IL BISOGNO DI FILOSOFIA

 

Dal volume TEORESI E PRASSI DELLE SCIENZE UMANE

di Antonietta Pistone

Edito da Bastogi, editrice italiana nel mese di marzo 2009

 

 

 

Nel mondo contemporaneo, dominato dalla tecnologia informatica e dalla velocità, insegnare ai giovani una disciplina come la Filosofia presenta notevoli problemi, posti dalla necessità di giustificare l’utilità pratica di tale apprendimento. Sempre più spesso, difatti, il docente è costretto a dover fornire agli allievi spiegazioni chiare e concise circa il valore ed il senso della Filosofia. Comunemente si crede che la speculazione verbale, così come le elucubrazioni mentali, siano assai poco significative per la quotidianità. Risulterebbe certamente più vantaggioso conoscere nozioni di economia, piuttosto che vagheggiare attorno a problemi di ordine metafisico o morale.

Eppure, quanto più se ne parla, anche a livello di statuto epistemologico e di competenze in grado di trasmettere, tanto più la Filosofia trova spazio nelle scuole secondarie superiori. La stessa riforma Moratti, estendendo a tutti gli indirizzi di studio l’impostazione gentiliana[i] , prevedeva la sua introduzione nei licei tecnologici[ii]. Si è finalmente compreso che una scuola che intenda formare[iii]

deve saper adoperare tutti gli attrezzi culturali necessari allo scopo. Ed è consolante, sebbene attraverso tante contraddizioni, apprendere che anche i Ministri della Pubblica Istruzione abbiano capito quanto bisogno ci sia di Filosofia nel mondo del lavoro, e nella società in generale. L’uomo incapace di riflettere è solo un vuoto simulacro senza anima né intelletto. L’abilità di sentire l’appartenenza al genere umano si estrinseca tutta nell’attitudine a partecipare alle emozioni degli altri, esercitando il valore prezioso della condivisione fraterna che lega l’umanità intera. Il senso della Storia, percepito come memoria propria di ciascun individuo, e cammino intrapreso nel tempo da tutti i popoli del presente e del passato, si accompagna alla consapevolezza di essere parte integrante di una comunità sociale e civile, cronologicamente anteriore all’idea di stato. Se i docenti di Filosofia riuscissero a trasmettere ai giovani la consapevolezza che attraverso lo studio e l’approfondimento di questa disciplina essi potranno finalmente giungere al possesso di se stessi, avrebbero già fatto molta strada nel ribadire il ruolo e il fondamento del loro insegnamento scolastico. Per tradizione ormai consolidata, si sa che l’esercizio della scienza filosofica si esplica essenzialmente attraverso l’attività del pensiero speculativo attorno ai massimi problemi dell’uomo.

E, parimenti, si sa che l’uomo contemporaneo ha problemi differenti da quello che viveva nelle colonie greche dell’Asia Minore, culla delle prime ricerche metafisiche intorno all’arché originario. Attualmente la disquisizione attorno al fondamento ontologico del reale è argomento caduto in disuso. La sua desuetudine è imputabile all’interesse rivolto con sempre maggiore preoccupazione all’uomo come tale. La filosofia che ha dominato recentemente è proprio l’esistenzialismo, perché

interpreta la presenza storica dell’umanità come processuale dipanarsi del segmento esistenziale che si esplica tra la nascita e la morte. La precarietà del percorso che tutti chiamano vita è oggetto di problematiche legate alle questioni educative e formative, al sentire religioso, all’attività politica, alle relazioni umane intersoggettive. Nulla di più distante dal quesito metafisico sul fondamento ontologico originario. Molti hanno chiamato questa ragione contemporanea, che manca dell’impalcatura solida delle grandi sintesi razionali, pensiero debole. Quasi a voler intendere che la Filosofia abbia smarrito, ormai, i suoi oggetti speculativi forti, destinati a trovare risoluzione in ben altri ambiti scientifici, per divenire l’anticamera della riflessione salottiera e pigra. Come recuperare, allora, il senso forte della ricerca ontologica in Filosofia diventa problema fondamentale per giustificare lo statuto epistemologico di una scienza educativa di primo piano e valore. Il suo ruolo, accanto alle altre discipline scolastiche, deve essere riscoperto nella sua integrità, per conferire all’esercizio filosofico del pensiero dignità propria e statura metodologico-didattica. La Filosofia, difatti, vanta rispetto alle altre discipline la capacità di comprendere l’uomo nella sua totalità di persona, cioè di unità inscindibile di corpo e anima. Per questa sua specificità costituzionale, che gli insegnanti hanno l’obbligo di conoscere e di esercitare con professionalità,

essa assume un ruolo principe tra le materie scolastiche impartite agli allievi. La Filosofia possiede, difatti, anche qualcosa in più, che va molto oltre il contenuto disciplinare e problematico argomentativo. Prevedendo, accanto alla dissertazione tematica, la riflessione sui metodi di apprendimento, e divenendo essa stessa strumento didattico e tecnica empirica. Ed in quanto tale metafilosofia. Che si parli di Filosofia in quanto scienza teoretica, o di metafilosofia in quanto riflessione sistematica sui principi pedagogico didattici concernenti le modalità pratiche del suo insegnamento, la speculazione ruota sempre attorno ad un unico oggetto di osservazione e di approfondimento: l’uomo. La sua realtà problematica rappresenta il divenire della filosofia nelle varie forme specialistiche: filosofia politica, etica e morale, gnoseologia, pedagogia, metafisica ed epistemologia. Recuperare, perciò, una teoresi ontologicamente fondata per un pensiero che possa dirsi a buon diritto “forte”, potrebbe, dunque, voler dire riappropriarsi fino in fondo dell’oggetto della Filosofia. La riscoperta della persona umana, nel suo valore integrale, posta al centro di qualsivoglia tipo di approfondimento teoretico filosofico, si rivela sempre più la strada giusta da percorrere, sia a livello contenutistico disciplinare, sia, soprattutto, per quanto riguarda il discorso sulla metodologia didattica e le strategie utilizzabili dal docente. Provando ai giovani allievi dei corsi di Filosofia il peso teoretico, ma anche l’importanza pragmatica di un siffatto approccio alla disciplina, si andrebbe anche a dimostrare il valore concretamente umano dell’indagine filosofica, sfatando il mito dell’inutilità della speculazione, intesa come riflessione approfondita sulle problematiche di fondamento e di senso. Le sole che possono conferire significato vero alla comune universale avventura di esistere.

 

DAL MITO AL LOGOS

 

Le origini del pensiero filosofico si intravedono nella curiosità dell’uomo di fronte al mondo naturale, presente come mistero inspiegabile alla ragione. Aristotele sostiene che la filosofia, come ogni forma di speculazione critica sul reale, muova dalla meraviglia. «Colui che dubita e ammira sa di ignorare; perciò il filosofo è anche amatore del mito: il mito consiste infatti di cose mirabili»[iv]. Curiosità e meraviglia, dunque sono le motivazioni iniziali e le prime spinte che inducono l’uomo a

porsi gli interrogativi fondamentali circa la propria esistenza. Le classiche domande Chi siamo, da dove veniamo, verso cosa ci muoviamo, dove stiamo andando. Lo stupore primigenio e il sublime sguardo che illumina gli occhi, induce la problematizzazione dell’essere al mondo, e porta alla domanda sul senso e sul valore della presenza individuale, così come di quella universale. Negli Eroici furori[v] Bruno, per giustificare la sete di sapere e la ricerca metafisica, così fa dire a Tansillo: «... Essendo l’intelletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezione commensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là; perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni genio de intelligibile ed appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intelletto l’eminenza del fonte delle idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e ... compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore ... Sempre vede che quel tutto che possiede, è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente absoluto... ma bello per partecipazione...». Ed è metafisica la domanda imprescindibile ed ineludibile di ogni riflessione razionale. «Perché l’essere e non piuttosto il nulla?» si chiedeva Leibniz affrontando il problema di conferire un senso finalistico alla realtà, nel tentativo di superare la visione meccanicistica del mondo a lui contemporanea. Interpretando logicamente il quesito leibniziano, si può rispondere a questo interrogativo soltanto attraverso l’ammissione dell’esistenza dei contrari e della contraddizione. Vi è l’essere e vi è il nulla. E vi è l’essere proprio perché vi è il nulla. Esistono entrambi, non potendosi pensare un essere come assoluto perfettivo, senza il nulla, come suo corrispettivo assoluto privativo. Varcando i confini del lecito Cusano e Bruno ritenevano l’infinito come la somma dell’essere e del suo opposto, che è il nulla. Se si pensa poi ad un universo creato da Dio, allora si deve anche supporre un cosmo immenso, i cui confini, sebbene tuttora ignoti e sconosciuti, sono senz’altro finiti. Infatti, se il mondo fosse infinito coinciderebbe con Dio, che è appunto infinito. E paradossalmente si giungerebbe ad una forma atea di panteismo e monismo di tipo spinoziano, che non è possibile accettare né presupporre. Agli albori la filosofia si è posta gli interrogativi metafisici sulla natura, e non potendola spiegare con la certezza della scienza, l’ha immaginata attraverso il mito. Tuttavia, la pretesa di risalire alle cause prime della realtà, la curiosità del suo porsi problematicamente nella dimensione della scoperta di fronte alle situazioni della vita, hanno da sempre contrassegnato la ricerca filosofica come una forma di speculazione metafisica. Non volendo attribuire a questo aggettivo alcuna pretesa di ordine teologico. Piuttosto conferendo al termine una valore teleologico e finalistico, quasi fosse un’attribuzione di senso. Lo stesso Bruno vede come impossibile il pieno possesso della verità assoluta per l’uomo. E la ricerca, iniziata con l’ardore passionale dell’amante, si conclude, dopo tanto furore, nella identica visione indistinta con cui era cominciata, perché Atteone diventa cieco alla vista del sole metafisico e potrà, da allora in poi, percepire soltanto ombre. D’altra parte, la filosofia nasce come desiderio e spinta istintuale verso la conoscenza del bene e del male. Se l’uomo avesse da principio saputo tutto non avrebbe cercato nulla. Persino il peccato originale viene spiegato come l’allontanamento dalla casa del Padre perché, pur avendo gratuitamente ogni dono, l’uomo cerca un senso alla propria individuale esistenza. Alla metafisica va riconosciuto il significato di un’intuizione primordiale, quasi preconscia, anteriore a qualsivoglia sistematica e razionale rappresentazione del pensiero. Come se agli albori della speculazione filosofica si potesse trovare la magia dell’Umanesimo rinascimentale, delle tradizioni ermetiche e magiche. Dello sguardo commosso e poetico. Del lirismo sentimentale da cui principia ogni innamoramento e ogni sentimento, risvegliandosi nella sua dolcezza. Come un primo sguardo incerto sul mondo quando al mattino le immagini si confondono ancora nella visione offuscata e sonnolenta dell’umbratile chiaroscuro. Dove le rimembranze del sonno e dei sogni si confondono, mescolandosi con i raggi luminosi del sole, che nella sua limpida luce riconduce pian piano alla realtà. Che il cammino filosofico sia stato pressappoco questo è intuibile. Resta difficile, però, stabilire se l’uomo contemporaneo abbia raggiunto una verità soddisfacente, stabile fonte di certezza. O non appaia piuttosto ancora più disorientato di prima, quando si rappresentava il reale in forma mitica. Muovendo dallo sguardo sognante del pensiero, fino alle grandi sintesi razionali della filosofia classica, sembra che l’umanità abbia raggiunto l’equilibrio della ragione. Platone, che pure usa fare costanti riferimenti al mito, comincia la sua esperienza filosofica per ragioni politiche.

Già i Sofisti e Socrate avevano abbandonato l’indagine metafisica per dedicare le personali energie alla comprensione dell’uomo. Ma l’intellettualismo socratico contamina l’intera speculazione classica, fino ad Aristotele, tanto che Platone nella Repubblica conclude sostenendo che la giustizia si identifica con la sapienza e con la scienza. Difatti, solo il possesso della verità rende buoni, poiché chi conosce il bene lo pratica indiscutibilmente. La sapienza si attua nell’equilibrio razionale delle tre anime «...alla ragione spetterà il comando, in quanto è saggia e provvede all’anima tutta, mentre la parte irascibile dovrà obbedire a lei ed esserle alleata ... E l’una e l’altra, così allevate e veramente esperte, ciascuna nel proprio compito, reggeranno la parte concupiscibile, che ha in noi la forza maggiore, per sua natura insaziabile di ricchezze: e saranno custodi di questa, temendo che, ubriacandosi dei cosiddetti piaceri del corpo, diventi grande e forte, e non attui più la propria funzione, sforzandosi di asservire e di comandare quella parte che non le spetta». Deve perciò governare il sapiente, che è poi il filosofo. Ugualmente pensa Aristotele nell’Etica Nicomachea. Con la differenza che per il “filosofo” la sapienza da sola non basta. Essa deve concretamente attuarsi esplicitandosi come abilità e capacità ad agire in modo coerente con i fini che razionalmente sono stati scelti in quanto obiettivo dell’azione morale «...Il saggio è tale non solo per il fatto di sapere, ma anche per il fatto di saper mettere in pratica ... il temperante fugge i piaceri ... il saggio persegue una vita senza dolori ... non è possibile essere buoni ... senza saggezza...». La saggezza è, dunque, continenza e medietà, cioè equilibrio razionale. I grandi sistemi classici, con le sintesi speculative, stabiliscono il primato della ragione teoretica, e fondano i presupposti della logica del ragionamento scientifico. In particolare il principio classico di identità aristotelica si pone a fondamento della teoria della dimostrazione deduttiva. Per quanto complete nella struttura e nella coerenza interna, esse sono visioni comunque parziali dell’uomo. Conferiscono quelle certezze, quel senso e quella sicurezza, tanto ostentati in seguito dai razionalismi e dai tecnicismi propri delle rivoluzioni scientifiche. L’uomo teme il caos, e l’esigenza di ordinare la sua esistenza lo conduce spesso ad annientare la sua dimensione più vera e più nobile, che è quella dello spirito e dell’ irrazionale. Il mondo nebuloso ed indistinto si presenta così, finalmente, nella chiarezza delle idee di Cartesio. In quel cogito fonte di incrollabile

fiducia nella ragione che respinge ogni irrazionalismo o scetticismo. Contro ogni espressione più immediata ed irruente della vitalità umana, la filosofia classica, con la sua logica dell’identità, accettava solo le certezze fondate ed evidenti. Gli assiomi incontrovertibili ed inoppugnabili. Le dimostrazioni lineari, le cui verità sono deducibili per sillogismi dovendosi dimostrare nel procedimento inferenziale formalmente corrette. Lo stesso Cartesio che si opponeva con forza al dogmatismo che i medievali avevano conferito al pensiero filosofico di Aristotele, propugnava, sebbene attraverso l’esercizio del dubbio metodico, una struttura saldamente coerente nella sua linearità sequenziale, scartando ogni possibile contraddizione, anche in ambito etico. Ad ogni modo, nel Seicento, lo studio della natura diventa finalmente possibile secondo una metodologia scientifica e razionale. Bacone intende conoscere la natura per dominarla, e Galilei propone di osservare empiricamente ed induttivamente il fenomeno per poterlo comprendere attraverso previsioni, la cui successiva conferma trova nella sperimentazione pratica la sua attuazione concreta. L’uso delle sofisticate tecnologie di osservazione permette di potenziare i sensi nell’accostarsi alla percezione sensibile della realtà. L’induzione e la deduzione scientifica vengono elevate a leggi filosofiche di interpretazione del mondo da Newton, che propende per la scelta delle spiegazioni più semplici, causali, che tengano conto del principio di continuità della natura e delle qualità primarie inerenti tutti i corpi materiali. Ma anche questo sapere scientifico trova la sua più rispondente attuazione nel riferimento diretto alla pratica empirico osservativa e sperimentale, che si conclude con la verifica delle ipotesi induttive ed il loro controllo, al fine di giudicarle valide

e convertibili in teorie accreditate. Già la Filosofia tardo antica ed il pensiero cristiano della Scolastica avevano rivalutato il sapere in funzione del fare. La grande innovazione del Medioevo è nella considerazione olistica dell’uomo, riconosciuto come unità inscindibile di mente razionale e volontà. Questa volontà legata alle peccaminose tentazioni della carne porta l’uomo a deviare dal retto cammino verso la Verità metafisica. Il Medioevo, compiendo un errore teoretico, confonde la

Gnoseologia con la Teologia e, pur esaltando Agostino il valore euristico della ricerca come fosse un percorso totalizzante e assolutamente coinvolgente per l’uomo corporeo e per il suo spirito, dirà poi nelle Confessioni[vi]«...Avevo trovato la perla preziosa ... eppure esitavo ancora ... Così avevo due volontà, una vecchia, l’altra nuova; una carnale, l’altra spirituale, che si combattevano fra loro e combattendosi laceravano il mio spirito...». Agostino sa perfettamente cosa sia il Bene, ma ciononostante persiste nel compiere il Male. Ecco la definitiva caduta del paradigma intellettualistico e deterministico del pensiero di Socrate e di tutti i Filosofi classici greci. Sarà proprio questo riconoscimento globale della dimensione olistica della volontà umana, difesa dalla dottrina della Chiesa attraverso la Filosofia tomistica[vii], ad influenzare e modificare il corso della Scienza filosofica successiva. Se nell’Umanesimo rinascimentale il piano ontoteologico viene distinto da quello puramente gnoseologico, tuttavia il metodo problematico di ricerca induttiva origina e si rafforza quanto più diviene preponderante il peso della natura materiale, intesa a partire dalla sua corporeità organica e fisica. E il predominio dell’esperienza sull’atto razionale del pensiero caratterizza la forma speculativa dell’Empirismo inglese che ritiene l’anima una tabula rasa. Diversamente pensa Kant[viii] che, con la sua sintesi criticista, ridona preminenza all’attività razionale pura. La sintesi a priori è il fondamentale presupposto di ogni scienza che voglia dirsi tale. Ma è soprattutto nella temperie culturale illuministica che il detto kantiano «Sapere aude!» trova la sua pregnanza reale. «...L’illuminismo è l’uscita della ragione dallo stato di minorità...». Bisogna, cioè, trovare il coraggio di pensare. L’atto puramente intellettivo viene interpretato nella sua funzione innovativa e divergente rispetto alla tradizione accreditata. Proprio come ugualmente sostiene l’esistenzialista Heidegger quando prende atto della diffusa incapacità di pensare e di «...Un deserto che cresce...». Egli comprende la necessità e l’urgenza di una innovativa ragione critica, laddove la miseria della Filosofia e la caduta della Scienza nel tecnicismo svelano questa

attuale incapacità di «...Pensare il più rilevante...»[ix], indagando il senso. Questo tipo di ricerca filosofico speculativa non può prescindere da un atteggiamento riflessivo che coinvolga, secondo

Hegel[x] e tutti gli idealisti romantici, la storicità della tradizione e la totalità dello spirito nel suo farsi diveniente nella Storia «Nello studio della Scienza... è importante e indispensabile assumere su di sé la fatica del Concetto. La Scienza esige la concentrazione sul Concetto in quanto tale, sulle determinazioni semplici, come per esempio l’essere in sé, l’essere per sé e l’autouguaglianza...Secondo il mio modo di vedere... tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il vero non come “sostanza” ma...come soggetto...». Masullo, studiando Hegel, aggiunge «Mentre la Metafisica classica si interroga sull’Essere in sé, ovvero sulla sostanza o soggetto come se si trattasse di altro dalla comprensione umana, con Hegel si compie il riconoscimento critico che ciò di cui in fondo si parla, di qualunque cosa ci si trovi a parlare, è il “soggetto” nel senso del “comprendere”[xi]». Solo attraverso la continuità dei tre tempi storici, recuperando il passato e vivendo pienamente il presente, può l’Umanità progettare il suo futuro. La coscienza fenomenologica di cui parla Husserl[xii] si abbevera alle fonti dei vissuti esistenziali. Essa è, prima di ogni altra cosa, consapevolezza pregnante della corporeità soggettiva che si sperimenta nel mondo come presenza sensibile accanto ad altre presenze. «Io sono certo di essere un uomo che vive in questo mondo... e di ciò non ho il minimo dubbio... Non é stato posto il problema della costituzione dell’intersoggettività, di questo noi-tutti, a partire da me, cioè “in” me». Il corpo come “ciò che appare” diventa coscienza critica e progettuale nella sua funzione adattativa all’ambiente. L’intelligenza è facoltà di produrre abilità e competenze mentali e pratiche. Capacità, come direbbe Dewey, di manipolare e modificare l’ambiente in relazione ai propri bisogni primari fisici e spirituali. Sempre più, dunque, la facoltà del pensiero si identifica con lo sviluppo della competenza. E la Filosofia deve nutrirsi dell’apporto di altre Scienze, sia umane che naturali, per implementare le proprie interpretazioni sul mondo. «...Tutti gli assiomi – continua Husserl – sono fondamenti apodittici ultimi...». Eppure, benché la Filosofia debba strutturarsi a partire da poche verità evidenti ed indimostrabili, tuttavia essa è storica, proprio in quanto è il prodotto del pensiero speculativo teoretico dell’uomo esistenziale. Con Gödel nasce in Matematica la Teoria dei Modelli, che chiarisce come ogni sistema scientifico non sia altro che un’interpretazione del reale entro una struttura ben organizzata di tipo assiomatico nucleare e di teorie molecolari complesse. Essa è assai prossima alla concezione filosofica sottostante l’interpretazione ermeneutica di Gadamer[xiii] ed il Circolo storico della Comprensione. Ogni interpretazione è sempre storica e limitata, e si fonda sui pregiudizi culturali ormai nel tempo acquisiti. Pertanto si offre come una visione critica del reale, senza alcuna presunzione di oggettività. Piuttosto con la consapevolezza di essere sempre ulteriormente e metodologicamente falsificabile nel corso della Storia. Se per Hegel è la Filosofia, in quanto Spirito, l’approdo ultimo della coscienza critica, Gadamer al contrario ritiene che non vi possa essere coscienza che non sia storica «Non nel sapere speculativo del concetto giunge a compimento l’autocoscienza dello spirito, ma nella coscienza storica... La comprensione è un caso particolare di applicazione di qualcosa di universale ad una situazione storica concreta e determinata... Un sapere generale che non sa applicarsi alla situazione concreta rimane privo di senso»[xiv]. Anche Popper[xv], unitamente a tutta l’Epistemologia falsificazionista contemporanea, riconosce nel fattore discriminante della Storia il solo imprescindibile criterio di valutazione delle

Scienze e dei loro modelli ermeneutici. «Lo storicismo è tutto un errore... – dice Popper – nessuno può anticipare il futuro perché nessuno lo conosce... La Storia ci mette sempre davanti a una rivoluzione imprevedibile, come quella elettronica... Il futuro è aperto... Le democrazie sono attrezzate per difendersi dalle dittature...». Altrettanto, il fallibilismo può rappresentare un’àncora di salvezza nei confronti dei pericoli provenienti da un uso dogmatico indiscriminato della ragione nelle Scienze e in Filosofia. Oggi più che mai la ricerca filosofica non può disconoscere il suo stretto legame con le Scienze naturali e psicologiche e con quelle umane e storiche. La positiva novità rappresentata dal pensiero di Gadamer e Popper viene prospettata nell’uso di un metodo univoco di ricerca per tutti gli ambiti del sapere, riconfermando l’unità della ragione umana in tutti i suoi aspetti, intellettivi ed emotivi. Il metodo euristico epistemologico rivaluta il peso dell’ipotesi mentale per deduzione, sposandola con la pratica osservativa ed empirica e provandola nella verifica e nel controllo dei dati rinvenuti e del ragionamento teorico, attraverso la conferma o la smentita sperimentale. Questo modo di procedere, per tentativi, prove ed errori, aperto alla possibilità positiva e negativa dello smacco, è costitutivo di una forma della razionalità che accetta per principio il confronto ed il dialogo costruttivo con la parte avversa, nell’intimo convincimento di potersi trovare a dover affermare ed accettare anche la ragione degli altri. Questa ragione critica, che apprende dagli errori del passato e che valuta positivamente proprio le esperienze esistenziali più dure, è un obiettivo cui bisogna tendere attraverso una collaborazione interdisciplinare di tutta la Comunità scientifica e politico sociale. Dall’Ottocento in poi, con la nascita delle Scienze sperimentali, dotate ciascuna di un proprio individuale statuto epistemico e di una singolare fondazione, si è scivolati nell’errore di credere che si potesse frantumare quell’inscindibile unità dell’uomo che è la totalità mente corpo per fondare, sull’esempio del dualismo cartesiano, due ambiti autonomi e distinti del sapere. Questo “orrore” dello Storicismo, principiato da Dilthey, si è reso più acuto quando i Neopositivisti hanno preteso l’adozione dei metodi cosiddetti esatti delle Scienze positive unitamente al verificazionismo induttivo. Dimenticando la Rivoluzione scientifica del Novecento e la nascita della geometria ellittica e parabolica ed i teoremi di Hilbert e Gödel, che hanno determinato l’insorgere della Teoria dei Modelli. Ciò che Gadamer e Popper si pongono come obiettivo è l’unità metodologica per la fondazione epistemica di tutto il sapere, unificando i procedimenti di osservazione e rilevazione statistica dei dati con un’approfondita analisi critica di quelli, ed un’interpretazione ermeneutica del senso proprio di ogni ricerca che si voglia presentare come un progetto di risoluzione dei problemi. Con la precisa consapevolezza dei limiti ontologico strutturali di ogni modello interpretativo del reale che sia inserito in un orizzonte storico esistenziale, in equilibrio dinamico ed osmotico all’ambiente. Si potrà così costruire una ragione filosofica, critica, capace di umanizzare le Scienze e di unificare il linguaggio, riconoscendo nell’uomo il loro Soggetto storico ed il loro Signore. Questo cammino impervio, di crescita per la coscienza, non può che compiersi entro un ambito di proficuo scambio dialogico interdisciplinare, ed attraverso un paziente lavoro di collaborazione e condivisione in équipe tra Filosofi, Scienziati e Storici. Perché si possa finalmente popolare quel deserto della ragione, impedendogli di avanzare ulteriormente a portare danni irreparabili entro un orizzonte dove si vuole costruire la pace. E si possa infine realizzare la società aperta cui Popper aspirava, fondata sulla democrazia e sul confronto dialogico, critico e costruttivo. Nella quale essere intellettuali di sinistra implichi il rispetto primario per i bambini, in quanto più deboli e bisognosi di esempi edificanti. Ed il rispetto per l’uomo in generale, seguito “dalla culla alla tomba” da un welfare state che lo assista nei bisogni fondamentali perché possa elevarsi infine a quelli dello spirito. La nostra coscienza civile, perciò, deve farsi carico del problema politico a partire dal suo peso educativo e formativo. E le istituzioni dovrebbero sensibilizzare ai problemi sociali nell’ambito scolastico, abituando al dialogo critico e costruttivo, alla ricerca e alla riflessione di gruppo, spronando la collaborazione ed il lavoro interdisciplinare, motivando all’esplorazione guidata con competenza nel proprio spazio e attraverso il proprio tempo storico. Il giovane deve essere abituato ad abitare e modificare gli spazi in cui vive, in modo intelligente, in funzione di un sempre migliore adattamento futuro. Ugualmente, deve poter capire il proprio tempo attraverso la conoscenza del passato e le proiezioni futuribili in avvenire. L’acquisizione del senso critico procede di pari passo con la capacità di discriminazione e di scelta, con il successo pragmatico dell’interazione sociale, con l’uso intelligente del linguaggio,

inteso quale strumento di manipolazione simbolica del reale. L’accettazione del fallibilismo come  Filosofia di vita induce la consapevolezza di non poter evitare gli errori ed infonde la forza ed il coraggio di saper da quelli imparare a cambiare in meglio, sia la nostra interpretazione filosofica e politica del mondo che quella storica e scientifica in senso lato. «Le possibilità del futuro sono aperte – conclude Popper – E ciò significa per noi una grande responsabilità».

 

LA CATEGORIA LOGICA DELLA POSSIBILITÀ

 

Il mondo che immaginava Popper, unitamente ai falsificazionisti, era governato dalla legge logica della possibilità. Tale legge nasce dalla riflessione filosofica ellenistica degli Stoici, che per primi discutono criticamente i tre fondamenti della logica classica[xvi] di Aristotele. Per il Filosofo ogni argomentazione sottoposta al tribunale della ragione[xvii], deve essere giudicata necessariamente vera o falsa. Intendendo, attraverso queste due definizioni, spiegare anche il valore logico argomentativo di affermazione e negazione. Non di rado, infatti, per la logica classica una proposizione affermativa viene definita vera, mentre una proposizione negativa è ritenuta falsa. Il ragionamento utilizzato da Aristotele per giungere alla verità è detto, nei Topici, sillogismo[xviii]. Questo tipo di argomentazione deve necessariamente concludere con uno dei due valori di verità,

poiché «Tertium non datur»[xix] dice il Filosofo, «... nessuno può ritenere che la medesima cosa sia e non sia, come alcuni credono che dicesse Eraclito...»[xx]. La novità della logica proposizionale stoica consiste, pertanto, nell’ammettere l’esistenza di un terzo valore: quello della possibilità. La categoria logica in questione è sintomo di una nuova apertura del pensiero classico, che stempera la stocasticità del terzo escluso di Aristotele, ed avvicina l’uomo alla realtà quotidiana, ai suoi bisogni e desideri, conferendo alla ricerca filosofica un obiettivo poco apprezzato fino ad allora, e consistente nel raggiungimento dell’equilibrio psichico e fisico e della felicità. La filosofia delle grandi sintesi del pensiero antico, difatti, non aveva mai avuto come suo fine l’uomo e la sua felicità. Scopo della ricerca filosofica di Aristotele era stata la definizione dell’essenza del reale[xxi]. La filosofia ellenistica sposta la sua attenzione speculativa sull’uomo e fa della ricerca della felicità terrena l’obiettivo della sua riflessione. La vita umana è finita ed esprime il senso di una precarietà insita nello stesso limite intrinseco alla natura tutta. Il mondo e l’uomo non sono definibili entro gli spazi incorruttibili ed eterni della Verità metafisico ontologica. E sebbene la precarietà dell’esistenza reclami un fondamento assoluto, resta sempre più mortificata dagli eventi qualsivoglia presunzione gnoseologica. Se ogni conoscenza muove da sensazioni, soggettivamente percepite, bisogna consentire un margine di errore, una zona dell’incertezza, l’umbratile indefinito del non più occulto, sebbene non ancora vividamente noto. E questo spazio della sospensione del giudizio, che diventa poi assenza di certezza per gli scettici, e ricerca di divertimento[xxii] per gli epicurei, è il regno del possibile per gli stoici. Dunque «tertium datur», si può con loro ben dire. A dispetto delle teorie sostenute dalla gente comune, ostinata contro l’esercizio del pensiero, la scienza filosofica ha dimostrato ampiamente di sapersi superare, colmando il vuoto di senso pratico che le grandi sintesi razionalistiche hanno prodotto nella Storia della Filosofia attorno al sapere inteso come saper fare in abilità e prassi. Il pensiero critico non è vuota e inutile fantasticheria che distoglie dalle ambasce quotidiane. E il filosofo contemporaneo è ben lungi dal chiudersi nella sua torre eburnea a ruminare pensieri. L’esercizio della scienza filosofica presuppone un interesse fondato e saldo per l’attività speculativa e critica. Tuttavia, referente immediato della riflessione del filosofo resta sempre il reale, inteso come mondo naturale, come pluralità di soggetti, come insieme di creazioni dell’intelligenza e rete di relazioni intersoggettive. La certezza di tale consapevolezza implica una capacità concreta a saper stare con gli altri, per ascoltarli e comprenderli. Unitamente ad una spiccata sensibilità ai problemi. E ad una passione non comune per il potere argomentativo delle questioni poste sul tappeto dall’Umanità in cammino nella Storia. Necessaria è anche una buona dose di equilibrio e di distacco, che consentono di interagire positivamente nelle situazioni più critiche. Ed un saldo equilibrio interiore, privo di alcuna presunzione nel conoscere e possedere la verità. Torna utile, pertanto, la categoria logica del possibile. Oggi che il mondo contemporaneo si mostra con tutti i caratteri della complessità poliedrica e polisemica, l’apertura verso il possibile può divenire addirittura modello ontologico di interpretazione del reale. Non che si voglia indebolire il pensiero[xxiii], come credono gli esistenzialisti[xxiv]. Piuttosto si tratta di arricchirlo e complicarlo con l’introduzione di nuove categorie

mentali.

 

LA LOGICA DEGLI STOICI

 

La logica proposizionale[xxv] è detta così perché fondata sullo studio della proposizione che, per gli Stoici, può essere vera, falsa e possibile. La logica stoica è, a sua volta, suddivisa in dialettica e retorica. La dialettica è costituita dalle cose significate, che sono gli oggetti di riferimento; e dalle cose significanti, cioè dai simboli del linguaggio utilizzato per indicare i referenti. Comprendere significa lasciarsi impressionare dalla percezione degli oggetti: cioè dare l’assenso alla rappresentazione sensibile. Infine, la comprensione vera e propria presuppone l’atto dell’afferrare il significato. Questo è il livello della conoscenza vera, chiamata rappresentazione comprensiva. Solo il saggio possiede, però, anche il potere argomentativo sulle proprie conoscenze. Esso consiste nella capacità di difendere una tesi gnoseologica attraverso l’uso del ragionamento e del

linguaggio verbale, che porta tutti gli argomenti a favore e contro, per uscire vincitori da una disputa retorica. Il potere argomentativo della verità è, pertanto, capacità riconosciuta all’uomo saggio che, pensando con chiarezza e determinazione, non si fa confondere dalle contrarie argomentazioni dei suoi avversari. Le certezze di cui parlano gli stoici sono, comunque, sempre fondate su conoscenze empiriche. È evidente la contaminazione con la filosofia di Eraclito[xxvi] che, con la sua concezione metafisica del divenire, inteso come logos e polemos, aveva superato la staticità dell’Essere parmenideo, introducendo la nozione di contraddizione e negazione, in quanto elementi interpretativi del reale. Anche l’idea di verità muta sostanzialmente. Essa non è più intesa come possesso assoluto, raggiungibile una volta per tutte, ma come processo in fieri, che si costruisce gradualmente, ed è soggetto a mutamento. La verità deriva, pertanto, dall’accordo con l’essere delle cose. E il saggio si distingue dagli uomini comuni per la sua capacità di adeguarsi alla razionalità dell’universo, e di uniformarsi alla legge del fato[xxvii], per la quale il mondo conoscibile risulta essere il migliore dei mondi possibili. Non si tratta di un’accettazione rassegnata del proprio destino, quanto piuttosto della ricerca simbiotica di armonia e di unione fusionale con il tutto. Questa perfezione è complessa, ed è il prodotto di un superiore accordo con le cose caratterizzato dal fluire nel divenire costante della contraddizione, della differenza e della negazione. Si apre così lo spazio della possibilità, che si genera nella processualità costante degli eventi, concatenati dalla sequenzialità dell’implicazione logica[xxviii] del “se... allora”, e tenuti assieme dalla legge di causalità che si oppone all’esistenza del caso nella vita dell’uomo. Tutto diventa ragione, cioè logos, inteso come ragione e ragionamento al tempo stesso.

 

 

 

IL NUOVO CONCETTO DI VERITÀ

 

La categoria logica della possibilità, scoperta dagli Stoici, modifica il corso del pensiero filosofico. Da quel momento storico la verità non è più contrassegnata da un valore assoluto. Soprattutto non è semplice distinguere vero e falso. Difatti, proprio l’apertura del possibile modifica lo spazio di transizione e di passaggio da una categoria all’altra, del vero e del falso, dando luogo a tutta una gamma di sfumature collocate nel mezzo. Allo stesso modo, cambia anche il tipo di ricerca che aspira alla verità. Non si tratta, ormai, di partire da nozioni a priori, universali e razionali. E non si opera il ragionamento attraverso la deduzione logico argomentativa utilizzata da Aristotele nell’Organon. Ammettere la possibilità, come altra categoria logica, e concepire un processo conoscitivo ed apprensivo che muova dalla realtà percepita dai sensi, costituiscono le due scoperte del pensiero filosofico antico che vanno ad incidere profondamente anche sulle modalità di costruzione della verità. Se ogni conoscenza è sempre, fondamentalmente, di natura empirica, allora ogni ipotesi proposizionale deve, di necessità, partire da nozioni derivate dall’esperienza. «...senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche...», avrebbe poi detto Kant[xxix] nel Settecento. Ma questo muovere dall’esperienza, implica il ricorso alla logica argomentativa di tipo induttivo. Soltanto attraverso questo tipo di inferenza, infatti, è possibile risalire dal particolare, oggetto dell’atto del percepire con gli organi di senso, all’universale, come tipica categoria apodittica che modifica l’ipotesi in teoria scientifica, cioè in sistema razionale di leggi tra loro compatibili e congruenti. La categoria del possibile nasconde una visione metafisica del mondo che abbandona qualsivoglia paradigma di semplicità, per propendere verso la teoria della complessità. Non è la distinzione a caratterizzare questa concezione dell’universo fisico e psichico dell’uomo, bensì l’opposizione[xxx], la contraddizione[xxxi], la commistione dei contrari, in continuo fluire osmotico alla ricerca di equilibri sempre nuovi e vitali. La logica diventa, perciò, sistema della ragion pura, ma anche e soprattutto universo concettuale, e «...regno del puro pensiero...»[xxxii]. Ed, in quanto tale, da insieme di leggi del ragionamento, si fa concezione del mondo. Questo tipo di logica induttiva ed empirica, che parte dall’esperienza perché da quella vuole costruire la sua idea di verità, mette al centro dell’universo filosofico l’uomo, in quanto individuo e soggetto. E fa strettamente dipendere la verità da colui che la costruisce. Si comprende, pertanto, come ad una concezione del mondo e ad un’idea di verità filosofica, corrisponda anche un concetto di uomo, in quanto creatore ed ideatore di quelle verità. Impartire l’insegnamento filosofico vorrà, perciò, significare anche un avvicinamento dei giovani a questa idea di verità non precostituita, ma tutta da ricercare con ardore e passione, attraverso la fatica quotidiana. Nel tentativo, sempre in fieri, di conferire senso e significato alla propria esistenza. E di poter fare ricorso, nei momenti difficili, ad un bagaglio di valori umani e storici intramontabili ed universali. Non in quanto frutto di verità assoluta ed eterna, ma proprio in quanto espressione di un progetto di vita di un’umanità che ci appartiene e che sentiamo nostra, assolutamente. L’uomo nuovo che la scuola vuole istruire, formare ed educare esprime la complessità del mondo nel quale vive. Non si può pretendere di educare giovani avulsi dalla loro storia ed esperienza, individuale e familiare, ma anche scolastica e sociale. L’insegnante di filosofia ha, in questo compito, un ruolo preminente, anche per il semplice fatto di trovarsi ad essere, forse più degli altri colleghi, nella situazione culturale vantaggiosa di possedere gli attrezzi del mestiere più consoni alla comprensione della persona umana. Individualizzare l’insegnamento significa pensare agli allievi, in quanto persone complesse, in ogni momento dell’attività didattica. Dalla programmazione curricolare, alle attività trasversali, facenti parte del piano dell’offerta formativa della scuola. Questa personalizzazione[xxxiii] dell’attività di insegnamento deve poter coinvolgere il singolo docente, come l’intero consiglio di classe. La personalizzazione deve però poi spingersi oltre, fino alle attività previste e programmate dal collegio dei docenti. Il POF, progettato come attività di programmazione curricolare di tutto l’Istituto, prevede un insieme di attività sinergiche che per un verso sono rivolte a rinvigorire il senso dell’educazione scolastica inteso ad istruire nelle competenze di base; per un altro presenta un’apertura della scuola stessa nei confronti del territorio, e finisce per significare un rafforzamento del tempo dell’extra scuola e delle correlate attività extra curricolari. Si può ascrivere, questa tendenza del POF, come una sua contraddizione interna. Che mira a rafforzare l’istituzione scolastica, ma che finisce con il depauperarla di quelle che sono sempre state le sue finalità forti e caratterizzanti: l’istruzione nelle competenze di base e l’educazione della persona umana, a scapito di una formazione alle abilità già tutta rivolta al mondo del lavoro. Come a dire che una scuola troppo preoccupata di impostare la propria azione didattica a sviluppare soprattutto le capacità formative professionali può compiere l’errore grave di tralasciare momenti fondamentali del processo educativo, a tutto discapito dell’azione globale di formazione della persona. Il POF è costruito su una concezione dell’insegnamento inteso come ricerca di tipo epistemologico, se riferita alla struttura contenutistica disciplinare, e di tipo didattico,  se pone attenzione alle metodologie, agli strumenti e ai mezzi adottati per esercitare praticamente

l’intervento educativo, che è sempre istruttivo e formativo nel suo complesso. Ciò che deve essere assolutamente evitato, soprattutto nelle scuole secondarie superiori, è la caduta nel tecnicismo  della pratica di insegnamento. La filosofia è una disciplina che abitua a riscoprire il valore della cultura unitaria, che gli antichi ritenevano fonte di saggezza. Trasmettere ai giovani questa convinzione è estremamente necessario per rinsaldare l’identità storica di appartenenza, e il radicamento[xxxiv] sul territorio nel quale si vive. Chi deve integrarsi nel mondo del lavoro deve sentirsi parte attiva di una comunità. La scuola non può perdere di vista il suo principale obiettivo, che è quello di formare ma soprattutto di istruire alle competenze generiche di base, il possesso delle quali garantisce quella disponibilità all’apertura nei confronti delle esperienze di vita, e al tempo stesso rinvigorisce la flessibilità mentale che permette un proficuo inserimento dei giovani, a pieno titolo, nel mondo del lavoro. Il docente deve, anche a fatica, sobbarcarsi dell’onere di intraprendere la costruzione di relazioni interpersonali significative con i propri allievi. Perché, puntando in questa direzione, potrà essere in grado di coinvolgerli proficuamente, stimolando la loro motivazione intrinseca attraverso interventi efficaci e mirati, ad apprendere la filosofia dai problemi che nascono dalla concretezza dell’esperienza esistenziale quotidiana. Ciò che importa sapere ai genitori, quando iscrivono un figlio a scuola, è cosa possono aspettarsi di ritrovare in lui, in termini di capacità e di formazione in uscita, alla conclusione del corso di studi. È perciò necessario che il docente abbia chiarito con se stesso gli obiettivi che intende raggiungere con ciascun allievo. La filosofia educa persone integrali, dotate di senso critico, aperte e flessibili, capaci di dialogare e di interagire nel rispetto dell’altro. Forse nessun’altra disciplina curricolare riesce ad interpretare compiutamente le istanze della personalizzazione dell’insegnamento come può, invece, fare la riflessione speculativa filosofica. Per questo motivo è lecito pretendere la sua introduzione in tutti i corsi di studio della scuola secondaria superiore. Nella convinzione che anche i bambini di scuola elementare siano già in grado di porsi domande filosofiche. I loro “perché” rafforzano questa tesi.



[i]Si ricordi che la riforma del 1923 del ministro Giovanni Gentile prevedeva per i Licei, classico e scientifico, istituiti insieme agli Istituti tecnici con la legge Casati del 1859, l’insegnamento della filosofia ritenuta fondamentale, insieme alla storia, per la formazione delle future classi dirigenti del paese. A livello metodologico didattico si raccomandava ai docenti un costante richiamo ai testi filosofici, onde evitare un uso improprio del manuale scolastico adottato. L’idea di fondo della riforma Gentile era la coincidenza della filosofia con la sua storia, e con la storia dell’uomo in generale. Da cui discendeva l’identità tra la filosofia e la storia della filosofia.

 

[ii] Si ricordi, a questo proposito, che già la Commissione Brocca aveva parlato, nel 1992, di introduzione della disciplina filosofica in tutte le scuole secondarie superiori raccomandando una diversificazione di programmazione didattica. E propendendo per una metodologia che prediligesse un insegnamento di tipo storico-problematico.

 

[iii] Resta, comunque assai controversa la questione della formazione scolastica. La scuola, difatti, per sua intima costituzione è deputata ad istruire. Il concetto di formazione è, invece, strettamente legato alla necessità di fornire ai giovani da immettere sul mercato del lavoro un addestramento professionale. Pertanto, quanto più si anticipa all’età scolare il momento della formazione professionale, tanto più si andrà a svuotare la scuola della sua propria peculiarità, consistente nell’educare alle cosiddette “competenze di base”, utili e flessibili ad ogni futuro approccio di tipo umano e spendibili anche nel mondo del lavoro. II compito “necessario” della scuola consiste, pertanto, nell’istruire a quelle competenze specialistiche e trasversali. La formazione professionale è “desiderabile” ma, se assolutizzata, risulta insufficiente. Tale concezione di una scuola come istituzione che educhi istruendo la si può agevolmente ritrovare in Vertecchi, Le sirene di Malthus.

 

[iv] Si tratta della maggiore opera di Aristotele La Metafisica.

[v] L’opera di Bruno è del 1585.

 

[vi] L’opera di Agostino risale all’anno 397 d.C.

 

[vii] San Tommaso esplicita il concetto di dimensione unitaria della persona come totalità inscindibile di anima e corpo nel suo scritto L’unità dell’intelletto del 1270 per contrastare le tesi degli Averroisti che propendevano per l’esistenza di un intelletto universale e separato. La religione cattolica salvaguarda la dignità della persona, esaltandola nella sua dimensione globale e nello specifico della individuale particolarità esistenziale.

 

[viii] Kant scrive la sua Ragion pura nel decennio che decorre tra il 1770 ed il 1780. Il suo problema fondamentale è la fondazione di una metafisica come scienza. Il progetto iniziale resta incompiuto ed il Filosofo approderà ad una forma di agnosticismo. L’oggettività del noumeno, che nel Medioevo aveva destato la grande questione degli Universali, è in se stessa inconoscibile. Si può costruire una nuova oggettività trascendentale intersoggettiva, relativamente al piano gnoseologico, attraverso le categorie del giudizio. La Rivoluzione Copernicana di Kant fonda i presupposti del contemporaneo soggettivismo scientifico e critico e le categorie spazio temporali permetteranno lo sviluppo dell’ermeneutica di Gadamer e del circolo storico della comprensione.

 

[ix] Si tratta della critica mossa da Heidegger nel suo libro del 1951 Che cosa significa pensare? alla ragione contemporanea, incapace di porsi la fondamentale domanda di ogni Filosofia sul senso dell’Essere. Ovviamente le conclusioni cui giungerà il filosofo saranno l’impossibilità di pensare filosoficamente se non in termini metafisici, ed il rifiuto del pensiero categoriale proprio delle classiche Filosofie sistematiche. Il pensiero autentico è quello divergente della rottura nei confronti della tradizione, e spesso riaffiora nell’ombra, nel chiaroscuro e nel non detto. Il vero si oppone alla logica razionale, e si lascia scoprire nel sentimento poetico, come Heidegger sostiene nella sua raccolta di poesie del 1954 L’esperienza del pensare. Si ritrovano qui ovvi richiami al Bruno degli Eroici furori.

 

[x] Questa tesi è portata avanti da Hegel nella sua opera maggiore La fenomenologia dello spirito del 1807.

 

[xi] Si vede bene che questo “comprendere” potrebbe essere inteso come un’anticipazione dei temi ermeneutici di Gadamer.

 

[xii] Husserl affronta il problema della conoscenza nella Crisi delle Scienze europee del 1936. Come farà poi Heidegger prende atto della carenza di un pensiero critico e di una coscienza razionale di tipo filosofico che si ponga a guida delle scienze, perché queste non si perdano nel tecnicismo smarrendo l’uomo come loro primo soggetto. Il dubbio metodico cartesiano gli permette la riduzione fenomenologica nell’epoché, che attua la sospensione del giudizio sul mondo circostante fino a ritrovare gli assiomi apodittici sui quali poter fondare la conoscenza per dirigerci intenzionalmente sul mondo in funzione operativo pragmatica e attraverso l’uso del linguaggio.

 

[xiii] Gadamer sviluppa la sua Filosofia ermeneutica in Verità e metodo nel 1960, impostando la problematica contemporanea come un programma folto di differenti interpretazioni, corrispondenti ad altrettante visioni del mondo sostanzialmente storiche. Persino il linguaggio diventa un sistema strutturato identificativo del popolo che lo adotta, espressione contestuale di una filosofia di vita. Il problema della Scienza potrebbe perciò avviarsi ad una soluzione sulla base della comprensione linguistica al di là dei rischi di equivocazione sempre presenti. Lavorare in questa direzione implica però uno sforzo per la costruzione di un linguaggio comune a tutta la Comunità scientifica, ed una reciproca comprensione dei vissuti, rivalutando il significato del pregiudizio inteso come possesso culturale e acquisito per tradizione nel passato.

 

[xiv] Implicita è qui la critica alla morale formale di Kant e ad ogni forma di sapere che sia incapace di tradursi in atto, mentre è evidente la positiva considerazione per il binomio aristotelico tra virtù e saggezza pratica, che va oltre quello platonico ispirato al possesso della sapienza meramente teoretica.

 

[xv] Popper ne’ La lezione di questo secolo scritto nel 1974 guarda con amarezza agli orrori del Novecento, attribuendone la responsabilità ai tre grandi mostri del Capitalismo, Nazismo e Comunismo. Nemici dichiarati della società liberale e del pensiero critico, hanno attuato sul pianeta le più pericolose forme di soprusi contro le libertà costituzionali praticando il totalitarismo politico. Gli intellettuali dogmatici e poco aperti alla democrazia hanno avuto in ciò un ruolo negativo di primo piano. Bisogna imparare la lezione e riparare attraverso il fallibilismo metodologico che si oppone alla presunzione

politica così come al verificazionismo scientifico dei neopositivisti del circolo di Vienna. Qui il problema filosofico e scientifico si ricongiunge con quello propriamente storico politico, quasi a riconsacrare quell’unità globale della persona e dell’umanità.

 

[xvi] I tre principi della logica classica sono: identità, non contraddizione e terzo escluso. Il principio di identità sostiene “A è A”, per significare l’uguaglianza di ogni realtà con se stessa. Il principio di non contraddizione sostiene “A non è non A”, per spiegare che ogni realtà non può essere diversa da sé e uguale ad un’altra. Il principio del terzo escluso sostiene “A o è A o è non A”, per affermare che ogni realtà è vera o falsa.

 

[xvii] Ne parla Kant quando nella Ragion Pura spiega il senso della personale ricerca filosofica «intendo restituire un tribunale alla ragione». Egli vuole comprendere i limiti della mente umana, per sondare le possibilità gnoseologiche della ragione stessa, relativamente alla questione del noumeno. Anche la sua ricerca muove, quindi, da una domanda di tipo metafisico.

 

[xviii] Per sillogismo si intende un ragionamento in cui, poste due premesse, una detta maggiore e l’altra minore, ne discende una terza, chiamata conclusione. Il sillogismo può essere di due tipi: induttivo, se da una premessa particolare giunge a conclusioni universali; deduttivo, se da una premessa universale porta a conclusioni particolari. Il sillogismo di tipo filosofico argomentativo è quello deduttivo, che non scopre nulla di nuovo. Il sillogismo induttivo, invece, viene utilizzato nel ragionamento scientifico ed ha come suo obiettivo la scoperta di nuove verità empiriche e sperimentali. Il sillogismo si dice anche dialettico, se argomenta da opinioni mutevoli; apodittico, se le sue premesse sono universalmente vere.

 

[xix] «...non è... possibile che ci sia qualcosa tra due proposizioni contraddittorie, ma è necessario affermare o negare una cosa di un’altra, quali che esse siano. Questo risulta chiaro quando si sia definito che cos’è il vero e che cos’è il falso. Infatti dire che l’essere non è, o che il non-essere è, è falso; il dire che l’essere è, e che il non-essere non è, è vero: perciò chi dice “è” o “non è” o dice il vero o dice il falso; ma né dell’essere né del non-essere si può dire “non è o è”...» Aristotele, La Metafisica.

 

[xx] Aristotele, La Metafisica.

 

[xxi] Si ricordi che Aristotele definisce nella Metafisica l’essenza come ciò per cui una cosa è quella che è, e come sinolo di materia e forma di ogni realtà conoscibile.

 

[xxii] Si faccia qui riferimento alla radice etimologica del verbo latino divertere: distogliere, allontanare, nel senso di distrarre.

 

[xxiii] Il Pensiero debole è recente opera dell’esistenzialista italiano Gianni Vattimo. La sua tesi propende per una filosofia in crisi, che ha smesso di cercare il fondamento ontologico del reale, il cui futuro è un pensiero incapace di forti sintesi teoretiche.

 

[xxiv] Tra i più noti si ricordi Nicola Abbagnano, padre dell’esistenzialismo italiano.

 

[xxv]  «...gli Stoici sognano un gran numero di ragionamenti indimostrati, ma ne espongono specialmente questi cinque, ai quali sembrano ridursi tutti i rimanenti: quello che dalla connessione e dall’antecedente conclude il conseguente, come “Se è giorno, c’è luce. Ma è giorno, dunque c’è luce”. Quello che dalla connessione e dal contrario del conseguente conclude il contrario dell’antecedente, come: “Se è giorno, c’è luce. Ma non c’è luce dunque non è giorno”. Quello che da un collegamento negativo e da una delle parti del collegamento conclude il contrario dell’altra parte, come: “Non è giorno e notte. Ma è giorno. Dunque non è notte”. Quello che da un collegamento disgiuntivo e da una delle parti collegate conclude il contrario dell’altra, come: “O è giorno o è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte”. Quello che da un collegamento disgiuntivo e dal contrario di una delle parti collegate conclude l’altra: “O è giorno o è notte, ma non è notte. Dunque è giorno”...» Sesto Empirico, Schizzi pirroniani.

 

[xxvi]  «...negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo...l’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia...» I Presocratici, Testimonianze e frammenti.

 

[xxvii] «...mi sembra che date due dottrine degli antichi filosofi, l’una di quelli che ritenevano che tutto avvenisse per fato e che questo fato imponesse la forza della necessità... l’altra di quelli cui sembrava che vi fossero moti volontari dell’anima non retti da alcun fato, Crisippo, come arbitro onorario, abbia voluto trovare un medio termine; e, pur inclinando piuttosto dalla parte di quelli che intendono liberare i moti dell’anima dalla necessità, usando le sue argomentazioni scivola nelle difficoltà in modo tale che, contro voglia, finisce col dare supporto alla tesi della necessità del fato...» Cicerone, De fato.

 

[xxviii]  «...si prenda ad esaminare tra queste, per il momento, la cosiddetta proposizione ipotetica Questa risulta composta da una proposizione duplicata oppure da proposizioni fra loro differenti e collegate per mezzo della congiunzione “se” o “se davvero”: così, ad esempio, da una proposizione duplicata e dal “se” congiunzione viene a risultare la seguente ipotetica: “se è giorno, è giorno”; invece da proposizioni fra loro differenti e collegate mediante la congiunzione “se davvero” viene a risultare quella che suona così: “se davvero è giorno, c’è luce” ...ragion per cui, se si rispetta questa premessa e se il conseguente tien dietro all’antecedente, anche l’ipotesi risulta vera; se, invece, questa premessa non viene mantenuta, l’ipotetica risulta falsa. Perciò, prendiamo subito le mosse da questo punto e mettiamoci a considerare se si possa trovare una qualsiasi proposizione ipotetica che sia vera e rispettosa delle premesse suddette» Sesto Empirico, Contro i logici.

 

[xxix] Si tratta della Critica della ragion pura.

 

[xxx]  «...invece di parlare secondo il principio del terzo escluso (principio dell’intelletto astratto), si dovrebbe dire piuttosto: tutto è opposto... il risultato prossimo dell’opposizione posta come contraddizione è il fondamento che contiene in sé tanto l’identità quanto la distinzione come superate e deposte a puri momenti ideali...» Hegel, Scienza della logica.

 

[xxxi] «...è uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell’ordinaria rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità... la contraddizione viene ordinariamente allontanata, in primo luogo, dalle cose, da ciò che è vero e dal vero in generale; si afferma, che non v’è nulla di contraddittorio. Essa viene poi anzi, rigettata sulla riflessione soggettiva... la riflessione vale in generale... come un’accidentalità, quasi un’anomalia e un transitorio parossismo morboso...» Hegel, Scienza della logica.

 

[xxxii] Hegel, Scienza della logica.

 

[xxxiii] La legge 53/2003, meglio nota come “Riforma Moratti”, fa espressamente riferimento, unitamente alla questione del tutor e del portfolio degli studenti, alla personalizzazione dell’insegnamento. Questa nozione di personalizzazione dovrebbe comprendere e superare quella, ormai desueta, di individualizzazione, perché fa riferimento ad un’idea di uomo, inteso come unità inscindibile di anima e corpo. Difatti, mentre l’idea di individualizzazione potrebbe essere fraintesa a giustificare anche un isolamento dell’allievo dal gruppo dei pari, durante l’esperienza didattico curricolare; la personalizzazione pone massima attenzione ai processi di integrazione dell’allievo all’interno del gruppo classe, valorizzando anche quelle risorse culturali non definibili entro i termini di un’esperienza di tipo specificatamente curricolare. Per questo motivo nella riforma, ideata dal Pedagogista Giuseppe Bertagna, si parla anche di abolizione del tempo pieno a favore del tempo dell’extra scuola, e di certificazione di competenze. Sottolineando il ruolo dell’autonomia, che può essere attuata proprio a partire dalla suddivisione istituzionale proficua del tempo scuola, pianificando un calendario annuale di attività cadenzate dai ritmi di lavoro e di riposo per le festività programmate. Effettivamente il merito di aver parlato per primo di “personalizzazione” dell’insegnamento è ascrivibile al ministro Bassanini, e alla sua legge 59/’97 sull’autonomia scolastica, ripresa dalla legge 275/’99. L’insegnamento personalizzato era, così, riferito al curricolo individuale dell’allievo, posto in relazione con quello espresso dalla programmazione di tipo ministeriale per tutto il territorio nazionale, e con quello scolastico del Pof, che è espressione della convergenza di intenti tra attività locali presenti sul territorio e scuola, e tra programmazione ministeriale ed esigenze dell’istituto, in quanto soggetto giuridico autonomo.

 

[xxxiv] Vedi Simone Weil, La prima radice.

 



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