Libri di Diego Fusaro

E adesso apprendiamo che anche Bialetti, storico marchio italiano del caffè, è stata ceduta. Più precisamente, è stata ceduta ai cinesi. Un altro marchio iconico del genio italiano abbandona la patria per trasferirsi altrove, negli spazi sconfinati della globalizzazione della competitività senza limiti e soprattutto senza regole. Il cui motto fondamentale pare potersi condensare nelle parole “la moneta cattiva caccia quella buona”: è infatti in nome del libero mercato competitivo e senza confini, che meglio sarebbe definire libero cannibalismo, che le aziende stanno una dopo l’altra abbandonando l’Italia per traslarsi ove sia più conveniente produrre. L’aveva scritto già Adam Smith nel suo capolavoro “La ricchezza delle nazioni” del 1776: il capitale non ha patria ed è per definizione sempre in movimento, pronto a spostarsi al primo controllo fiscale o quando le regole del gioco siano più convenienti in altre sedi. Che il sans-frontiérisme sia uno dei cardini ideologici della religione capitalistica è evidente, ed era appunto già noto ad Adam Smith: che le sinistre, nella loro metamorfosi kafkiana che le ha portate dal rosso al fucsia, dalla falce e martello all’arcobaleno, abbiano sostituito l’internazionalismo socialista con il sans-frontiérisme mercatista fa parte del processo di normalizzazione delle sinistre stesse, ormai divenute quanto le destre guardie della globalizzazione neoliberale. E dunque nemiche del lavoro e delle classi lavoratrici, per le quali la globalizzazione della competitività rappresenta un autentico supplizio. È anche per questo motivo che abbiamo già da tempo proposto di ribattezzare la globalizzazione con il neologismo di glebalizzazione o, se si preferisce, con la locuzione globalizzazione della miseria. In virtù dei processi di cosmopolitizzazione del capitale, non sono i diritti occidentali a traslarsi a oriente, come credono ingenuamente le anime belle del globalismo liberale di destra come di sinistra (i western globalists). Accade esattamente il contrario: i diritti occidentali, conquistati con le lotte di classe e con le piazze, evaporano nel gioco planetario della competitività, in cui, come ricordavo, la moneta cattiva caccia quella buona. In fondo, la valorizzazione del valore capitalistica si fonda anche e non secondariamente sulla ricerca inesausta di qualcuno che sia disposto a produrre il medesimo a prezzi più bassi. Ne scaturisce un gioco al massacro per le classi lavoratrici di tutto il pianeta. Ecco, dunque, il volto macabro delle cosiddette “sfide della globalizzazione”, secondo la locuzione orwelliana con cui i padroni del discorso, i monopolisti della parola e gli amministratori del consenso sempre celebrano i processi esiziali della competitività planetaria: dalla quale esce vincente sempre e solo il capitale con le sue classi di riferimento. Con tutta evidenza, la sfida non è accettare il piano della competitività globale ma provare a sottrarvisi, anzitutto deglobalizzando l’immaginario e provando a immaginare un mondo internazionalestico di Stati sovrani non in competizione fra loro secondo le leve del mercato senza confini e senza regole.