UMBERTO ECO

 

 

A cura di Andrea Pesce

 


UMBERTO ECO


 

"L'Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall'eccessivo amor di Dio o della verità, come l'eretico nasce dal santo e l'indemoniato dal veggente. Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro." (Il nome della rosa)


Una delle doti principali che contraddistingue la personalità e il lavoro intellettuale di Umberto Eco è l’ironia. Se si sfogliano le prime pagine del suo Trattato di semiotica generale, opera rigorosa nell’analisi dei processi comunicativi e considerata tra le più importanti pubblicazioni del filosofo, si può leggere una frase a dir poco singolare: “la semiotica è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire” . Non è pura casualità se l’illustre semiologo è stato più volte sollecitato per un maggiore impegno in ambito politico-sociale nel nostro paese: non è forse l’ironia una virtù che fin dall’antica Grecia è stata glorificata per la sua capacità di far emergere la verità sugli eterni abusi perpetrati dai potenti? Nato ad Alessandria il 5 Gennaio del 1932, Eco si laurea nel 1954 presso l’Università di Torino (suo compagno di studi è il filosofo Gianni Vattimo) con una tesi sul Problema estetico in Tommaso d’Aquino, poi accresciuta e pubblicata nel 1970 dalla casa editrice Bompiani. Essendo allievo dell’illustre filosofo piemontese Luigi Pareyson, è forte l’influenza sul pensiero di Eco della teoria sull’interpretazione artistica contenuta nell’opera Estetica del 1954. In questo testo Pareyson propone di considerare l’interpretazione come “conoscenza di forme da parte di persone”, modalità infinitamente molteplice, non mai univoca, specchio della multiformità del soggetto interpretante e dell’oggetto contemplato. Questo passo risulta essere decisivo se applicato anche alla verità e ad ogni forma di rapporto che l’essere umano intrattiene con essa. Pareyson si accorse ben presto di avere in Eco e Vattimo due allievi dotati di un acume straordinario: a loro affidò l’indagine del pensiero medievale in Tommaso d’Aquino (Eco) e del concetto di fare in Aristotele (Vattimo). Dopo aver lavorato dal 1954 al 1959 come editore dei programmi culturali della Rai, negli anni Sessanta ha insegnato prima, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Milano, poi, presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Firenze ed infine presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Inoltre, ha fatto parte del Gruppo 63, rivelandosi un teorico acuto e brillante. Dal 1959 al 1975 ha lavorato, presso la casa editrice Bompiani, come senior editor. Nel 1975 viene nominato professore di Semiotica all'Università di Bologna, dove impianta una vivace e agguerrita scuola. Negli anni 1976-'77 e 1980-'83 ha diretto l'Istituto di Discipline della Comunicazione e dello Spettacolo, presso l'Università di Bologna. È stato insignito di molti titoli onorifici da parte delle università di tutto il mondo, presso le quali ha tenuto diversi corsi. Dal 1989 è presidente dell'International Center for Semiotic and Cognitive Studies, e dal 1994 è presidente onorario dell'International Association for Semiotic Studies, di cui negli anni precedenti è stato segretario generale e vicepresidente. Dal 1999 è inoltre presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici, presso l'Università di Bologna. Ha collaborato con l'Unesco, con la Triennale di Milano, con l'Expo 1967 - Montreal, e con la Fondation Européenne de la Culture, e con molte altre organizzazioni, accademie, e testate editoriali nazionali e internazionali. Numerose inoltre sono le sue collaborazioni, non solo a quotidiani («II Giorno», «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «La Repubblica», «Il Manifesto») e a settimanali («l'Espresso»), ma anche a periodici artistici e intellettuali («Quindici», «Il Verri», ed altri). Ha svolto indagini in molteplici direzioni: sulla storia dell'estetica, sulle poetiche d'avanguardia, sulle comunicazioni di massa, sulla cultura di consumo, ecc. Spaziando dall'estetica medievale alla semiotica ai vari codici di comunicazione artistica, la sua produzione saggistica appare, dunque, estremamente varia e vasta. Per Umberto Eco il modo ermeneutico (ereditato da Pareyson) di accostarsi alle manifestazioni artistiche sarà addirittura esteso al concetto fondamentale per la semiotica: il segno. Come approfondiremo in seguito, la correlazione che si istituisce tra significante (la parola scritta o parlata) e il referente (la cosa reale a cui il segno si riferisce) è puramente convenzionale; così come i criteri che istituiscono il concetto di somiglianza tra il segno e la cosa sono sempre decisi dal soggetto che opera la comparazione. Sulla scia di questo discorso, nel 1962 esce Opera aperta edito da Bompiani, in cui l’autore riesce a spaziare dalla musica seriale a Joyce, dallo Zen al film dopo Antonioni e Godard, applicando ad ogni ambito d’indagine lo stesso rigore e serietà. Attraverso queste analisi, Eco dimostra che l’opera d’arte (da quella “alta” a quella di massa e popolare) non è dotata di un significato unico e definitivo, ma abbisogna di continue integrazioni da parte di critici e dei fruitori più comuni. Nel 1979 tutto ciò è stato ampiamente sviluppato nel saggio Lector in fabula, attraverso la definizione del romanzo come “macchina pigra”, bisognosa di cooperazione interpretativa da parte del lettore . Anche nel saggio successivo - Apocalittici e integrati - del 1964 egli si spinge all’analisi del fumetto, della narrativa popolare o della canzone di consumo con il rigore dell’indagine scientifica. Da molti considerato oltraggioso e irrispettoso verso l’arte con la maiuscola, oggi addirittura il titolo di questo lavoro è divenuto espressione proverbiale per identificare due differenti visioni della cultura e della società. Se, in queste prime opere teoriche, l’ironia è presente ancora in forma sottile, quasi impalpabile, nascosta sotto il ben più ampio strato dell’approccio filosofico-scientifico, nel 1963 diventa la vera protagonista con Diario minimo, raccolta di brevi saggi su osservazioni di costume e parodie ispirate dall’attualità. Di questo libro, divenuto un best seller e tradotto in molte lingue, è doveroso citare almeno lo scritto dal titolo: Fenomenologia di Mike Bongiorno. In queste sei paginette viene descritto il personaggio televisivo che in quell’epoca imperava sugli schermi del paese, Mike Bongiorno appunto. L’analisi è condotta con una tale eleganza, chiarezza e accuratezza nella descrizione dei particolari, tanto che lo stesso Mike si è detto più volte lusingato dello sforzo di Eco nel raccontarlo, implicitamente confermando le tesi esposte dallo studioso. Rileggiamone alcuni divertenti passaggi:

“Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. […] quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta. […] Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. […] In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa. […] professa una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto. […] Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. […] Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli potrebbe essere più fecondo di lui. […] Mike Bongiorno è privo del senso dell’umorismo. Ride perché è contento della realtà, non perché sia capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura del paradosso […] Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti”.

Questo tipo di scritto darà il via ad una lunga serie di pubblicazioni come Dalla periferia dell’impero (1977), Il superuomo di massa (1978), Sette anni di desiderio (1983), Il secondo diario minimo (1992) e La bustina di Minerva (1999), quasi tutte raccolte di ironiche digressioni sui più svariati temi d’attualità, alternate con profonde analisi di stampo filosofico e sociologico. Nel 1983 il fondatore del “pensiero debole”, Gianni Vattimo, pubblica Il pensiero debole, una sorta di manifesto programmatico del nuovo movimento filosofico: tra i tanti saggi che compongono l’opera (scritti, tra gli altri, da Pier Aldo Rovatti, da Maurizio Ferraris, da Diego Marconi), ne compare uno firmato da Eco, intitolato L’antiporfirio. In questo scritto, Eco scorge nell’allievo di Plotino, Porfirio, l’esempio paradigmatico di quel “pensiero forte” (cfr. Giuseppe Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio, Milano, 1996) che, poggiando su categorie metafisiche, pretende di cogliere la verità in via definitiva: ad esso si contrappone l’ideale di un “pensiero debole” che, consapevole dei propri limiti congeniti, si pone in ascolto degli altri e si mette ermeneuticamente in cerca di una verità mai definitivamente conquistabile. Dal 1975, Eco è professore di Semiotica all’Università di Bologna, forse la prima vera facoltà italiana di questa disciplina. Ma che cosa è la semiotica? A differenza della Semiologia, che ha come base teorica il lavoro di Ferdinand de Saussure (1857-1913) col suo Corso di linguistica generale pubblicato nel 1913, considerata una naturale estensione della linguistica, la semiotica si fonda sull’opera del filosofo statunitense fondatore del pragmatismo, Charles Sanders Peirce (1839-1814), impegnato più in ambito logico e filosofico e maggiormente interessato ai processi cognitivi che stabiliscono le regole per la trasmissione di messaggi. Malgrado in entrambe le discipline alla base sia presente il semeion, il segno degli antichi greci , nel suo libro Semiotica del 1932, Peirce distinse tre tipi di segno visivo: icona, possiede più di una qualità con l’oggetto denotato (es. un ritratto, una fotografia), indice, si trova in rapporto di contiguità con l’oggetto (es. il fumo che indica fuoco, ma anche il sintomo di una malattia) e il simbolo che si riferisce all’oggetto per via di convenzioni (es. il tricolore simbolo di patria, immagini in cui possono convergere valori condivisi da una comunità). Per Peirce nei casi di indice e simbolo il rapporto tra segno e referente è convenzionale, regolato da un codice interpretativo; nei segni iconici, invece, i rapporti sarebbero motivati per somiglianza con l’oggetto stesso. Eco assume, inversamente, una posizione antireferenzialista affermando che ciò che è iconico, solo apparentemente mostra il suo significato per natura interna: si tratta sempre di attribuzione di significati da parte del soggetto, derivanti da condizionamenti eminentemente culturali. Il significato di un segno non va ricercato all’interno del segno stesso ma nella sua relazione con il codice nel quale esso agisce: la natura del segno è dunque fondamentalmente arbitraria. Egli porta esempi tratti dalla ricerca antropologica che hanno ben dimostrato che la competenza nel leggere un’immagine fotografica varia presso i popoli che non conoscono la prospettiva, diversificando la descrizione delle figure presenti nella foto. Su queste ostiche basi teoriche, Eco costruisce un romanzo giallo che gli conferirà fama a livello mondiale e l’attribuzione di molti premi letterari, tra cui il premio Strega nel 1980. Stiamo ovviamente parlando de Il nome della rosa, in cui ciò che il filosofo ha chiamato “semiosi”, ovvero il processo di produzione dei segni e le loro vicissitudini attraverso i codici, è fortemente presente. D’altronde quale migliore dimostrazione della teoria echiana della semiotica come disciplina della menzogna, se non un romanzo, un testo che è sempre premeditata bugia? Per di più un romanzo ambientato in quel Medioevo in cui Eco si era già addentrato a partire dai tempi della sua tesi di laurea. Il nome della Rosa è un giallo teologico e narra l’avventura investigativa di Guglielmo da Baskerville (cognome espressamente riferito a Il mastino dei Baskerville di Conan Doyle) e il novizio Adso da Melk, per smascherare il responsabile di una serie di omicidi all’interno di un monastero benedettino dell’Italia del nord nell’anno 1327. Possiamo subito dire che il romanzo non è altro che la prosecuzione letteraria delle teorie sulla “semiosi illimitata” esposte da Eco nelle sue opere accademiche, princìpi contenuti nel già citato Trattato e in Lector in fabula. Per addentrarsi con piacere nella fitta trama del testo, al lettore è richiesta un’altissima dose di “cooperazione interpretativa” e “conoscenza intertestuale”, tenendo sempre ben presente che ogni libro vive e si alimenta grazie al continuo rinvio e dialogo con altri libri. Citando in modo ironico il Wittgenstein de il Tractatus logico-philosophicus che scriveva che “di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, l’autore, dichiarando nelle ultime parole del risvolto di copertina che “ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”, lancia la sua sfida fin dal titolo, che può così essere interpretato: Il nome della rosa è il nome della rosa e il nome della rosa è una rosa. Ogni segno, linguistico e non, è definibile e interpretabile solo attraverso altri segni in una catena infinita, come quando apriamo il dizionario per cercare il significato di una parola e troviamo altre parole per descriverci il senso del termine indagato, in una serie interminabile di rimandi. Andamento circolare anche nel romanzo che si chiude con la frase: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, tradotto con “permane la rosa originale con il nome, abbiamo poi soltanto nudi nomi”. Frase da intendere in senso nominalista, con la parola “rosa” che non avrebbe alcun significato se le rose dei nostri giardini smettessero di esistere. Se la rosa come tale scompare, scompare anche il suo nome. Ecco, allora, il significato del labirinto del romanzo: metafora della continua ricerca della verità - secondo l’insegnamento dell’ermeneutica - , nella sempre incombente possibilità di smarrirsi in una catastrofica perdita di coordinate spazio-culturali. L’esperienza romanzesca non si ferma a Il nome della rosa. Nel 1988 segue un altro romanzo dal titolo Il pendolo di Foucault, opera altrettanto affascinante, costruita come un puzzle tra gli oscuri meandri del tempo e dello spazio. Nel 1994 esce il terzo romanzo di Eco, L’isola del giorno prima, nel 2000 Baudolino e, nel 2004, La misteriosa fiamma della regina Loana. Si è accennato, agli esordi di questo scritto, che con Umberto Eco la questione del ruolo dell’intellettuale all’interno della società in cui vive, si è più volte riproposta sotto forma di esortazioni, da parte di altri personaggi di spicco del panorama culturale, per un maggiore impegno, soprattutto nei confronti della difficile situazione politica italiana. Il tema è vecchio e risale almeno agli scritti dal carcere di Antonio Gramsci: in particolare: Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Il Risorgimento, Letteratura e vita nazionale, Passato e presente. Il problema che viene affrontato in queste opere è il rapporto tra gli intellettuali e il popolo, arrivando addirittura a modificare il senso della parola “nazionale” che dovrà essere intesa come “popolare”, in aperta polemica con il cosiddetto “uomo di cultura” che, dal Quattrocento in poi, si è distaccato dai problemi inerenti lo sviluppo economico e sociale dell’Italia, comportandosi in modo altezzoso e indifferente. Scrive Gramsci: “in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione, e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano.” Anche Gramsci, come lo stesso Eco, indirizzerà molti dei suoi interessi alla letteratura popolare, al romanzo d’appendice, al melodramma, tutti generi letterari che facilitavano il contatto con la grande massa dei lettori. Sulla sponda opposta troviamo la posizione di Asor Rosa che, con la pubblicazione del saggio Scrittori e popolo del 1965, sferra un potente attacco all’intellettuale nazional-popolare bollato di provincialismo, conservatorismo, di essere l’incarnazione piccolo borghese della cultura paesana, lontana anni luce dai fermenti europei. Perché Umberto Eco sarebbe, da alcuni suoi colleghi, accusato di snobismo nei confronti dei problemi politico-sociali? La ragione potrebbe risiedere nel fatto che Eco è l’intellettuale italiano più conosciuto al mondo, uno studioso con una capacità retorica e discorsiva incredibilmente efficace ed, infine, perché la sua posizione politica è dichiaratamente di sinistra. Nel nostro paese, oggi, mancano quelle figure culturali di riferimento (il citato Gramsci, Croce, Pasolini), capaci di scuotere le coscienze, alimentare il dibattito, accusare direttamente i responsabili delle eventuali aberrazioni democratiche, suggerire strategie per possibili correzioni di rotta nella gestione politica del paese. La deriva cui stiamo assistendo del mezzo di comunicazione di massa per eccellenza, ovvero la televisione, seguita quotidianamente da milioni di persone, usata scorrettamente ormai solo come mezzo di propaganda politica, forse, attraverso un maggiore impegno da parte di tutti gli intellettuali (soprattutto quelli designati alla gestione dei palinsesti), avrebbe potuto evitare, almeno sulle reti pubbliche, il ripugnante e vergognoso spettacolo quotidiano gettato in pasto agli onnivori utenti.


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