Quale che sia il governo in carica, di destra o di sinistra, si ripete sempre lo stesso schema: si va a rovistare nel passato di ogni ministro, per vedere se in gioventù fece parte di gruppi dell’estrema sinistra comunista o dell’estrema destra fascista e per poi attaccarlo per il proprio “colpevole” passato. In verità, quello che stupisce è constatare che i personaggi che divengono ministri, avendo avuto un passato nell’estrema destra comunista o nell’estrema destra fascista, sono poi disinvoltamente transitati all’estremo centro liberale e atlantista. Quasi come se la conversione al liberal-atlantismo fosse condizione necessaria per poter accedere alla stanza dei bottoni, avendo poi comunque sempre la spada di Damocle che pende sulla propria testa per il passato disallineato rispetto al dogma dominante dell’estremo centro neoliberale. Anche da ciò emerge chiaramente l’essenza dell’odierno non democratico ordine della civiltà dei mercati. Come abbiamo mostrato nel nostro studio “Demofobia”, tale ordine risulta fondato in astratto sul pluralismo partitico e in concreto sulla grosse Koalition neo-liberale e sul Partito Unico del Capitale. Insomma, la civiltà dei mercati ammette liberamente partiti di destra, di sinistra e di centro a patto che siano tutti ossequiosi rispetto al verbo neo-liberale e atlantista. Non passi inosservato il fatto che anche il neoministro della cultura Alessandro Giuli ha prontamente fatto il suo giuramento di fedeltà all’ordine dominante: “sono un liberale”, ha detto. Come se appunto non fosse permesso non essere liberali.
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