filosofia, servi della finanza, migranti

I centri sociali “okkupati” delle variopinte moltitudini desideranti che confondono il comunismo con la liberalizzazione delle droghe, con il libero godimento trasgressivo post-familiare e con la dissoluzione di ogni identità comunitaria borghese e proletaria potrebbero con diritto essere intitolati a Goerge Soros o a David Rockefeller più che a Marx e Lenin: il loro ribellismo anti-borghese e new global è, infatti, il versante sinistro della ribellione delle  élites deterritorializzate contro la vecchia cultura borghese e proletaria, in nome del capitalismo assoluto senza proletari e senza borghesi, ma solo con plebi senza diritti e senza lavoro.




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Di admin

8 pensiero su “Centri sociali okkupati: i servi della finanza”
  1. Professore, potrebbe spiegarci e esplicitare la sua affermazione? Perfavore. Oppure consigliarmi di leggere un suo articolo in cui scrive al riguardo.?

  2. Egregio prof. Fusaro,
    ritengo che si debba soppesare con cautela le affermazioni, anche nella prospettiva dell’effetto che esse potrebbero produrre. Mi spiego.
    Sebbene ogni frase riferita all’analisi di un processo strutturale può a ragione essere intesa come un assoluto, seppur un assoluto legato ad un tempo e ad un luogo della storia moderna e contemporanea ad esempio del capitalismo (a partire dal ‘500 fiorentino), criticare invece un luogo di sviluppo di processi culturali -o sovrastrutturali- in modo assoluto, facendo trasparire giudizi di valore che mi pare vadano oltre ad un’oggettiva analisi storica, credo sia una grave errore, soprattutto se essi giudizi si attribuiscono ad un fenomeno multiforme che è nato, si è trasformato e nulla esclude che possa subire ulteriori trasformazioni.
    Estremizzando la critica, si potrebbe fare lo stesso con una miriade di istituzioni statali, accusandole di essere, per loro natura, l’incubatore del pensiero unico liberista e globalista. Si potrebbe, ad esempio, partire dalla scuola. Questo può a ragione essere condivisibile, attualmente, ma per ovvie ragioni non lo può essere in termini assoluti dalla storia e dalla geografia.
    I centri sociali “okkupati” si sono inseriti come compensazione, in una fase di grave carenza di spazi di confronto politico che non fossero “medio-progressisti”, o poco più, spazi propri delle sedi e sezioni dei partiti di massa, i quali già da decine di anni avevano perso le propulsioni rivoluzionarie (come il socialdemocratico PCI che già con la fine degli anni ’40 lodava a più riprese una carta costituzionale che sanciva la pacificazione sociale, difendendo la proprietà privata e centrando la repubblica sul lavoro con la grave lacuna di non specificare QUALE tipo di lavoro, ovvero quale tipo di rapporto dovesse esistere tra lavoratore e mezzo di produzione).
    Insomma, centri sociali come spazio della politica extraparlamentare “a sinistra della sinistra”, negli anni ’70. C’erano spazi occupati e centri veri e propri afferenti a molti gruppi diversi, e, sicuramente, come allora anche oggi abbiamo aree diverse che hanno scelto il CSO o CSA come modello aggregativo per dar vita a molte attività e servizi di varia natura, più o meno integrate con gli strati sociali più dimenticati e vituperati.
    In primo luogo, quindi, non è possibile secondo me generalizzare. In secondo, più in generale, non penso sia utile denigrare qualsiasi attività simile, con un’analisi assoluta relativa ad una fase storica che, evitando una spaccatura sociale, potrebbe invece essere ricondotta su un percorso di lotta più proficuo per proletari e neo-proletari, partendo anche da quegli ambienti.
    Sull’analisi contingente -ammesso che si riconosca e si espliciti quella contingenza, però!- sono assolutamente d’accordo: in molti centri sociali vedo una ridefinizione del linguaggio, sia comunicando con l’esterno che, cosa ancor più grave, nella comunicazione interna, che puzza di cittadinismo e qualunquismo, sloganismo da stadio e socialdemocrazia fuori tempo massimo, nuove “prospettive” che mischiano progressismo e antichi nemici in camicia nera (giustificabili questi ultimi, a mio avviso, solo per le gravi violenze verificatesi ripetutamente ai danni di persone marginalizzate). Lo spostamento del piano della lotta, anche fisica, solo sul piano del conflitto tra aree politiche e degli opposti estremismi.
    Tutto questo senza capire che i neofascismi non avrebbero terreno se ci fossero delle forze politiche di matrice socialista che si assumessero le questioni del proletariato, sottraendole all’egemonia retorica delle nuove destre e ai loro rigurgiti razziali o nazional-ISTI (non nazionali), ovvero osservando i problemi in modo più “scientifico”, abbandonando le demagogie ottocentesche in merito alla superiorità razziale, nazionale, ecc (che furono la base sovrastrutturale di una lunga epoca di colonialismo e neoclonialismo).
    Ci sarebbe da capire cosa rimanga oggi, delle spinte propulsive di spaccatura, anche violenta, degli anni ’70 e ripartire da quelle per ricominciare a parlare di lotta di classe, in quei contesti sottratti all’abbandono e al degrado umano, promuovendo iniziative pesanti di contrasto al neocolonialismo in salsa UE, opposizione forte al potere coercitivo della finanza europea e mondiale che schiaccia gli stati che sono sorretti, come al solito, dalle schiene dei più poveri.
    Insomma, caro professore, non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca. Pensiamo, invece, a tutti i modi possibili per risollevare, anche nei contesti più “distratti” dalle questioni cruciali, l’attenzione sull’analisi lucida, cinica e spietata dei processi strutturali dell’economia globale e da lì ripartire con l’azione politica.
    Saluti

  3. chissà se il vanaglorismo assolutista :), quando si specchia, riesce a non affogare. la primaria indicazione che darei al bel diego è: c’è un altro specchio, opaco però, dove relativo e umiltà sono amici che potrebbero aiutarti
    da “Romantico attardato” a “Romantico delirante”

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Diego Fusaro