DIOGENE LAERZIO


 

A cura di Diego Fusaro



"I sapienti sono divini: è infatti in loro qualcosa di divino". (Vite dei filosofi, VII, 118)


 

 

DIOGENE LAERZIODell’eruditissimo Diogene Laerzio ignoriamo ogni dato biografico: la collocazione tra fine II ed inizio del III secolo d. C. si deve al fatto che egli cita il filosofo Potamone di Alessandria, operante appunto nell’età dei Severi. Alcuni hanno ipotizzato che egli fosse originario della città di Laerte in Caria, in Asia Minore, come proverebbe il soprannome “Laerzio” e che fosse platonico, giacché esalta Platone ed elogia la destinataria dell’opera come “giustamente filo-platonica” (III, 47). Ma si tratta di congetture. Diogene Laerzio è autore di un’opera dall’inestimabile valore documentario: la Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi, solitamente abbreviata in Vite dei filosofi. Si tratta di quella che potremmo definire la prima storia della filosofia in senso autentico, nata con lo scopo di presentare le dottrine dei grandi filosofi dell’antichità. Anche il primo libro della Metafisica di Aristotele aveva in fondo i tratti della storia della filosofia, ma bisogna ricordare che l’intento dello Stagirita era anzitutto teoretico e che dunque egli si avvicinava alle dottrine dei suoi predecessori con piglio teoretico più che storico. L’opera di Diogene Laerzio, invece, vuole essere una storia della filosofia: tenendo fede al titolo, essa espone in dieci libri la biografia e il pensiero dei principali filosofi, dai primi sapienti fino a Epicuro.  Dell’opera di Diogene non ci sono giunti la dedica (ma da allusioni contenute nel resto dell’opera apprendiamo che il destinatario era una donna) e l'ultima parte del libro VII. Si tratta di un vasto compendio bio-dossografico, che illustra vita e dottrine di 84 filosofi. Diogene apre la sua opera con un ampio proemio in cui discute delle origini della filosofia e che sembra essere in diretta polemica con i cristiani, per poi passare all'esposizione della vita, opere (con il pinax, ossia l’elenco completo degli scritti, divisi per temi) e pensiero dei filosofi, divisi in “ionici” ed “italici”, seguiti dagli “sporadici” (libri IX-X), ossia i filosofi che non possono essere inclusi nelle due categorie suddette. È molto interessante il proemio, in cui Diogene discute sull’origine della filosofia: in opposizione con quanti sostengono che essa è nata in Oriente (lo stesso Aristotele, nel perduto Magico, aveva propugnato questa tesi, esponendo le dottrine dei Magi persiani), Diogene Laerzio afferma con decisione che “la filosofia è una creazione dei Greci: il suo stesso nome non ha nulla a vedere con una denominazione barbarica”. L’obiettivo polemico di questo proemio non è tanto Aristotele, quanto piuttosto il clima culturale contemporaneo a Diogene: un clima che aveva finito per concepire l’Oriente come culla della filosofia (si pensi ai cosiddetti Oracoli Caldaici e al Corpus hermeticum). Sicché il proemio discute dell’origine della filosofia (1-11), del nome filosofia (12), delle divisioni della filosofia, della successione dei filosofi e della loro distinzione (13-17), delle parti della filosofia (18) e infine delle scuole filosofiche (19-20). Nel I libro la trattazione si sofferma sui “sapienti”, seguiti, nel II libro, dai fisici e da Socrate e i socratici minori; i libri III-IV sono dedicati a Platone e agli Accademici. Nel V libro si tratta di Aristotele e dei peripatetici suoi allievi per poi passare, nel VI, ai Cinici (tra cui spiccano Antistene e Diogene). Il VII libro, il più lungo e complesso (mancante dell’ultima parte) tratta degli Stoici, partendo da Zenone e concentrandosi soprattutto su Crisippo. Nel libro VIII si parla di Empedocle e dei Pitagorici, seguiti, nel libro IX, da Eraclito, gli Eleatici, Democrito, Protagora e gli Scettici. Il X libro è tutto dedicato ad Epicuro e alla sua scuola: visto l'interesse epicureo della destinataria, Diogene inserisce tre lettere di Epicuro (A Erodoto sulla fisica, A Pitocle sulla meteorologia, A Meneceo sull’etica) intercalando il suo commento e facendo poi seguire le Massime Capitali come sintesi del pensiero epicureo, con cui l'opera si chiude. Grande merito di Diogene è anche quello di averci tramandato questi testi epicurei, i quali sarebbero altrimenti andati irrimediabilmente perduti. Seguendo un costume diffuso, Diogene compose anche una raccolta di suoi epigrammi, Pammetros (Raccolta in tutti i metri), di cui a noi restano 56 componimenti, da lui stesso inclusi nelle Vite, di scarso valore artistico, ma di grande eleganza formale e metrica. Le Vite dei filosofi si pongono come un manuale senza pretese di originalità, ma che è per noi fonte preziosa di testimonianze e cronologia sui vari filosofi classici ed ellenistici. Con scrupolo erudito, infatti, Diogene opera su materiali come lessici, repertori bibliografici, cronologie, e riporta con puntiglio le sue fonti, citando spesso passi degli stessi pensatori come esemplificazione nell'esposizione della loro dottrina, fino al caso limite dei lunghi testi epicurei del libro X. Si tratta di un “manuale biografico”, basato su ottime fonti cronologiche e bibliografiche, risalenti all’erudizione ellenistica, e dossografico: ma a Diogene mancano lo spirito critico e l’attitudine filosofica, e la sua esposizione è spesso mancante di chiarezza o troppo sintetica proprio nei punti salienti delle diverse dottrine (basti pensare alle cadute nelle sezioni sulle dottrine di Platone, Aristotele e degli stoici). Detto altrimenti, Diogene, in balia a una curiosità quasi morbosa, si sofferma per pagine e pagine sulla vita degli autori per poi liquidarne in poche righe le dottrine: quasi come se a lui la vita dei filosofi interessasse più del loro pensiero. Un esempio del suo modo di procedere si può estrapolare da questo passo del III libro, dedicato a Platone, in cui cita in modo disordinato e ripetitivo le tappe della formazione del filosofo, concedendo ampio spazio all’aneddoto:  


“All’inizio filosofò nell'Accademia, poi nel giardino vicino a Colono, come dice Alessandro nelle Successioni, secondo la filosofia eraclitea. Poi, desiderando gareggiare con una tragedia, ascoltato Socrate davanti al teatro di Dioniso, bruciò i suoi versi dicendo: 

Vieni qui, o Efesto, chè Platone ti chiama! 

Da allora, avendo vent’anni, dicono, seguì Socrate: dopo la sua morte seguì Cratilo l’eracliteo ed Ermogene, che seguiva la filosofia parmenidea. In seguito, a ventotto anni, secondo quanto dice Ermodoro, si recò a Megara da Euclide con altri socratici. Poi andò a Cirene dal matematico Teodoro; di lì in Italia presso i pitagorici Filolao ed Eurito. Da lì in Egitto, presso i sapienti”.

 

Così, Diogene si sofferma diffusamente sulla vita di Platone per poi liquidarne rapidamente la dottrina delle “Idee”, come se fosse di poca importanza. Tuttavia, proprio questi difetti ci consentono una sostanziale obiettività e chiarezza nell’esposizione, che si configura come una raccolta di aneddoti e motti celebri, simile alle biografie di Svetonio (a cui lo accomuna l’interesse per i “pettegolezzi”), che non riesce però a cogliere il nucleo filosofico dei singoli pensatori. Una curiosità è che Diogene Laerzio mostri una sorta di venerazione per Epicuro (solo a lui e a Platone dedica un libro intero), con la trattazione del quale si chiude l’opera: ciò ha indotto alcuni critici a ritenere che fosse un epicureo. In effetti, Diogene Laerzio sembra fare con Epicureo ciò che Eusebio di Cesarea fa col cristianesimo: tutta la storia della filosofia, nell’ottica di Diogene Laerzio, si configura come una sorta di “praeparatio epicurea”, ossia come un qualcosa di subordinato e funzionale a Epicuro; similmente a come, per Eusebio, tutta la filosofia non era che una “praeparatio evangelica”.   

 

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