DIOGENE DI ENOANDA

 

 

 

A cura di Marco Machiorletti

 

 

 

 

 

«Per piccole cose la sorte incide sul saggio; le maggiori e più importanti, il ragionamento le ha sempre amministrate e per tutto il tempo della vita le amministra e le amministrerà».


 

 

 

 

La diffusione delle idee filosofiche era stata affidata da sempre alla voce o al libro. Ma nella piccola città di Enoanda, nella Licia (Asia Minore), un ricco convertito alla filosofia del Giardino, di nome Diogene, vissuto nel II secolo d.C., entusiasta della parola di Epicuro, decise di diffonderla in un modo del tutto nuovo.

Acquistò un vasto terreno su un’altura, vi fece costruire una piazza circondata da un portico ornato di statue, di forma rettangolare. In uno dei lati minori fece costruire le porte di ingresso; nell’opposto lato minore fece forse costruire il suo sepolcro; nei due lati maggiori fece incidere su lapidi un condensato, piuttosto ampio e circostanziato, della filosofia di Epicuro, corredato altresì con massime e con sentenze tratte dalle opere di Epicuro stesso.

Le iscrizioni, che erano disposte, probabilmente, ad altezza d’occhio, dovevano costituire un vero e proprio libro inciso sulla pietra.

Gli scavi archeologici compiuti sulla collina di Enoanda a partire dalla fine dell’Ottocento hanno portato alla luce ampi frammenti di questo libro murale.

Diogene aveva trovato nel filosofo del Giardino la dottrina che dona la pace e la tranquillità dell’anima, e, per amore di tutti gli uomini «dotati di buon senso», affinché non si perdessero in vane ricerche e non fossero colti da vani timori, volle mettere a loro disposizione il messaggio di salvezza rivelato agli uomini da Epicuro.

 

“Essendo al tramonto della vita – per vecchiaia appunto essendo quasi sul punto di staccarmi dal vivere – con un bel peana sulla pienezza dei suoi piaceri abbiamo voluto, per non essere colti prima dalla morte, soccorrere subito quelli che hanno buon senso. Se dunque uno soltanto, o due, o tre, o quattro, o cinque, o sei, o quanti tu vuoi che siano di più, o uomo, di un tal numero – ma certo non moltissimi – fossero malati, anche chiamandoli ad uno ad uno farei tutto ciò che è in mio potere per portarli alla migliore deliberazione. Ma poiché, come ho detto prima, i più sono in generale contaminati, come in una pestilenza, dalle loro errate opinioni sulle cose, e diventano anche di più (infatti per la reciproca imitazione si trasmettono l’un l’altro la malattia come le pecore) ed è giusto soccorrere anche quelli che verranno dopo di noi (anche quelli infatti sono nostri, anche se non sono ancora nati), ed è filantropico soccorrere anche gli stranieri che capitano qui, poiché dunque i benefici dello scritto si estendono a parecchie persone, ho voluto impiegando questo portico, porre in pubblico i farmaci della salvezza, dei quali appunto in una sola parola potremmo dir chiare a tutti le forme: infatti abbiamo dissolto le paure che ci dominano senza motivo e, dei dolori, alcuni li abbiamo davvero troncati via completamente, mentre quelli fisici li abbiamo ridotti assolutamente a poco, rendendo infinitesimale la loro grandezza” (A. Casanova, I frammenti di Diogene d’Enoanda, Firenze, pp. 90-94).

 

Diogene volle estendere questo messaggio di salvezza (salvezza tutta terrena) a tutti gli uomini senza distinzione, sia Greci sia stranieri, perché tutti gli uomini sono cittadini di quell’unica patria che è il mondo.

 

“E non di meno invero preparavamo queste cose anche per i cosiddetti stranieri, che in realtà non lo sono. Infatti, secondo ogni divisione della terra, chi ha una patria e chi ne ha un’altra, mentre, in base all’intero complesso di questo mondo, unica patria di tutti è tutta la terra, e il mondo è l’unica casa” (Ivi, pp. 184-185).

 

Il portico, con le sue incisioni, volle essere un libro per le generazioni presenti e per quelle future, un libro che Diogene volle consegnare alla pietra, affinché restasse indelebile.

Diogene chiedeva al visitatore del luogo di non avvicinarsi allo scritto distrattamente e, in secondo luogo, nel caso che provasse indifferenza o addirittura un sentimento di avversione, di evitare di dare uno sguardo qua e là e di andarsene via.

 

“Nessuno di voi io trascino a testimoniare con leggerezza e senza riflessione in favore di chi dice che queste cose sono vere – infatti non ho dogmatizzato nulla –, ma, osservando tutto, contemporaneamente riflettete. Una sola cosa vi chiedo, come anche prima, di non accostarvi agli scritti alla maniera in cui uno passa per la via, nemmeno nel caso che ci sia un po’ di indifferenza o  di noia, volgendovi qua e là a ciascuno di essi e passando via” (Ivi, pp. 186-188).

 

Dai frammenti pervenutici, non pare che Diogene si occupasse espressamente della «canonica» epicurea, ma, nel corso dell’esposizione della «fisica», egli ne ribadiva i princìpi fondamentali, e in particolare il principio dell’assoluta validità della sensazione e la ferma convinzione circa la possibilità di raggiungere il vero, polemizzando contro coloro che avevano inficiato con le loro dottrine la validità di questi princìpi.

Per quanto concerne le dottrine propriamente fisiche, almeno nei frammenti pervenutici, noi ritroviamo le tipiche tesi dell’Epicureismo: dalla teoria degli atomi a quella dell’infinità dei mondi, dalla dottrina dell’anima a quella dei simulacri, dalla dimostrazione della tesi che la morte non è temibile (perché l’anima, e quindi il sentire, perisce col corpo) alla riaffermazione della tesi della naturalità del linguaggio.

Inoltre Diogene sembra ribadire la tesi che i fenomeni naturali sono spiegati da molteplici cause, e che non bisogna prendere posizione a favore di una sola delle possibili soluzioni.

Degna di rilievo è, poi, la difesa che egli accampa contro le accuse rivolte agli Epicurei di «empietà» e «ateismo»; egli menzionava espressamente i nomi dei veri empi e dei veri atei (gli accusatori di Socrate e di Anassagora, Diagora, Protagora), e affermava energicamente:

 

“Veneriamo gli dei, sia in feste che in occasioni qualunque, egualmente sia in pubblico che in privato, e seguiamo i patrii costumi verso di loro” (Ivi, p.142)

 

Nell’esposizione dell’«etica» Diogene additava il fine della vita – dal cui raggiungimento dipende in toto la felicità – nel piacere, ancora una volta in pieno accordo col verbo di Epicuro.

Egli polemizzava vivacemente contro gli Stoici, che indicavano il fine della vita nella virtù, la quale, a suo avviso, è solamente un mezzo e non un fine. In fin dei conti, Diogene – come la stragrande maggioranza degli altri Epicurei – si pone come divulgatore (più che come innovatore) del verbo di Epicuro nella sua forma originale.

 

“Io dico ora e sempre, gridandolo forte a tutti i Greci e i barbari, che il piacere è il perfetto compimento del migliore modo di vivere e che le virtù […] non sono mai un fine, ma sono produttrici del fine” (Ivi, p. 192)

 

A proposito dei piaceri, egli affermava:

 

“Nessun piacere di per sé è male; ma i mezzi di certi piaceri portano molti più turbamenti che piaceri” (Ivi, p.196)

 

Come mezzo per raggiungere l’«atarassia», ovvero l’assenza di turbamenti, veniva riproposto il «quadruplice farmaco» (il celebre «tetrafarmaco» epicureo), che così riassumeva:

 

“Dunque, quali sono le cose che turbano? Sono le paure, quella degli dei, quella della morte, quella dei dolori e, oltre a queste, il desiderio che va molto al di là dei limiti naturali. E infatti queste sono le radici di tutti i mali, e se recideremo queste alla base, nessuno dei mali spunterà in noi” (Ivi, p.249)

 

Inoltre, una serrata polemica doveva essere condotta contro le varie dottrine dell’immortalità dell’anima, come provano gli espliciti richiami alla dottrina della metempsicosi e alle ibride tesi degli Stoici.

Notevole doveva essere soprattutto l’energica polemica contro il Fato e contro la connessa dottrina della divinazione, nonché la difesa del movimento libero degli atomi e, quindi, della libertà umana (punto, questo, in cui – com’è noto – risiedeva la maggiore differenza tra la fisica epicurea e quella democritea).

Diogene difendeva, infine, la vecchiaia, mostrando come anche questa età recasse i suoi vantaggi e si opponeva fermamente a coloro che biasimavano la vecchiaia come «storpia».

Egli insegnava – in spirito squisitamente epicureo – che la vita può essere gustata sempre, fino all’ultimo momento, a patto che ci si renda conto che essa è un bene, il quale, fino a quando è presente, non può essere sopraffatto da nessun male.

Per l’epicureo la vita è sempre, in quanto tale e finché perdura, senza eccezioni, il bene assoluto: basta viverla come si deve, ossia usando i «farmaci della salvezza», per essere sempre felici.

La seguente ricostruzione di un’iscrizione esprime alla perfezione il carattere morale di Diogene:

 

“Per piccole cose la sorte incide sul saggio; le maggiori e più importanti, il ragionamento le ha sempre amministrate e per tutto il tempo della vita le amministra e le amministrerà” (Ivi, p.314)



 

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