Non ho resistito alla tentazione. Alla fine, ho guardato l’incipit del Festival della canzone italiana di Sanremo di questo sventurato 2021. Prime scene che colpiscono: loro, i protagonisti assoluti, senza mascherine e senza distanziamento sociale, come se il coronavirus mai fosse passato su questa terra. I suonatori dell’orchestra e gli aiutanti esterni, invece, rigorosamente mascherati, secondo un modus operandi che abbiamo già visto all’opera da tempo: ricordate le feste nelle ville patrizie, con i padroni gaudenti come se il virus mai fosse esistito, e con la servitù rigorosamente col volto coperto dalle mascherine? Insomma, in tutta Italia teatri e luoghi della cultura chiusi: ma loro, a Sanremo, no, perché Sanremo è Sanremo. O, più precisamente, perché loro sono loro e noi non siamo nulla. Ogni anno Sanremo chiede di essere vista, come kermesse subculturale, perché è il luogo in cui forse meglio la civiltà dello spettacolo mette a nudo se stessa, con tutte le sue macroscopiche contraddizioni, con tutte le sue intollerabili ipocrisie. Quest’anno, poi, esse sono affiorate in forma iperbolica. Mentre l’Italia soffre in silenzio, condannata a lockdown assassini, che di certo producono soltanto la morte dell’economia e della società, loro, a Sanremo, non possono fermarsi, devono andare avanti come se nulla fosse: i loro cachet da capogiro, i loro ingaggi spropositati non possono interrompersi mai. Ecco, Sanremo ci ha insegnato una cosa quest’anno: che il famoso distanziamento sociale è anche il distanziamento, ogni giorno crescente, tra i primi e gli ultimi, tra i beneficiari sazi della globalizzazione, lassù in alto, e i nuovi miserabili senza diritti, laggiù in basso.














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Di admin

Diego Fusaro