Riflessioni ‘orientali’ su La notte del mondo di Diego Fusaro (Utet, 2019, pag. 574, € 19)

I

La notte del mondo, saggio profondo e di grande portata,ha come tema il problema della prassi nel confronto tra Marx e Heidegger, ovvero se e che cosa sia possibile fare per liberare l’uomo dal sistema tecnofinanziario che lo ha degradato e svuotato. Il saggio di Fusaro è una lettura intonata a questo tempo della miserevole fine del “governo del cambiamento”, la quale sembra la riprova dell’impotenza dell’azione popolare contro l’impianto tecnocapitalista, mondialista, elitista, governato dalla logica dei danari quali simboli ed essenza dei valori di scambio, che oscurano ogni altro valore e progetto: la notte del mondo.

Non intendo qui offrire una ulteriore recensione del libro – altri hanno provveduto (https://sollevazione.blogspot.com/2019/05/fusaro-e-la-notte-del-mondo-di-eos.html?m=1) – ma alcune osservazioni, prima ‘occidentali’ poi ‘orientali’, sui suoi temi; concludendo con una proposta costruttiva.

Nella lettura del saggio, ho riflettuto su come gli occidentali sono persuasi e impregnati a fondo di due fedi, lusinghiere quanto false:

-che l’uomo, individualmente, sia consapevole dei propri processi percettivi, valutativi, motivazionali, decisionali, comunicativi; che la sua personalità sia costante nel tempo e unitaria; che sia razionale e libero se non manipolato o coartato dall’esterno;

-che la storia sia fatta dalle azioni volontarie e intenzionali degli uomini, e che quindi sia possibile progettare cambiamenti ed eseguirli mediante azioni di massa organizzate.

Della prima fede e della sua confutazione empirico-scientifica mi sono occupato nel saggio Neuroschiavi, in cui Paolo Cioni ed io dimostriamo che, se non si attiva consapevolmente e sapendo come farlo, l’uomo, come singolo, non è nemmeno un in-dividuo, bensì un dividuo, cioè un qualcosa di diviso, incoerente, privo di identità unitaria e costante, predisposto alla manipolazione, ampiamente inconsapevole, irrazionale, tendente all’inconsapevolezza e al dormiveglia cognitivo acritico.

Sulla seconda fede devo fare qui qualche osservazione ispirata dal saggio di Fusaro.

In esso si ricorda che Marx, applicando il metodo dialettico hegeliano al mondo concreto -cioè del realismo materialistico feuerbachiano e in generale del senso comune- riteneva essere gli uomini autori della storia, e in particolare la classe proletaria destinata a farsi autrice della rivoluzione che avrebbe raddrizzato il mondo rovesciando il capitalismo, coi suoi effetti alienanti e schiavizzanti sia per i proletari che per i capitalisti stessi. Marx, a dire il vero, restò ambiguo sul punto se questo raddrizzamento sarebbe avvenuto automaticamente, necessariamente, per la forza delle cose che fanno agire gli uomini, oppure per programmatica azione politica rivoluzionaria dei proletari uniti; però i marxisti sposarono questa seconda possibilità nei loro tentativi rivoluzionari, i quali hanno avuto gli esiti che sappiamo, cioè il dar vita a oligarchie di partito repressive e talvolta sanguinarie e genocide – quindi hanno palesemente mancato l’obiettivo dichiarato.

In seguito, i banchieri di tutto il mondo (non i proletari) si sono uniti, e gli stati di quel tipo sono stati assorbiti nel tecnocapitalismo, anche se ancora oggi qualche loro esponente annuncia il suo fallimento e professa di volerlo vincere e sostituire. Il tecnocapitalismo mercatista, come detto supra, si è accreditato come ordine socioeconomico naturale, quindi ottimale, imperfetto ma inemendabile e intrascendibile, non legittimamente contestabile, definitivo, conclusivo della storia.

Il saggio illustra anche la posizione di Heidegger, il quale, soprattutto nella sua seconda fase (dopo la ‘svolta’), ritiene che la storia sia la storia non (del fare) dell’uomo, ma (del manifestarsi) dell’Essere, il quale invia a ‘puntate’ il destino, cioè le ere della storia, non però come sequenza di fasi portata avanti da una dialettica logica e deducibile-prevedibile razionalmente, bensì senza un ordine comprensibile. Ora ci troviamo nell’era della tecnica, che tutto e tutti strumentalizza e oggettivizza nella logica dei valori di scambio; e che domina il genere umano rinchiudendolo in un Gestell di frenesia produttiva fine a sé stessa, una gabbia d’acciaio (per dirla con Max Weber) che l’uomo, ridotto a commodity (Bestand) del sistema produttivo, non può abbattere. Può solo, impotente e contemplativo, distaccarsi dalla sua seduzione, rifiutarla, aspettare un nuovo invio destinale (eine Schichtung) da parte dell’Essere, che cambi la situazione; e può anche anticipare (forse propiziare) l’avvento della nuova era, misticamente, con l’ispirazione poetica, particolarmente con quella di Friedrich Hölderlin e di Stefan George; mentre non può attuare un’azione politica collettiva di redenzione, perché nell’associarsi, nel Mit-sein, cade in una situazione deteriore e inautentica; né sarebbe risolutiva, quand’anche fattibile, una rivoluzione, perché, essendo questa una forma del facere, della manipolazione degli enti, che è l’anima del tecnocapitalismo, non potrebbe che riprodurre il suo carattere e la sua azione; e questo vale per ogni possibile prassi.

Quindi la prassi è impotente o, peggio, inidonea.

Ovvio che Heidegger, per siffatte idee molto più che per i suoi pochi anni da nazista, sia oltremodo inviso a tutti gli umanisti e i progressisti aspiranti attivisti, credenti delle due fedi sopra indicate.

In quanto all’invio destinale dell’Essere come unico fattore che possa porre fine all’era del tecnocapitalismo, osservo che sì, l’Essere, essendo la totalità, trascende e vanifica ogni tentativo di imbrigliarlo e prevederlo, di dominare o fermare la storia, come ho detto nella terza parte di Tecnoschiavi (Arianna, 2019); d’altronde, non mi pare necessario scomodare il destino, l’Essere e l’ontologia per darsi conto del crollo e della sostituzione dei vari sistemi politici succedutisi nella storia, perché possiamo riconoscerne le cause economiche, epidemiche, demografiche, militari, climatiche. Ciò vale anche per il tecnocapitalismo: già da anni si vede, e io ho descritto nel saggio Tecnoschiavi, come il sistema tecnocapitalista, che sta diventando sempre più operativamente instabile e difficile da governare, sia in via di sostituzione con un sistema di dominazione zootecnica e biologica sulle masse (già preconizzata da Heidegger: https://www.youtube.com/watch?v=MtATDlUSIxI ), sistema che abbastanza chiaramente comprende la loro radicale riduzione quantitativa in chiave ecologica.

In quanto al dubbio se una rivoluzione che rovesci il sistema ingiusto sia fattibile, incominciamo col dire che basta guardare alla realtà empirica di tutte le epoche, e si vede che tutte le società organizzate sono dominate da un’oligarchia sfruttatrice, accaparratrice e repressiva, seppure in molteplici forme e gradi; che nessuna azione politica o rivoluzionaria di massa ha mai sostanzialmente migliorato le condizioni delle masse, ma spesso le ha peggiorate, limitandosi a sostituire i componenti dell’oligarchia; che gli apparenti progressi sociali in termini di diritti dei lavoratori e dei cittadini e di distribuzione del reddito vengono facilmente e regolarmente riassorbiti dall’ingegneria sociale dell’oligarchia – come sta facendo attualmente il tecnocapitalismo finanziario, che, indebitandole e ricattandole, ha assunto il controllo delle stesse istituzioni politiche apicali, cui detta, interpretandole, le richieste dei mercati, come condizioni ricattatorie per non lasciarle senza soldi (prima ovviamente ha privato gli stati deboli della sovranità sulla loro moneta). Si vede pure che la logica finanziaria dominante fa sì che i grandi soggetti decisori pubblici e privati formino le decisioni in base a calcoli dei soli valori che entrano in bilancio, ossia quelli monetari.

E basta guardare a quel che sono le masse oggi, per capire che esse non sarebbero mai in grado di tentare e nemmeno di concepire una rivoluzione: guardare a come passano il tempo libero, alle loro aspirazioni, al loro livello culturale e a quello morale, alla loro capacità di pensare criticamente e diversamente, di organizzarsi, di fidarsi mutuamente, di assumere e assolvere responsabilità e di sostenere sacrifici e rinunce, di combattere dando e sfidando la morte; basta guardare a quanto si sforzano per migliorarsi, per migliorare la società; basta guardare all’andamento della qualità dell’insegnamento e dei discenti, e delle nuove generazioni in generale. E ciò mentre il divario in termini di competenze e strumentazioni tecnico-militari tra oligarchie e masse popolari si è dilatato a dismisura a favore delle prime, rendendo materialmente impossibile una resistenza efficace, per non parlare di rivoluzione o di democrazia. Faccio infine presente che, nel mondo odierno, una rivoluzione non avrebbe un bersaglio materiale da attaccare, una Bastiglia, un Palazzo d’Inverno, perché il potere si è dematerializzato assieme ai suoi strumenti e ai suoi tesori.

Qualche anima bella afferma che, oggi, non si possa più parlare di massa, perché la popolazione è divenuta molto varia, composita, diversificata. Al contrario, mai come oggi, epoca del pensiero unico, è adeguato parlare di massa, perché mai come oggi la gente è stata tanto massificata, standardizzata e resa orientabile nei desideri, nelle paure, nei bisogni, nelle informazioni, nella visione della realtà, nella dipendenza per i bisogni primari (banking, trasporti, informazioni, informatica, comunicazioni, sanità) da reti sempre più globalizzate e privatizzate e insindacabili nella loro gestione e nei loro tariffari; e al contempo sempre più allontanate dalla partecipazione alle decisioni politiche e della stessa possibilità di formare maggioranze politiche, grazie all’azione frammentante del multiculturalismo, dell’immigrazione di massa, delle tutele esasperate e strumentali di artefatti ‘diritti delle minoranze’ – il tutto studiato per dissolvere le identità storiche territoriali e impedire il formarsi, come dicevo, di maggioranze che possano decidere politicamente contro la volontà della grande finanza e la sua logica, le quali, con uno scambio radicale di ruoli, hanno abbassato l’uomo a oggetto subalterno, elevando il mercato a soggetto unico e normatore, dato che esso manifesta le leggi naturali dell’economia, dalle quali deriva la legislazione degli uomini.

Aggiungiamo che il tecnocapitalismo finanziario, tra tutti i sistemi di potere politico, è imbattibile, perché è quello che, più di ogni altro, è in grado di comperare i comportamenti individuali e collettivi, i consensi, essendo quello in grado di creare e distribuire il massimo numero di incentivi e disincentivi economici, ossia di pagare chi lo asseconda e di colpire col definanziamento, col downrating, col blacklisting, con lo shorting chi gli resiste.

Anche queste considerazioni pratiche e terra terra confermano la proposta della prassi che formulerò nella seconda parte di questo scritto, come unica proposta realistica e razionale.

E veniamo alla contestata authorship della storia: la fa l’uomo o l’Essere? O il caso? O il caos? Molto si è scritto su tale quesito.

La storia del mondo è fatta dal mondo stesso quale sistema supercomplesso, comprendente fattori di diversi generi: mutamenti climatici, eventi geofisici come le glaciazioni e i terremoti, astronomici come le meteoriti, biologici come le speciazioni, le mutazioni, le epidemie; e, naturalmente, anche il caso (the chance) e i comportamenti umani. Già questo consente di affermare che l’uomo concorre alla produzione della storia, e che non ne è l’unico fattore.

Però, quando parliamo di azioni umane, dobbiamo distinguere tra azioni di massa e azioni individuali. L’azione programmatica del singolo o di pochi singoli è di solito abbastanza semplice e lineare: se voglio fare l’avvocato e sono normalmente intelligente e perseverante, mi iscrivo a legge, studio, passo gli esami, mi laureo, faccio due anni di pratica, passo l’esame di stato e inizio a esercitare. Se mi accorgo che legge non fa per me, posso passare a un’altra facoltà. Se mi accorgo che non sono tagliato per fare l’avvocato, posso tentare il concorso di magistratura o notariato, oppure cercare impiego nel settore pubblico o privato.

L’azione programmatica di migliaia o milioni di persone, come si ha nei movimenti politici, è molto meno facile, meno lineare, meno controllabile, meno correggibile e adeguabile alle mutate circostanze, e drammaticamente soggetta a portare ad esiti impreveduti, diversi o contrari rispetto all’intendimento iniziale, anche perché sempre operano fattori che spesso non vengono nemmeno percepiti o riconosciuti, se non ha distanza di tempo.

Ma, nel determinare lo svolgersi della storia, assai più importanti sono le azioni di massa, le azioni aggregate, non programmatiche, come i comportamenti dei consumatori, dei risparmiatori, degli investitori, di tutta l’economia, delle sue espansioni e contrazioni, qua e là nel mondo. Tale agire è sì un agire ‘umano’, ma non è proprio ciò che si intende con ‘agire umano’, ossia ordinato, finalizzato, consapevole; bensì è caotico. Non è l’agire di un soggetto: è una sommatoria di miliardi di piccoli atti di altrettanti umani, della quale la risultante è imprevedibile e sempre mutevole: Louis Althusser definiva la storia un processo senza soggetto.

Sennonché queste azioni di massa, questi comportamenti, oggi sono fortemente pilotati attraverso mirate campagne di informazione o disinformazione via web e mass media. Così controllati e irregimentati, i soggetti di quei comportamenti sono ridotti a oggetti, a cose. Coloro che riescono a pilotarli, in quanto e per quanto ci riescono, possono vantarsi di fare la storia, e in questo senso si può dire che la storia, o pezzi di essa (ad es., il progetto di integrazione europea), siano un prodotto dell’uomo in quanto alcuni uomini privilegiati ne sono artefici consapevoli e intenzionali. Ma in ogni caso gli uomini delle masse sono solo ‘cose’ attraverso cui gli eventi avvengono, il divenire storico si attua, vuoi casualmente e spontaneamente, vuoi diretto dai suddetti manipolatori.

Un singolo può restare soggetto e padroneggiare le cose, o alcune cose, e persino resistere alla tecnocrazia, fintantoché rimane al di fuori delle reti intersoggettive; ma quando porta (o lascia che si porti) il suo pensare, sentire ed agire all’ammasso dell’azienda, del partito, della chiesa, dell’organizzazione, del sindacato, dell’armata, del mercato, spesso persino della famiglia, allora, trovandosi in una rete intersoggettiva sottoposta a quel controllo manipolatorio dall’esterno, diventa egli stesso cosa.

Ancora, un singolo, o un piccolo gruppo di singoli, che disponga di eccezionale capacità, può compiere, consapevolmente e programmaticamente, azioni che cagioneranno svolte importanti nel corso della storia, da lui o loro più o meno previste e volute nel medio e lungo termine: può, ad esempio, introdurre una religione di successo come l’Islam; o realizzare una scoperta scientifica o un’invenzione tecnologica di grande impatto, come la bomba atomica; oppure scatenare una guerra nucleare. Ma, a loro volta, tali atti sono riconducibili unicamente alle persone che li compiono, oppure a un contesto di condizionamenti e suggestioni intersoggettivi che hanno agito su di essa, al di fuori del controllo consapevole delle medesime?

II

E veniamo ora al gabbione tecnocapitalistico, al futuro prossimo che ci minaccia, e al problema della prassi. Incomincio con un’osservazione generale:

I progetti per la prassi, per il miglioramento della realtà, del ‘mondo’, non si sono aggiornati alle acquisizioni di Kant e dell’idealismo circa la realtà stessa (rapporto tra essere e pensiero), rimanendo basati sul realismo ingenuo; perciò erano e sono destinati al fallimento. Occorre eseguire quell’aggiornamento ideando una prassi conseguente: una via non ancora tentata dall’Occidente, ma in Oriente operativamente articolata da millenni, per uscire dall’impotenza rispetto alle condizioni presenti.

Il pensiero antico e premoderno, così come la tecnica e il senso comune odierno, dà per scontato che vi sia un mondo materiale al di fuori e indipendente dal pensiero e che il pensiero lo percepisca più o meno fedelmente: è la posizione, la concezione, detta ‘realismo ingenuo’ – ingenuo perché appunto dà per scontati, non problematizza, il mondo materiale esterno e la sua percezione da parte del pensiero.

Il pensiero filosofico moderno, da Cartesio in poi, invece, li problematizza, ossia si occupa centralmente del rapporto tra il pensiero (mente, coscienza, conoscenza, io) e la realtà esterna ad esso (mondo, materia, non io): se, come e in che limiti il primo possa conoscere la seconda, e come i due possano influenzarsi mutuamente.

Gli esiti principali di questa riflessione sono quelli di Kant e dell’idealismo, culminato con Hegel, e, più recentemente, con H.F. Bradley, il quale, in Appearance and Reality, dimostra logicamente e analiticamente l’impossibilità logica che il mondo sia come lo viviamo comunemente.

Secondo Kant, una realtà esterna alla mente -la cosa in sé, il noumeno- esiste, ma di essa niente è conoscibile; essa agisce sulla sfera della mente; alcuni apparati della mente, interni ad essa -le intuizioni a priori, le categorie, l’io trascendentale-, sotto l’effetto di questa azione o impressione noumenica attraverso i sensi, costruiscono tutto il mondo fenomenico che noi conosciamo, e che è quindi non esterno alla mente, ma una rappresentazione che essa (inconsciamente) si fa; a questa rappresentazione i predetti apparati danno caratteristiche e leggi costanti e uniformi, che la rendono ordinata, coerente e prevedibile nel suo divenire mediante giudizi sintetici a priori: le scienze naturali.

Secondo Hegel, invece, una realtà esterna al pensiero non esiste affatto, il pensiero-Spirito è l’essere stesso, è universale, non atto personale dei singoli soggetti, i quali ne sono parte(cipi). Esso è tutta la realtà, è completo, sussume come propria esperienza il rapporto del pensiero con il mondo naturale illusoriamente esterno, e si sviluppa o auto-crea configurandosi nel mondo e nella sua storia per effetto di un suo proprio dinamismo dialettico necessario, secondo il noto modulo: tesi – antitesi (contraddizione, momento dialettico) – sintesi (esito concreto).

Insomma, sia secondo Kant che secondo Hegel, il mondo fenomenico, la realtà che noi viviamo e in cui crediamo di trovarci ‘dentro’, è una costruzione del pensiero nel pensiero, e non un mondo indipendente da esso e fatto di materia; non vi è un mondo esterno su cui agire, e che dia motivo di agire.

Orbene, questa conclusione è decisiva per concepire, impostare ed eseguire la praxis, intesa come azione di trasformazione migliorativa e correttiva del mondo, però non se ne tiene conto.

Infatti, se il mondo fosse come lo intendono il senso comune odierno e il pensiero pre-kantiano, ossia esterno alla mente e materiale, allora sì la praxis per modificare la realtà necessariamente avrebbe da essere un’azione sulla materia e con strumenti principalmente materiali, atti a incidere su rapporti materiali (politici, economici), à la Marx, à la Lenin o à la Sorel: azione politica, scioperi, dimostrazioni, rivoluzioni, guerre, nella società e nel mondo esistenti fuori del mio pensiero, che rimane atto mio e privato.

Per contro, se aderiamo alla concezione della realtà propria di Kant o di Hegel o dell’idealismo in generale, allora la prassi mondano-materiale suddetta, che non accetta il sistema sociopolitico ma accetta il paradigma di realtà che secerne tale sistema, ci apparirà destinata al fallimento (in effetti è sempre fallita), priva di senso come il voler togliere un’ombra grattandola via dal muro, e così pure i tentativi di costituire una socializzazione ‘consapevole’, diretta a rovesciare il sistema. Invece, la nostra analisi del problema e la conseguente praxis, con i suoi strumenti e i suoi obiettivi, saranno concepite ed eseguite come di genere diverso, non materiale (la materia non esiste) né esterno alla ‘mente’ (l’esterno non esiste): saranno attività dello ‘spirito’, su di esso e con mezzi di esso (a dire il vero, gli stessi Kant e gli idealisti non sempre furono coerenti, nelle loro proposte di prassi, con le loro concezioni suddette della realtà, in quanto scivolavano sovente in ragionamenti consoni al realismo ingenuo; e del resto quasi tutti coloro che hanno capito e dichiarano di condividere la posizione kantiana o quella idealista, poi continuano a pensare il mondo come se non le conoscessero; e ciò credo sia dovuto al fatto che tali posizioni sono molto in contrasto con le consolidate abitudini mentali, emozionali e comportamentali, sicché restano aree isolate sulla superficie dell’intelletto: l’azione ripetuta genera e difende con tenacia le concezioni e i valori che essa presuppone, anche se razionalmente ne accerta la falsità).

Colui che fa correttamente l’analisi suddetta, rileverà essenzialmente due cose, due incongruenze, e rileverà:

a) “sul piano razionale, ho capito che non vi è un mondo materiale esterno al pensiero e che la realtà è il pensiero stesso, etc. etc. ; ciononostante, sul piano del vissuto, il vissuto di un mondo materiale esterno permane, con tutti i suoi caratteri di prima (contraddizione tra cognizione e vissuto);”

b)”in questo vissuto, permangono disarmonie, contraddizioni, ingiustizie, sofferenze, angosce che vorrei emendare; ed io stesso vorrei esser migliore, evolvermi, ascendere, superare i miei attuali limiti (contraddizione tra aspirazioni e realtà)”.

Conseguentemente a tale analisi, si tratterà di progettare una prassi di modificazione del vissuto attraverso la modificazione di ciò che lo produce, ossia delle strutture o configurazioni della ‘mente’ (io, spirito, coscienza, volontà), grazie all’azione metodica e mirata di questa su sé medesima, tesa a risolvere le suddette contraddizioni realizzando -poniamo, in termini hegeliani- un’espansione della coscienza, secondo lo schema tesi-antitesi-sintesi, verso un superiore livello di “concretezza”, uscendo dall’”astrattezza” che genera illusione e disarmonie. O di correggere il modo in cui l’io pone il non-io, se adottiamo il paradigma fichtiano. O di fare con la coscienza qualcosa come quando la radio emette suoni confusi e sgradevoli perché è sintonizzata male, e allora la sintonizzi bene, ottenendo un suono limpido e armonioso.

Orbene, questa impostazione della prassi corrisponde esattamente all’impostazione e al metodo dello yoga (soprattutto del raja yoga e del bhakti yoga: esistono altri metodi similari in diverse culture del globo, anche in occidente, ma lo yoga mi pare il più completo ed esplicito), il quale dice che il nostro vissuto di realtà e di noi stessi è illusione, maya, e propone la dissoluzione dell’illusione, l’unificazione del molteplice frammentario e del singolo col Tutto, la soluzione delle disarmonie e il conseguimento della piena realizzazione col superamento dei limiti fisici, dei dualismi io-non io, spirito-materia, attraverso esercizi molto articolati, pratiche di diversi tipi, esposti nella forma ritenuta classica da Patanjali nel suo manuale noto come Yogasutra – che io consiglio nella traduzione commentata con testo sanscrito e istruzioni pratiche del mio amico, recentemente scomparso, Guido Sgaravatti (Uniontrust, 2009).

Alle volte si accusa lo yoga di individualismo, di isolazionismo, di mancanza di valenza sociale. Tali accuse sono di chi ignora come lo yoga dissolve l’ego empirico (quale insieme di false identificazioni) e come sia praticato anche in modo comunitario, nelle confraternite e nelle scuole, a fini intersoggettivi e rivolti anche al beneficio del mondo intero. La stessa diffusione culturale della concezione dell’uomo e della realtà propria dello yoga (di una qualsiasi delle sue scuole) attenua i comportamenti aggressivi, competitivi, predatori e può affrancare l’essere umano e il mondo dal ruolo di risorsa passiva nella disponibilità del tecnocapitalismo, della sua furia di arricchimento contabile e calcolante. Quindi, al contrario di essere individualista, lo yoga è la condizione per una buona socializzazione e per la formazione di gruppi di azione che non si trasformino rapidamente in sterili pollai di soli galli e primedonne, o in sette fatte da un 1 seguito da tanti zeri.

A rinforzo di questa idea della prassi, faccio notare come, fintantoché la realtà è (illusoriamente) creduta e vissuta come esterna, materiale, limitata, mortale, gli individui vivono e agiscono nell’ansia della condizione umana, della morte e della violenza; e saranno protesi a conquistare, ciascuno egoisticamente per sé, quanta più possibile della supposta realtà, sottraendola agli altri, competendo con loro nel dominio del mondo e delle sue ricchezze, e infine sottomettendoli a sé, quali corpi materiali capaci di lavoro materiale. E fintantoché gli individui vivranno e agiranno così -gregge cavernicolo cosmopolita e omologato, con lo sguardo e le brame rivolti al basso da bravi animali, sentendosi come fardelli di carne-desideri-paure gettati in cotale mondo e destinati a perire- sino ad allora avremo il mondo dell’ingiustizia, dell’oligarchia, della sopraffazione e dello sfruttamento che conosciamo. E i tentativi di dar vita a un movimento popolare per rovesciare il sistema continueranno a generare nuovi sistemi di dominio non migliori.

Dunque, di nuovo, la prassi razionale, che tenga conto delle acquisizioni filosofiche di Kant e degli idealisti, è la prassi di una mente che opera su sé medesima per ampliarsi, per realizzarsi, per liberarsi, per uscire da quella illusione di realtà, dalla maya, per espandere le proprie facoltà, aiutando in ciò anche il prossimo che dimostri interesse. Non è possibile, è contraddittorio, rifiutare e correggere i mali propri del mondo illusorio, mentre si seguita a tenerlo fermocome reale. Coloro che lo pensano, lo vivono e lo accettano come reale, restano nella platonica caverna e non possono che patire i suoi mali e vincoli. Pretendere di risolvere i problemi sociali senza realizzare, o senza perlomeno avviare a realizzazione, quella liberazione vera, ossia lasciando in essere il suddetto vissuto della realtà, è semplicemente un controsenso. E’ un progetto destinato a fallire, e infatti è fallito ogni volta che si è cercato di attuarlo, in quanto si è trasformato in una serie di prassi di dittatura e oppressione. E’ uno sforzo che rafforza, quindi, ciò che vorrebbe togliere, l’impianto di dominazione generatore e perpetuatore dell’ingiustizia sociale.

§§§§§

Non scrivo qui per fare proselitismo in favore dello yoga, che non abbisogna di proseliti perché è un metodo, non una chiesa né una fede, perché non ha dogmi e si basa sulla verificabilità dei risultati della sua prassi, risultati che la scienza ha ampiamente accertato in termini di guarigioni e altre prestazioni inspiegabili nel mondo (che viviamo come) fisico. Scrivo anche e soprattutto per far presente che, se gli esseri umani hanno risorse per vincere la sopraffazione da parte della tecnica, del Gestell heideggeriano, del suo apparato politico, queste risorse possono trovarsi soltanto nell’uscita dall’illusione e nel ricongiungimento alle facoltà illimitate dello ‘spirito’ quale realtà ultima e unica, come dianzi indicato. Quindi il saggio si impegna subito e seriamente in questa prassi, per non finire tecnoschiavo nella notte del mondo.

Il tipo di prassi rifondata, che qui ho indicato, è la risposta, la via di uscita da quell’aporia che è lucidamente analizzata da Diego Fusaro nel suo citato saggio, ossia dalla situazione di impotenza prodotta dal fallimento storico delle prassi politiche di miglioramento sociale, soprattutto di quelle socialiste, ma anche fasciste – prassi che hanno tutte portato a ordinamenti autoritari e oppressivi (se non peggio), per poi soccombere al dominio del tecnocapitalismo finanziario, il quale da un lato incrementa le diseguaglianze e le afflizioni sociali, e dall’altro lato si accredita come ‘naturale’, nel senso di corrispondente alla natura delle cose, quindi miglior forma possibile di organizzazione: imperfetto, ma anche imperfettibile e non trasformabile (fine della storia, capolinea), sicché accettarlo è un dovere e chi non lo accetta è un antisociale estremista.

Questa sconfitta effettuale delle ideologie della giustizia sociale -utopie, dovremmo chiamarle- stimola il sorgere di filosofie dell’aprassia, della rinuncia all’azione, dell’ineluttabilità, del fatalismo contemplativo individualista, come quella di Heidegger, che -spiega Fusaro- a loro volta indirettamente legittimano le pretese di immodificabilità del tecnocapitalismo e propiziano una sorta di nichilismo attraverso il pensiero negativo, il pensiero debole, il relativismo totale, il disincantamento radicale, l’accettazione dell’impotenza.

Per contro, il tipo di prassi che in questo scritto ho proposto per rovesciare quell’impotenza, è riuscibile, disponibile a chiunque lo capisca, direttamente intraprendibile, verificabile, e in qualche misura già collaudato.





Citazioni

"Chiunque cerca qualcosa, arriva a questo punto: o dice che l’ha trovata, o che non si può trovare, o che ne è ancora in cerca. Tutta la filosofia è divisa in questi tre generi". (M. de Montaigne, "Saggi")







(Visualizzazioni 151 > oggi 1)

Di admin

Diego Fusaro