è che vi si prepara una caraffa d'ottimo vino del Reno ed il caffè; questo è il costume del paese. Le donne sono vestite elegantemente, e belle assai; la lingua tedesca è dolce nella loro bocca, non hanno l'asprezza dell'accento austriaco. Portano in capo un elegante berrettino contornato di zibellini, formato a punta, che si porta in mezzo alla fronte e gira come una corona scherzata sul capo; il berrettino è di raso celeste, o rubino, o di altro colore, riccamente guarnito d'oro, e termina in una punta ricca di frange d'oro, che cade fra l'orecchio e la guancia. Hanno molt'anima nella fisionomia, occhi vivaci, bellissime tinte, bei denti; un mantello di raso celeste o rubino, foderato in pelliccia bianca, l'abito assestato al busto, gonnelle corte, e soprattutto gran lusso ed eleganza nelle calze bianche di seta, scarpe finemente calzate, sì che sono figure teatrali assai belle e gentili. Gli uomini in proporzione sono anch'essi eleganti, e soffrono piuttosto il freddo che guastare la parrucca linda e polverosa coll'uso del cappello. Ben volentieri avrei veduto la Galleria e la Corte, ma noi Austriaci siam tanto in buon concetto che non v'è modo; dicesi che le chiavi sieno state portate in Polonia. Per darvi però un'idea della città, vi basti il sapere ciò che m'è accaduto in un traiteur francese, certo Le Fon. Un giorno, in compagnia di cinque ufficiali, si propose di pranzare dal Le Fon. Entriamo in un palazzo, che tale era veramente, ci si affaccia cortesemente un uomo ben vestito, al quale chiediamo un pranzo. Egli ci fa le scuse se la folla delle persone gl'impediva di darci un alloggio, quasi sembrava che non vi fosse luogo, ma vedendoci disposti ad accontentarci d'una camera qualunque, ci condusse, replicando le scuse, in un piccolo appartamento affatto libero, composto di una sala, una stanza da letto e un gabinetto, pavimento di legno cerato, tappezzerie di damasco cremisi, specchi fra una finestra e l'altra, lampadarii di cristalli, canapè e scranne: il tutto sommamente decente. Poco dopo si preparò una tavola con biancheria a figure, e tutto fu servito in argento assai ben lavorato, od in porcellana. Le vivande corrisposero alla finezza del rimanente, ed ebbimo vini di ottima qualità che ci piacque d'ordinare. Non avrei difficoltà alcuna ad invitare chiunque ad un simil pranzo a casa mia. Il prezzo che ci venne chiesto fu, credo d'uno scudo a testa, prezzo assai moderato. Quello poi che v'è di curioso nel costume di quell'ospite, è che voi potete francamente ordinare una cena per tanti coperti, e prevenire che sianvi tante fanciulle, due bionde, una bruna, grande, piccola, ecc., ed è lo stesso come se gli ordinaste uno storione o dei tartuffi; niente lo scompone, niente lo fa ridere. La Fon ordina ai suoi commessi d'andare dalla signora Kreps, grande abadessa di fanciulle, e siete servito, senza che la riputazione del padrone di casa ne soffra. Se volete passarvi la notte, siete libero.

Dresda è una deliziosa città. Situata in una pianura attorniata, alla distanza di due o tre miglia, da collinette, che sono come l'anello di Saturno, le quali riflettono i raggi del sole e riparano dai venti, per modo che il clima vi è meno rigido che nei dintorni. Vi crescono le viti, e in questo spazio di terra si fa del vino, sebbene nella parte più meridionale, verso la Boemia non reggano le viti l'asprezza dell'inverno. I vini però comunemente usati qui, sono del Reno, e sono ottimi. Voi qui avete pesci di mare e ostriche dell'Oceano, nel quale sbocca l'Elba, che è come l'Adda. La città è divisa da questo fiume, e si unisce con un bel ponte, che non è pesante, come sogliono usare gli architetti tedeschi. La chiesa cattolica della Corte è bella. La chiesa di città, cioè la protestante, assomiglia al nostro San Lorenzo. Le case sono quasi tutte fabbricate solidamente di pietra, ben mobiliate, e tutto spira una colta nazione. Se andate a Vienna in una bottega per spendervi i vostri denari, siete ricevuto come un seccatore, o qualche cosa di peggio; qui gli abitanti sono officiosissimi, civilissimi, e giacché un forestiero, secondo i principii di natura, e delle genti, dev'essere gabbato, in buon'ora lo siamo almeno con civiltà e buona maniera. Se Dresda è tale in mezzo alla desolazione di questa guerra che le sta intorno, ed è già il quarto anno, mi figuro che debba essere il soggiorno delle grazie e degli amori in tempi tranquilli. In generale, come vi dissi, noi Austriaci siamo poco amanti, e sebbene alleati coi Sassoni, essi preferiscono i Prussiani a noi. Ho osservato all'Hôtel de Pologne, locanda frequentata, che le stanze sono addobbate con quadri rappresentanti battaglie, e da per tutto i bianchi e i rossi, che siamo noi, sono in positure umilianti, e i bleu sempre in atto di eroi vincitori. Molte cagioni vi sono di questo genio. Primieramente gli Austriaci sono poco civili e cortesi, e per lo più non hanno educazione, onde coi loro sgarbi indispongono gli altri, laddove nell'armata prussiana gli ufficiali cercano d'accostarsi, com'è naturale, al loro modello, il re, e quindi a gara s'inciviliscono, si mostran colti ed educati. Secondariamente, la religione vi ha la sua parte; non è già che naturalmente i Sassoni abbiano al dì d'oggi fanatismo per la loro setta; ma sentendosi disprezzare dai nostri soldati, e chiamare cani Luterani, è ben naturale che preferiscano i Prussiani loro confratelli. Finalmente molta parte vi ha la diversa disciplina delle due armate. Quando la nostra marcia, e si reca in un nuovo campo, vedreste come da ogni reggimento si stacchi un drappello di soldati per foraggiare e trovare paglia, legna e altro da portare al campo. Questi nostri drappelli, composti di gente feroce, di mal umore, entra nei villaggi del contorno, rompe, distrugge, ruba, maltratta, e per portare al campo il valore di dieci, rovina pel valore di cento. I Prussiani, per contrario, non escono mai dal loro campo. Sono muniti di cartelle e tabelle così esatte, che sanno appuntino il numero degli abitanti di ciascuna terra, e presso a poco i viveri che vi sono. Dal campo regolarmente si staccano gli ordini alla tal terra di portare tanta paglia, tanta legna, ecc.; così fanno molto bene. Primo, disertano meno soldati; secondo, niente si devasta, tutto si distribuisce con prudente economia, e l'armata prussiana trova la sussistenza per venti giorni in quel campo d'onde noi saremmo obbligati di sloggiare dopo cinque o sei, dopo aver tutto ruinato all'intorno; terzo, i villani non fuggono, non si sottraggono all'arrivo dei Prussiani, anzi vanno al lor campo, vi portano, come ad un mercato, ogni genere di polli, carni e viveri; a nessuno si fa violenza, tutto è pagato, e tutti fanno la spia in favore di essi, col sentimento che posto che vi è la guerra, l'armata prussiana li difende dalle nostre depredazioni. Io ho cercato di farmi voler bene dai contadini, presso i quali sono stato di quartiere, tutto ho pagato largamente, né ho sloggiato se prima non sapeva dai padroni di casa che i miei domestici gli dovevano nulla; non di meno varie volte ho dovuto soffrire l'odio nazionale. Una mattina singolarmente volevo prima di giorno essere al quartiere del maresciallo per unirmi alla marcia. Posto tutto in ordine, vedo una nebbia che non ne ho visto di simile; figuratevi che stando a cavallo non si vedeva il terreno in nessuna guisa. I fuochi dell'armata mi facevano l'effetto come d'un'aurora all'orizzonte senza distinguerli, quantunque fossero vicini. Ho regalato, pregato, accarezzato il villano perché mi guidasse, egli mi ha condotto pochi passi fuori di casa, poi ho avuto bello a chiamarlo, promettergli nuovi regali, rimasi isolato, ascoltando la voce de’miei domestici senza vederli, ed avrei avuto bisogno di una bussola per non dare con la testa del cavallo nella casa. Dovetti aspettare sui quattro piedi del cavallo che spuntasse il giorno, e allora si diradò la nebbia, che pareva quella di Mosé in Egitto. ma già la mia è troppo lunga, vi abbraccio.

Dresda, 2 gennaio, 1760.

Sono già quarantasei giorni che me ne sto in Dresda alloggiato dal mio calvinista, che è il più buon uomo del mondo. Non pare allevato in questa città, è rigido nell'osservanza del costume. Sua moglie, i suoi figli pregano più volte al giorno. Domani lo abbandono, e parto dall'armata per Vienna, giacché i miei parenti non sono disposti lasciarmi fare un'altra campagna. Prima però d'abbandonare Dresda ho altre cose da scrivervi. A proposito dunque del mio traiteur, l'ho pregato di condurmi domenica scorsa alla sua chiesa, ed ei lo fece. Essi sono tutti figli di francesi rifugiati per la rivocazione dell'editto di Nantes, e sebbene siano nati in Germania, conservano il cuore francese, e cantano gli inni come gli Israeliti per ritornare alla Terra promessa. Essi sono tolleranti. La loro chiesa è una sala al primo piano sopra al pian terreno. Questa sala sembra una delle nostre scuole di grammatica e non più. Non v'è altare, non immagini, non candele o lampade. V'è una cattedra, sotto di essa un banco più elevato degli altri, ed ivi stanno i cantori, poi all'interno le panche come nella scuola. Nessuno si pone in ginocchio. All'entrare v'è uno alla porta che civilmente v'indica un sito ove potete sedere. Quei della loro comunione prima di sedere stanno un minuto ritti in piedi, e si coprono il viso col cappello, le signore invece col ventaglio; da ciò credo l'uso dei ventagli bucati, comodissimi per la curiosità femminile in non perdere i momenti. Poi ciascuno si siede. Il pastore scende alla cattedra con veste lunga, nera, collare come i preti francesi e parrucca tonda da abate, e fa il suo sermone in francese. Quello che ho ascoltato era assai ben detto, patetico, tenero, pieno di virtù. Poi si cantano dei salmi tradotti in francese, e non v'è cerimoniale. Alcune domeniche fanno la commemorazione della santa Cena, mangiano un pane, bevono del vino, ma non ho avuto occasione di vederla, tanto più che il freddo enorme di quella sala, sebbene fosse eloquente il predicatore, mi ha fatto soffrire dopo un mancamento di respiro, assai strano per me, e serio se continuava. Mi son fatto dare dal mio ospite il suo libro di preghiere, e devo dirvi che non ho letto presso i nostri ascetici niente di simile, né di più capace d'elevarci a Dio. La preghiera che si fa a Dio appena svegliato è questa: "Dio mio, mio Creatore, mio Salvatore, sono così povero in faccia vostra, che non ho cosa alcuna da offrirvi; sono così limitato ed ignorante, che non so cosa domandarvi. Voi che siete la bontà stessa, che conoscete i miei bisogni meglio che non li conosca io, guidatemi, assistetemi, confortatemi a fare il vostro santo volere." Questa breve preghiera mi pare degna d'un filosofo che ha quella poco inadeguata idea della divinità che pu&ogr