Site icon Diego Fusaro

Sanremo, purtroppo

Non ho resistito alla tentazione. Alla fine, ho guardato l’incipit del Festival della canzone italiana di Sanremo di questo sventurato 2021. Prime scene che colpiscono: loro, i protagonisti assoluti, senza mascherine e senza distanziamento sociale, come se il coronavirus mai fosse passato su questa terra. I suonatori dell’orchestra e gli aiutanti esterni, invece, rigorosamente mascherati, secondo un modus operandi che abbiamo già visto all’opera da tempo: ricordate le feste nelle ville patrizie, con i padroni gaudenti come se il virus mai fosse esistito, e con la servitù rigorosamente col volto coperto dalle mascherine? Insomma, in tutta Italia teatri e luoghi della cultura chiusi: ma loro, a Sanremo, no, perché Sanremo è Sanremo. O, più precisamente, perché loro sono loro e noi non siamo nulla. Ogni anno Sanremo chiede di essere vista, come kermesse subculturale, perché è il luogo in cui forse meglio la civiltà dello spettacolo mette a nudo se stessa, con tutte le sue macroscopiche contraddizioni, con tutte le sue intollerabili ipocrisie. Quest’anno, poi, esse sono affiorate in forma iperbolica. Mentre l’Italia soffre in silenzio, condannata a lockdown assassini, che di certo producono soltanto la morte dell’economia e della società, loro, a Sanremo, non possono fermarsi, devono andare avanti come se nulla fosse: i loro cachet da capogiro, i loro ingaggi spropositati non possono interrompersi mai. Ecco, Sanremo ci ha insegnato una cosa quest’anno: che il famoso distanziamento sociale è anche il distanziamento, ogni giorno crescente, tra i primi e gli ultimi, tra i beneficiari sazi della globalizzazione, lassù in alto, e i nuovi miserabili senza diritti, laggiù in basso.














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