Libri di Diego Fusaro

“Vanity Fair”, la Bibbia della coolness postmoderna del turbocapitalismo liquido no border, pubblica in questi giorni un curioso articolo, in cui commenta con entusiasmo le recenti dichiarazioni dell’antropologo sabaudo Adriano Favole: il quale si avventura a sostenere che il concetto di popolo è un’invenzione moderna e che, in realtà, siamo tutti uguali su scala planetaria. Nulla di originale, in verità: si tratta del ben noto e logoro ritornello, gravido di ideologia, secondo cui popoli, identità e culture non esistono poiché in realtà esiste soltanto un unico modello universale indifferenziato. La tesi di Adriano Favole deve essere letta insieme con quella di un altro antropologo sabaudo, Francesco Remotti, autore qualche anno addietro di un volume intitolato “Contro l’identità”. Sarebbe interessante domandare all’antropologo Favole come intenda, sulla base della sua griglia ermeneutica, il concetto romano di populus e quelli greci di laos e di demos.
Diciamo apertamente e senza perifrasi edulcoranti. Si tratta di posizioni perfettamente funzionali all’ordine discorsivo dominante, quello che mira a delegittimare integralmente l’idea stessa di popolo e di identità, per propiziare l’ideologia del one world indifferenziato. La globalizzazione neoliberale sta in effetti producendo un mondo senza differenze e sempre più disuguale, il mondo omologato sotto il segno della forma merce: il mondo che sta sostituendo le identità con le nientità proprio della civiltà della forma merce. Con tutta evidenza, anche l’antropologia non è esente dalla ricaduta nella ideologia di santificazione dell’ordine esistente, che ha innalzato il nulla a proprio esclusivo riferimento di senso.