Il ritorno di Conte, in versione “come si cambia per non morire”, riporta alla mente un indimenticabile successo di Fiorella Mannoia. Sembra passato un secolo da quando l’anonimo giurista foggiano, catapultato improvvisamente nel grande gioco della politica, si autodefiniva in Aula l’avvocato del popolo in compagnia di Matteo Salvini, poi rapidamente rinnegato sulla via di Bruxelles. Con una disinvoltura degna dei più audaci trasformisti di fine Ottocento, l’ex notaio Conte si è trasfigurato in un baleno da capo del governo “sovranista” a garante della Restaurazione elitaria, dimostrando urbi et orbi di saper recitare contemporaneamente e con un certo riconosciuto stile tutte le parti in commedia. Emulo inconsapevole dei pittoreschi cugini Posalaquaglia, testimoni pro e contro nella stessa causa in un esilarante film di Totò e Peppino, anche Conte è riuscito infatti ad essere “populista” e “moderato” nella stessa legislatura, saltando da Salvini a Zingaretti pur di rimanere abbarbicato a Palazzo Chigi. Nel suo accademico discorso tenuto oggi alla Camera, Conte ha parlato molto per dire poco o nulla, specialità nella quale eccelleva un campione della prima Repubblica come Arnaldo Forlani, meglio conosciuto come il “coniglio mannaro”. Ma le similitudini con la vecchia classe dirigente democristiana finiscono qui. Scomodare la prima Repubblica per raccontare questa pagina tutto sommato parodistica della vita politica italiana, caratterizzata da promesse da marinai, contorsioni linguistiche e piroette spericolate, ci sembra effettivamente azzardato. Più che uno statista, Conte è parso oggi “un fine dicitore del nulla”, per usare una caustica sintesi utilizzata all’epoca da Bettino Craxi per colpire il giovane fondatore di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini. Campione di galateo e fanatico del politicamente corretto, il nuovo Conte segue nei fatti lo stesso identico tracciato prima solcato dai vari Monti, Letta e Renzi. Archiviata la parentesi gialloverde, sono tornati improvvisamente di moda i vecchi ritornelli cari all’establishment, quelli che predicano il contenimento del debito pubblico e l’avvio delle sempiterne riforme strutturali che garantiscono presuntivamente crescita economica ed equa redistribuzione della ricchezza. Il tutto condito da un europeismo spinto, accompagnato da una dichiarazione di fedeltà assoluta ai dettami del neoliberismo economico e della globalizzazione politica, più il riposizionamento saldamente “euroatlantico” del nostro Paese dopo i giovanili e precedenti sbandamenti “russo-cinesi”. Il noto tweet con il quale Trump spingeva il “caro Giuseppi” ha prodotto evidentemente i suoi effetti. Nel frattempo le opposizioni affilano i coltelli, in Parlamento e nelle Piazze, denunciando il furto di sovranità compiuto ai danni del popolo italiano. Si respira un’atmosfera tristemente simile a quella del 2011, allorquando Francia e Germania imposero la cacciata di Berlusconi e l’arrivo al potere del bocconiano Monti, fautore di inutili politiche di austerità che riuscirono nell’impresa di aumentare contemporaneamente povertà e debito. Anche oggi in Europa festeggiano, mentre i vecchi e arcigni cerberi dell’apparatik continentale si lasciano andare a dichiarazioni sconvenienti: “troveremo il modo di ricompensare l’Italia”, ammicca il tedesco Oettinger, capo del bilancio nell’esecutivo guidato dall’uscente Juncker che in tempi non sospetti disse che “i mercati avrebbero insegnato agli italiani come si vota”. Anche per questo forse si è sentito un forte brusio nell’Aula di Montecitorio mentre Conte, in piena excusatio non petita, precisava che l’Italia da lui guidata è immune dai tentativi di eterodirezione che provengono tanto da potentati economici che da poteri esteri. Una affermazione che sulla bocca di Conte, già intercettato mesi fa nel promettere alla Merkel che avrebbe stabilizzato l’Italia, suona piuttosto beffarda. E inquietante. 





Citazioni

"Ci è stata data un vita abbastanza lunga e per il compimento di cose grandissime, se venisse spesa tutta bene; ma quando si perde tra il lusso e la trascuratezza, quando non la si spende per nessuna cosa utile, quando infine ci costringe la necessità suprema, ci accorgiamo che è già passata essa che non capivano che stesse passando. È così: non abbiamo ricevuto una vita breve, ma la rendiamo tale, e non siamo poveri di essa ma prodighi". (Seneca, "Sulla brevità della vita")







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Di admin

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Diego Fusaro