Socrate

Si torna a discutere del tema del femminicidio in seguito all’orribile assassinio di Ilaria Sula. Un omicidio orrendo, che non può non destare orrore e condanna unanime. Su questo punto, nulla quaestio. Discutibile invece, come sempre, la narrazione che è stata prodotta a partire da questo esecrabile episodio di cronaca. È infatti partito il solito racconto a reti unificate del maschio sempre e comunque omicida in pectore, con una strategia narrativa che non fa altro che riproporre il vecchio razzismo rimodulato sotto forma di razzismo di genere: dire infatti che ogni maschio è potenzialmente omicida non è affatto diverso dal dire, come per lungo tempo orribilmente si è fatto, che chiunque abbia la pelle di un certo colore è in quanto tale diverso e pericoloso. Come sempre, però, la narrazione dominante avviene a reti unificate e viene imposta ipnoticamente alle masse tecnonarcotizzate e teledipendenti, senza possibilità di contraddittorio e senza possibilità di ascoltare prospettive differenti rispetto al coro virtuoso imposto come unico discorso possibile. A questo riguardo, non devono sfuggire, tra le tante, le parole recentemente pronunciate dal musico Ermal Meta: “In quanto uomo sono spaventato del mostro che dorme dentro di me. Perché io so che c’è, così come lo sente dentro di sé ogni uomo”. Sono con tutta evidenza parole allucinanti, prive di ogni logica e totalmente piegate alla narrazione mainstream sopra menzionata. Può essere che dentro il musico in questione dorma effettivamente un mostro, come egli stesso ha dichiarato: ma con che diritto può egli estendere questa sua personale percezione all’intero genere maschile? Perché mai dentro ogni maschio dovrebbe dormire un mostro, come dice il musico? Su quale base razionale egli svolge questa considerazione? Ferma restando la piena condanna di ogni violenza, sia dell’uomo sulla donna, sia della donna sull’uomo (sì, esiste anche questo tipo di violenza), il ritornello dell’uomo necessariamente violento e potenzialmente femminicida fa acqua da tutte le parti e risulta pienamente funzionale al discorso neoliberale, che aspira in ogni modo a distogliere lo sguardo dalla lotta di classe tra alto e basso per dirottarla su lotte immaginarie come quella tra maschi e femmine. La lotta di classe viene in tal maniera resa invisibile e l’attenzione viene spostata sulla inesistente lotta di genere, cara all’ordine neoliberale soprattutto perché non sfiora nemmeno di striscio la contraddizione economica del classismo capitalistico. Il conflitto non è tra maschi e femmine ma tra sfruttati e sfruttatori, femmine o maschi che siano. Banalmente, in ogni società nella storia umana le donne delle classi dominanti contavano di più degli uomini delle classi dominate, a meno che non si voglia riconoscere che Cleopatra fosse sfruttata dagli schiavi che trasportavano i blocchi delle piramidi e che Ursula von der Leyen lo sia dagli operai della Fiat Mirafiori. Questa forma mentis demenziale e organica all’ordine dominante, come ricordavo, riproduce in un altro contesto il vecchio razzismo, applicandolo al genere. Per non tacere poi del fatto che, per definizione, la responsabilità è dell’individuo: ciascuno risponde delle proprie azioni e non certo di quelle di un’intera categoria, ché altrimenti verrebbe fatto valere un cattivo universalismo, quale è appunto quello del razzismo, che pretende di individuare una categoria a cui affibbiare tutta una serie di prerogative negative. Insomma, la narrazione intorno ai femminicidi risulta pienamente organica al discorso neoliberale e merita di essere decostruita criticamente.

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