Sta facendo molto discutere, soprattutto in rete, ma non solo, l’immagine della studentessa iraniana che si spoglia e passeggia in intimo tra donne coperte integralmente, come è consuetudine presso il popolo iraniano. L’immagine viene ora presentata come il trionfo della protesta femminile in nome della propria emancipazione nel mondo islamico. Si tratta, come subito diremo, dell’ennesima prestazione propagandistica dell’occidente o, meglio, delluccidente liberal-atlantista, il quale da tempo sogna una Velvet Revolution o rivoluzione colorata che dir si voglia per rovesciare il governo iraniano e trasformare l’antica e nobile Persia in una dependance della civiltà dell’hamburger. Si potranno muovere tutte le critiche che si vorranno all’ordine “teocratico” iraniano, ma deve essere un punto fermo che l’emancipazione del Popolo iraniano spetta soltanto ad esso e non può essere certo “esportata” con missili democratici e bombe intelligenti, secondo il classico modus operandi dell’imperialismo statunitense, secondo uno squallido copione che abbiamo già visto molteplici volte realizzarsi in questi anni. Secondo la narrativa occidentale (anzi uccidentale), peraltro, l’emancipazione della donna coinciderebbe con il suo passaggio dal velo islamico al corpo ignudo, dal burka alla minigonna: in sostanza, da una condizione di sfruttamento della donna a una condizione diversa ma ugualmente orientata a sfruttare la donna. Nel regno reificato del capitale, come già scriveva Gramsci nei “Quaderni del carcere”, la donna viene considerata e trattata come un “mammifero di lusso”, che – aggiungiamo noi – deve essere sempre in vista e senza indumenti, disponibile per il godimento come unico orizzonte di senso della civiltà anomica contemporanea. Ci permettiamo allora di sottolineare che la donna, che certo non è emancipata nel mondo iraniano, non lo è neppure in quello uccidentale: basta anche solo considerare fugacemente la questione salariale, prendendo coscienza del fatto che ad oggi le donne sono retribuite con salari più bassi rispetto agli uomini. Più in generale, basta prendere coscienza delle condizioni sociali e del lavoro delle donne per essere consapevoli di quanto non siano emancipate neppure nel “libero e democratico” occidente. Oltretutto, come non ci stanchiamo di ribadire, il conflitto non deve essere inteso come guerra tra maschi e femmine, come vorrebbe far credere la raison neoliberale, avente come sempre lo scopo di frammentare il conflitto di classe e proiettarlo nell’orizzontalità degli scontri interni alla medesima classe. Banalmente, dai tempi di Cleopatra ad oggi una donna delle classi possidenti ha più potere di un uomo delle classi popolari. Per questo, giova ribadirlo, il conflitto di classe non è tra maschi e femmine ma tra sfruttati e sfruttatori, uomini o donne che siano.
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