Non mi stancherò di ribadirlo. Il vero giornalismo dovrebbe essere quello che rende pubblico ciò che il potere vuole resti segreto. Ecco perché oggi, salvo rare e preziose eccezioni, non v’è vero giornalismo: solo cani da guardia, con guinzaglio più o meno lungo. Solo apologeti dello status quo, anche se con rari casi di non allineati. Per questo, propongo di definire l’odierno giornalismo, in senso generale, con una formula desunta dalla “Società dello spettacolo” di Debord. Il giornalismo – questa la definizione – è oggi il “monologo elogiativo” che la società totalmente amministrata canta senza posa di se stessa. Il ceto giornalistico è, pur con le sue preziose eccezioni, il clero regolare – come disse Costanzo Preve – che celebra con cadenza quotidiana le virtù onnipotenti del nuovo dio della società del mercato idolatrico, il Mercato deregolamentato e cosmopolitico, apolide e senza frontiere. Basti anche solo sfogliare i principali rotocalchi turbomondialisti del nostro Paese: vi troverete ogni giorno ribadite le solite geremiadi demofobiche, le immancabili preci ipermercatistiche e le ininterrotte omelie liberiste. All’unisono, quasi si trattasse di un unico messaggio che si finge plurale moltiplicandosi in tutti i canali, i giornali al servigio della società dello spettacolo e delle classi dominanti della mondializzazione infelice vanno ripetendo un’unica filastrocca: quella in cui viviamo è la migliore, nonché la sola, società possibile. Adattatevi, consumate merci e sopportate il mondo così com’è. Questo, con estrema ma plausibilissima sintesi, il messaggio a senso unico del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto. La finzione ad alto tasso ideologico del messaggio unico fintamente pluralizzato si lascia cristallizzare nella tesi numero 105 della già citata “Società dello spettacolo“: “Tutto ciò che essa [la società dello spettacolo] dice è tutto ciò che è”. Il reale si risolve nel virtuale, l’esperienza nella rappresentazione e l’essere nella narrazione. In luogo del reale, v’è allora il reale mediatizzato, cioè adattato ad hoc per legittimare il rapporto di forza egemonico, ossia il dominio dei dominanti e la subalternità dei dominati. Questo, in effetti, fa oggi il giornalismo: con la sua narrazione a senso unico, opera affinché i dominati non insorgano ma, al contrario, amino le proprie catene. Per questo, non sarebbe fuorviante definire i giornalisti di oggi, nel loro complesso, i mediatori del consenso. Essi si fingono spesso imparziali e super partes, per occultare quanto è più possibile il proprio patteggiare per il partito di maggioranza, quello del mercato deregolamentato connesso con il nuovo ordine mondiale iperclassista a reificazione planetarizzata.
(Visualizzazioni 45 > oggi 1)