FILOSOFIA E SCIENTISMO
“La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni”.
(E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale)
Viviamo in un tempo di scientismo radicale. Per scientismo, intendiamo la trasformazione della scienza in religione dogmatica del dato di fatto. Al di là delle apparenze, sussiste un’insospettata solidarietà antitetico-polare, e dunque complementare di due opposti in correlazione dialettica essenziale, tra il postmoderno scetticismo relativistico della proclamazione della totale inesistenza della verità filosofica e l’arroganza scientistica dell’unicità normativa del canone delle scienze positive della natura.
Complementare alle ininterrotte dichiarazioni di morte della filosofia, l’odierna sacralizzazione religiosa del metodo scientifico si configura essa stessa come un completamento ideologico del capitalismo assoluto-totalitario. Il fatto che oggi la scienza empirica sia oggetto di continui e ubiquitari elogi incondizionati e di una fede, a suo modo, religiosa non deve stupire. Infatti, assolutizzata nella forma di una vera e propria “superstizione scientifica”, come la definì Jaspers, culminante nell’aberrante pretesa di risolvere il senso complessivo del mondo nella sua descrizione matematico-quantitativa, la scienza si pone come la più preziosa alleata di quel “laicismo” oggi tanto in voga; il quale, funzionale al monoteismo del mercato, ridicolizza la religione tradizionale in ogni sua forma, costringendola a giustificarsi al cospetto della ragione strumentale e del sapere scientifico, assolutizzati e assunti dogmaticamente come unica forma di conoscenza legittima. L’imperativo feudale-signorile “credi in Dio!” viene in questo modo sostituito dall’odierno imperativo antimetafisico “sii scientifico!” (o, con la variante teologica, “credi nella scienza!”) e dal nuovo apparato sacerdotale di quei “funzionari della tecnica” – così li definiva Heidegger – che sono gli scienziati, con la conseguente liquidazione della filosofia e della religione come vuote “chiacchiere” epistemologicamente non sorvegliate. Questa pretesa “assolutistica” della scienza di essere la sola forma di sapere valida ricorda irresistibilmente quel consesso degli dei narrato da Nietzsche, in cui un dio si alzò e proclamò con arroganza di essere la sola divinità esistente, con la conseguenza per cui gli altri dei morirono, ma dalle risate. Già Husserl, nella Krisis, aveva diagnosticato la vocazione assolutistica della scienza, adombrandone i rischi e, al tempo stesso, l’intrinseca assurdità: “la scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni”. Il metodo scientifico approfondisce la conoscenza dell’oggetto che sta di fronte allo scienziato (Obiekt), ma non può in alcuna maniera dirci quale sia il bene, come si possa perseguire la vita buona sia a livello individuale sia a livello sociale. Affidarsi integralmente alla scienza produce un esito dialettico preciso, quello del rovesciamento del razionalismo scientifico dell’intelletto astratto in irrazionalismo di massa, che è poi la patologia del nostro tempo. Scientismo e irrazionalismo coesistono oggi come fenomeni opposti ed egualmente esprimenti la razionale irrazionalità del nostro tempo. Ancora una volta, postmodernismo e scientismo procedono di conserva.
La laicità della scienza oggi cantata con tono entusiastico per diradare le superstizioni religiose si pone come una fedele alleata della riproduzione illimitata del cosmo neoliberale per cinque ordini di motivi: in primo luogo, perché, ridicolizzando le religioni tradizionali, il laicismo scientista fa sì che a sopravvivere sia soltanto il monoteismo del mercato sacralizzato tramite il metodo delle scienze empiriche, a loro volta assolutizzate e sacralizzate, secondo un coerente sviluppo della “chiesa positivista” di Comte e delle sue liturgie a base scientistica. Poiché il “sapere positivo” congeda il concetto filosofico, riprecipitando per ciò stesso al livello della “certezza sensibile”, il senso della scienza si dissolverebbe completamente ed essa risulterebbe irrazionale e cieca se il positivismo, già con Comte, non le attribuisse un senso tramite il ricorso a una precisa filosofia della storia: ricorso in virtù del quale la scienza – come, del resto, la società di mercato – viene teleologicamente presentata come “stadio” più elevato e, a suo modo, destinale della vicenda dell’umanità, ulteriore rispetto ai due momenti dello stadio teologico e di quello metafisico. Né va dimenticato, del resto, che anche la scienza dell’intelletto astrattto di hegeliana memoria si regge su una premessa empiricamente non sorvegliata, che è triplice e che ritorna, variamente declinata, dal Cours de philosophie positive di Comte in poi: a) la scienza è intesa come l’esito terminale della storia, secondo la comteana teoria della successione degli “stadi della conoscenza”, b) i fatti empirici non mentono mai (e questo non è un fatto, né una teoria che ordini e preveda l’“apparizione di fatti”, ma è una loro valutazione che li trascende del tutto), c) i dati di fatto devono pur sempre essere interpretati, e questo già travalica il mero campo dell’accertamento scientifico.
In secondo luogo, la scienza condivide la stessa visione del mondo prodotta fisiologicamente dal capitalismo speculativo (di cui ci siamo occupati nel nostro libro Minima mercatalia), in nome della quale ha valore solo ciò che è utile (di qui l’elogio incondizionato dell’utilità dei saperi scientifici e la continua irrisione della proverbiale inutilità della filosofia). La contrapposizione frontale tra l’inutilità della metafisica e l’utilità della scienza positiva – già al centro del Discours sur l’esprit positif (1844) di Comte – troverà una sua legittimazione teorica nella prospettiva “pragmatistica” sviluppata da Peirce, James e Dewey e centrata sulla riduzione della verità di un enunciato al suo successo pratico. In terzo luogo, la scienza, come il sistema di mercato, rivela una sua naturale vocazione al dominio sul mondo (knowledge is power), tanto sulla natura quanto sulle comunità umane. In particolare, essa tende irresistibilmente a convertirsi in un apparato “tecno-scientifico” di potere sociale e politico, nel quale economia e tecnologia vanno a costituire un’unità inscindibile di controllo disciplinare del globo nella sua interezza, nella forma – heideggerianamente – di un “apparato imposto”, sempre più lesivo della vita umana e dell’ecosistema. Ciò vale già in Cartesio, il quale riduce la filosofia ad accertamento scientifico e nel Discorso sul metodo si spinge ad asserire che siamo “padroni e signori della natura”: dobbiamo padroneggiarla teoreticamente, accertandola, e praticamente, dominandola e piegandola al nostro servizio. Se in Cartesio la metafisica viene ridotta a funzione della scienza, già in Newton la metafisica viene liquidata come inessenziale per la scienza (hypotheses non fingo). Come suggerito da Brecht, con l’abiura di Galileo – simbolo della rinuncia a criticare l’ordine del mondo – si inaugura quell’alleanza della scienza con il potere che non ha smesso di caratterizzare il nostro tempo.
In quarto luogo, come sapeva bene Hegel, la scienza empirica trova la sua risorsa conoscitiva più appropriata nell’“intelletto astratto” (abstrakter Verstand) che tutto scompone e frantuma: esso produce un sapere rigorosamente “avalutativo” e rivolto a singole porzioni del reale e, per questa via, distrugge ogni visione olistica (e necessariamente metaempirica) della realtà e paralizza a priori ogni possibilità di valutazione assiologica e di giudizio critico del proprio oggetto d’analisi. L’intelletto astratto della scienza rimuove in partenza la possibilità di una valutazione assiologica della totalità capitalistica, liquidando la filosofia come ultimo retaggio metafisico in un’epoca disincantata e pienamente postmetafisica. Se scrutato dall’intelletto astratto della scienza (e dunque analizzato nelle sue singole parti slegate le une dalle altre), il capitalismo si configura come il non plus ultra della razionalità, come l’approdo destinale di quel processo di razionalizzazione culminante, secondo la nota diagnosi di Weber, nell’attuale Entzauberung der Welt, il “disincantamento del mondo”: il capitalismo implica infatti ricerca razionale del profitto, razionalità dei processi amministrativi, gestione razionale delle transazioni, razionalità produttiva, e così via. Nella stessa idea di razionalità come calcolo fatta valere dalle scienze positive si cristallizza, fin dalla Rivoluzione scientifica, la potenziale santificazione dell’ordine capitalistico.
La prospettiva cambia, però, di centottanta gradi se si esamina il capitalismo tramite le lenti della ragione filosofica, ossia dal punto di vista della totalità dinamica: mutatis mutandis, esso si rivela con i macabri contorni dell’irrazionalità allo stato puro, esibendosi come un mondo il cui fine supremo coincide con la valorizzazione del valore, ossia con un obiettivo contrario a ogni logica razionale e pienamente identificabile con il nichilismo assoluto. Esso dà luogo a una razionalizzazione sempre più irrazionale. È il mondo in cui – per dirla con Marx – i morti dominano i vivi, in cui le merci e i titoli di borsa signoreggiano gli uomini, sviliti a meri strumenti al servizio del capitale e della tecnica planetaria. Nella misura in cui l’intelletto astratto non riesce a mettere a fuoco questa contraddizione, e si rivela anzi il più efficace antidoto contro la possibilità che essa risulti evidente, diventa pienamente comprensibile ciò che della scienza diceva Heidegger: essa “non pensa” (denkt nicht), dacché rinuncia aprioristicamente alla valutazione complessiva e critica dell’Intero, rivelandosi oggi un alleato strategico delle dinamiche del sistema globalizzato. In quinto luogo, la scienza, con il suo culto del dato di fatto e delle sacre leggi dell’algida geometria del calcolo, risulta facilmente integrabile alle logiche della reificazione universale e dell’assolutismo mistico della realtà, con la sua inesorabile prescrizione ad attenersi ai fatti e al reale nella sua datità: secondo il prezioso rilievo della Krisis husserliana, “le mere scienze di fatto producono meri uomini di fatto”, sistemicamente operativi e incapaci di far valere istanze critiche. D’altro canto, secondo un tema caro alla Scuola di Francoforte, l’insistenza maniacale sul “dato di fatto” costituisce la premessa e, insieme, il risultato della reificazione: come evidenziato da Horkheimer in Eclisse della ragione, “il concetto stesso di ‘fatto’ è un prodotto dell’alienazione sociale; in esso, l’astratto oggetto di scambio è concepito come un modello per tutti gli oggetti dell’esperienza in quella data categoria”.
Alleata strategica delle scienze, la retorica dell’immodificabilità del mondo finisce sempre più per renderlo tale, secondo una micidiale dialettica per cui il fatalismo dello spettatore disincantato rende fatale la morfologia del reale, in coerenza con la genesi di quell’homo videns (Giovanni Sartori) che, manipolato dai mass-media e ridotto a mero spettatore, osserva passivamente la realtà e si conforma ad essa, senza alcuna possibilità di agire in vista della sua trasformazione. Segretamente alleato della teologia scientista è anche l’odierno elogio ininterrotto (e articolato da prospettive certo avulse dall’originario impianto weberiano) della “avalutatività” (Wertfreiheit) come principio metodologico fondamentale in ogni settore del sapere, inclusa la filosofia: la realtà deve essere “spiegata” e non valutata assiologicamente. Ma questa è, a sua volta, un’ideologia di carattere adattivo, una esplicita valutazione del reale, assunto come immodificabile o, comunque, come degno di essere mantenuto così com’è. La secolarizzazione del Beruf di Weber – unità di “vocazione” religiosa e professionale – si capovolge così, dialetticamente, nell’inedita figura della “vocazione” delle due figure complementari dello scienziato in camice e del politico senza illusioni e velleità trasformatrici. Il fatto stesso che la filosofia sia chiamata a fare proprio il paradigma delle “scienze della natura” – la spiegazione senza giudizio valutativo complessivo – è il tratto emblematico dell’odierno “pensiero postmetafisico” (nachmetaphysisches Denken), con la sua pretesa di neutralizzare lo spazio critico e veritativo del sapere filosofico imponendogli l’assunzione dello statuto delle scienze empiriche, che rispecchiano senza trasformare e reificano senza far valere istanze critiche.
Abbiamo bisogno della scienza, certo: e, se rettamente intesa, la scienza si occupa della certezza, senza pretendere di ergersi scientisticamente a unico sapere legittimo, come oggi accade. La scienza non può negare la metafisica, né da quest’ultima essere negata. Le due debbono procedere congiuntamente, riconoscendo il proprio reciproco campo di legittima operatività.
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Viviamo in un tempo di scientismo radicale. Per scientismo, intendiamo la trasformazione della scienza in religione dogmatica del dato di fatto. Al di là delle apparenze, sussiste un’insospettata solidarietà antitetico-polare, e dunque complementare di due opposti in correlazione dialettica essenziale, tra il postmoderno scetticismo relativistico della proclamazione della totale inesistenza della verità filosofica e l’arroganza scientistica dell’unicità normativa del canone delle scienze positive della natura.
Complementare alle ininterrotte dichiarazioni di morte della filosofia, l’odierna sacralizzazione religiosa del metodo scientifico si configura essa stessa come un completamento ideologico del capitalismo assoluto-totalitario. Il fatto che oggi la scienza empirica sia oggetto di continui e ubiquitari elogi incondizionati e di una fede, a suo modo, religiosa non deve stupire. Infatti, assolutizzata nella forma di una vera e propria “superstizione scientifica”, come la definì Jaspers, culminante nell’aberrante pretesa di risolvere il senso complessivo del mondo nella sua descrizione matematico-quantitativa, la scienza si pone come la più preziosa alleata di quel “laicismo” oggi tanto in voga; il quale, funzionale al monoteismo del mercato, ridicolizza la religione tradizionale in ogni sua forma, costringendola a giustificarsi al cospetto della ragione strumentale e del sapere scientifico, assolutizzati e assunti dogmaticamente come unica forma di conoscenza legittima. L’imperativo feudale-signorile “credi in Dio!” viene in questo modo sostituito dall’odierno imperativo antimetafisico “sii scientifico!” (o, con la variante teologica, “credi nella scienza!”) e dal nuovo apparato sacerdotale di quei “funzionari della tecnica” – così li definiva Heidegger – che sono gli scienziati, con la conseguente liquidazione della filosofia e della religione come vuote “chiacchiere” epistemologicamente non sorvegliate. Questa pretesa “assolutistica” della scienza di essere la sola forma di sapere valida ricorda irresistibilmente quel consesso degli dei narrato da Nietzsche, in cui un dio si alzò e proclamò con arroganza di essere la sola divinità esistente, con la conseguenza per cui gli altri dei morirono, ma dalle risate. Già Husserl, nella Krisis, aveva diagnosticato la vocazione assolutistica della scienza, adombrandone i rischi e, al tempo stesso, l’intrinseca assurdità: “la scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni”. Il metodo scientifico approfondisce la conoscenza dell’oggetto che sta di fronte allo scienziato (Obiekt), ma non può in alcuna maniera dirci quale sia il bene, come si possa perseguire la vita buona sia a livello individuale sia a livello sociale. Affidarsi integralmente alla scienza produce un esito dialettico preciso, quello del rovesciamento del razionalismo scientifico dell’intelletto astratto in irrazionalismo di massa, che è poi la patologia del nostro tempo. Scientismo e irrazionalismo coesistono oggi come fenomeni opposti ed egualmente esprimenti la razionale irrazionalità del nostro tempo. Ancora una volta, postmodernismo e scientismo procedono di conserva.
La laicità della scienza oggi cantata con tono entusiastico per diradare le superstizioni religiose si pone come una fedele alleata della riproduzione illimitata del cosmo neoliberale per cinque ordini di motivi: in primo luogo, perché, ridicolizzando le religioni tradizionali, il laicismo scientista fa sì che a sopravvivere sia soltanto il monoteismo del mercato sacralizzato tramite il metodo delle scienze empiriche, a loro volta assolutizzate e sacralizzate, secondo un coerente sviluppo della “chiesa positivista” di Comte e delle sue liturgie a base scientistica. Poiché il “sapere positivo” congeda il concetto filosofico, riprecipitando per ciò stesso al livello della “certezza sensibile”, il senso della scienza si dissolverebbe completamente ed essa risulterebbe irrazionale e cieca se il positivismo, già con Comte, non le attribuisse un senso tramite il ricorso a una precisa filosofia della storia: ricorso in virtù del quale la scienza – come, del resto, la società di mercato – viene teleologicamente presentata come “stadio” più elevato e, a suo modo, destinale della vicenda dell’umanità, ulteriore rispetto ai due momenti dello stadio teologico e di quello metafisico. Né va dimenticato, del resto, che anche la scienza dell’intelletto astrattto di hegeliana memoria si regge su una premessa empiricamente non sorvegliata, che è triplice e che ritorna, variamente declinata, dal Cours de philosophie positive di Comte in poi: a) la scienza è intesa come l’esito terminale della storia, secondo la comteana teoria della successione degli “stadi della conoscenza”, b) i fatti empirici non mentono mai (e questo non è un fatto, né una teoria che ordini e preveda l’“apparizione di fatti”, ma è una loro valutazione che li trascende del tutto), c) i dati di fatto devono pur sempre essere interpretati, e questo già travalica il mero campo dell’accertamento scientifico.
In secondo luogo, la scienza condivide la stessa visione del mondo prodotta fisiologicamente dal capitalismo speculativo (di cui ci siamo occupati nel nostro libro Minima mercatalia), in nome della quale ha valore solo ciò che è utile (di qui l’elogio incondizionato dell’utilità dei saperi scientifici e la continua irrisione della proverbiale inutilità della filosofia). La contrapposizione frontale tra l’inutilità della metafisica e l’utilità della scienza positiva – già al centro del Discours sur l’esprit positif (1844) di Comte – troverà una sua legittimazione teorica nella prospettiva “pragmatistica” sviluppata da Peirce, James e Dewey e centrata sulla riduzione della verità di un enunciato al suo successo pratico. In terzo luogo, la scienza, come il sistema di mercato, rivela una sua naturale vocazione al dominio sul mondo (knowledge is power), tanto sulla natura quanto sulle comunità umane. In particolare, essa tende irresistibilmente a convertirsi in un apparato “tecno-scientifico” di potere sociale e politico, nel quale economia e tecnologia vanno a costituire un’unità inscindibile di controllo disciplinare del globo nella sua interezza, nella forma – heideggerianamente – di un “apparato imposto”, sempre più lesivo della vita umana e dell’ecosistema. Ciò vale già in Cartesio, il quale riduce la filosofia ad accertamento scientifico e nel Discorso sul metodo si spinge ad asserire che siamo “padroni e signori della natura”: dobbiamo padroneggiarla teoreticamente, accertandola, e praticamente, dominandola e piegandola al nostro servizio. Se in Cartesio la metafisica viene ridotta a funzione della scienza, già in Newton la metafisica viene liquidata come inessenziale per la scienza (hypotheses non fingo). Come suggerito da Brecht, con l’abiura di Galileo – simbolo della rinuncia a criticare l’ordine del mondo – si inaugura quell’alleanza della scienza con il potere che non ha smesso di caratterizzare il nostro tempo.
In quarto luogo, come sapeva bene Hegel, la scienza empirica trova la sua risorsa conoscitiva più appropriata nell’“intelletto astratto” (abstrakter Verstand) che tutto scompone e frantuma: esso produce un sapere rigorosamente “avalutativo” e rivolto a singole porzioni del reale e, per questa via, distrugge ogni visione olistica (e necessariamente metaempirica) della realtà e paralizza a priori ogni possibilità di valutazione assiologica e di giudizio critico del proprio oggetto d’analisi. L’intelletto astratto della scienza rimuove in partenza la possibilità di una valutazione assiologica della totalità capitalistica, liquidando la filosofia come ultimo retaggio metafisico in un’epoca disincantata e pienamente postmetafisica. Se scrutato dall’intelletto astratto della scienza (e dunque analizzato nelle sue singole parti slegate le une dalle altre), il capitalismo si configura come il non plus ultra della razionalità, come l’approdo destinale di quel processo di razionalizzazione culminante, secondo la nota diagnosi di Weber, nell’attuale Entzauberung der Welt, il “disincantamento del mondo”: il capitalismo implica infatti ricerca razionale del profitto, razionalità dei processi amministrativi, gestione razionale delle transazioni, razionalità produttiva, e così via. Nella stessa idea di razionalità come calcolo fatta valere dalle scienze positive si cristallizza, fin dalla Rivoluzione scientifica, la potenziale santificazione dell’ordine capitalistico.
La prospettiva cambia, però, di centottanta gradi se si esamina il capitalismo tramite le lenti della ragione filosofica, ossia dal punto di vista della totalità dinamica: mutatis mutandis, esso si rivela con i macabri contorni dell’irrazionalità allo stato puro, esibendosi come un mondo il cui fine supremo coincide con la valorizzazione del valore, ossia con un obiettivo contrario a ogni logica razionale e pienamente identificabile con il nichilismo assoluto. Esso dà luogo a una razionalizzazione sempre più irrazionale. È il mondo in cui – per dirla con Marx – i morti dominano i vivi, in cui le merci e i titoli di borsa signoreggiano gli uomini, sviliti a meri strumenti al servizio del capitale e della tecnica planetaria. Nella misura in cui l’intelletto astratto non riesce a mettere a fuoco questa contraddizione, e si rivela anzi il più efficace antidoto contro la possibilità che essa risulti evidente, diventa pienamente comprensibile ciò che della scienza diceva Heidegger: essa “non pensa” (denkt nicht), dacché rinuncia aprioristicamente alla valutazione complessiva e critica dell’Intero, rivelandosi oggi un alleato strategico delle dinamiche del sistema globalizzato. In quinto luogo, la scienza, con il suo culto del dato di fatto e delle sacre leggi dell’algida geometria del calcolo, risulta facilmente integrabile alle logiche della reificazione universale e dell’assolutismo mistico della realtà, con la sua inesorabile prescrizione ad attenersi ai fatti e al reale nella sua datità: secondo il prezioso rilievo della Krisis husserliana, “le mere scienze di fatto producono meri uomini di fatto”, sistemicamente operativi e incapaci di far valere istanze critiche. D’altro canto, secondo un tema caro alla Scuola di Francoforte, l’insistenza maniacale sul “dato di fatto” costituisce la premessa e, insieme, il risultato della reificazione: come evidenziato da Horkheimer in Eclisse della ragione, “il concetto stesso di ‘fatto’ è un prodotto dell’alienazione sociale; in esso, l’astratto oggetto di scambio è concepito come un modello per tutti gli oggetti dell’esperienza in quella data categoria”.
Alleata strategica delle scienze, la retorica dell’immodificabilità del mondo finisce sempre più per renderlo tale, secondo una micidiale dialettica per cui il fatalismo dello spettatore disincantato rende fatale la morfologia del reale, in coerenza con la genesi di quell’homo videns (Giovanni Sartori) che, manipolato dai mass-media e ridotto a mero spettatore, osserva passivamente la realtà e si conforma ad essa, senza alcuna possibilità di agire in vista della sua trasformazione. Segretamente alleato della teologia scientista è anche l’odierno elogio ininterrotto (e articolato da prospettive certo avulse dall’originario impianto weberiano) della “avalutatività” (Wertfreiheit) come principio metodologico fondamentale in ogni settore del sapere, inclusa la filosofia: la realtà deve essere “spiegata” e non valutata assiologicamente. Ma questa è, a sua volta, un’ideologia di carattere adattivo, una esplicita valutazione del reale, assunto come immodificabile o, comunque, come degno di essere mantenuto così com’è. La secolarizzazione del Beruf di Weber – unità di “vocazione” religiosa e professionale – si capovolge così, dialetticamente, nell’inedita figura della “vocazione” delle due figure complementari dello scienziato in camice e del politico senza illusioni e velleità trasformatrici. Il fatto stesso che la filosofia sia chiamata a fare proprio il paradigma delle “scienze della natura” – la spiegazione senza giudizio valutativo complessivo – è il tratto emblematico dell’odierno “pensiero postmetafisico” (nachmetaphysisches Denken), con la sua pretesa di neutralizzare lo spazio critico e veritativo del sapere filosofico imponendogli l’assunzione dello statuto delle scienze empiriche, che rispecchiano senza trasformare e reificano senza far valere istanze critiche.
Abbiamo bisogno della scienza, certo: e, se rettamente intesa, la scienza si occupa della certezza, senza pretendere di ergersi scientisticamente a unico sapere legittimo, come oggi accade. La scienza non può negare la metafisica, né da quest’ultima essere negata. Le due debbono procedere congiuntamente, riconoscendo il proprio reciproco campo di legittima operatività. |