WALTER BENJAMIN
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
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Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione.



A cura di Claudia Bianco


 

 

Il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica viene scritto da Walter Benjamin (1892-1940)  nel 1935 subito dopo aver partecipato come uditore al I Congresso internazionale degli scrittori, organizzato a Parigi al fine di dar vita a un’ampia mobilitazione intellettuale contro la diffusione del fascismo .  Nel 1936 il saggio è pubblicato, nella traduzione francese di Pierre Klossowski , sulla celebre rivista Zeitschrift fur Sozialforschung , che in quel periodo si stampava a Parigi e il cui gruppo dirigente era costituito da Theodor Wiesengrund Adorno  (1903-1969) , Max Horkheimer  (1895-1973) e Herbert Marcuse (1898-1979) , fondatori dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte.  In una lettera del 16 ottobre 1935 a Horkheimer, Benjamin descrive il saggio come “una puntata in direzione di una teoria materialistica dell’arte”; in effetti la sua problematica adesione al marxismo e i rapporti con il gruppo di Adorno e con Bertolt Brecht costituiscono un quadro di riferimento imprescindibile per comprendere un testo che lega il problema del mutato statuto dell’opera d’arte – a seguito della diffusione di nuove tecniche di riproduzione- a considerazioni di carattere politico e sociale.

L’adesione di Benjamin al “materialismo storico”, ossia alla dottrina associata principalmente alle figure di Karl Marx  (1818 – 1883) e Friedrich Engels (1820-1895) , secondo cui le produzioni cosiddette “spirituali” degli uomini – arte, religione e filosofia – sarebbero determinate, in quanto “sovrastruttura” , dalle strutture economiche soggiacenti delle diverse relazioni sociali e dei diversi modi di produzione, è sin dall’inizio assai problematica e originale.  Nel saggio Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, Benjamin individua come compito del materialismo storico il superamento dell’atteggiamento “contemplativo” e neutrale assunto dallo storicismo per introdurre una visione dialettica della storia.  Il passato non deve essere considerato come inserito in un ordine lineare e progressivo, bensì come qualcosa di unico, un’”esperienza originaria” in cui il presente si incontra con il passato in una “costellazione critica” che “fa deflagrare la continuità della storia”.  L’idea di un presente nel quale si incontrano i diversi registri temporali dell’eternità e dell’istante era probabilmente maturata in Benjamin attraverso la lettura di Baudelaire, il quale, come abbiamo visto, nei saggi de Il pittore della vita moderna aveva definito la modernità come coesistenza, nel presente, del transitorio e dell’effimero con l’eterno e l’immutabile.

La critica della concezione della storia come progresso lineare e ascendente ritorna nelle tesi Sul concetto di storia (1940) , dove il compito del materialista storico è descritto come quello di “scardinare il continuum della storia”, a partire da “un presente che non è passaggio, ma nel quale il tempo è in equilibrio ed è giunto a un arresto (…) quel presente in cui egli, per quanto lo riguarda, scrive storia”.  Il presente non è un istante astratto e anonimo dell’omogeneo fluire del tempo, né un’agostiniana distensio animi tutta racchiusa nell’interiorità della coscienza: esso è,invece, istanza originaria generatrice del tempo storico, luogo della sospensione e della critica in cui  la storia è narrata e costruita guardando al futuro, a partire dalle urgenze dell’attualità (Jetztzeit).  Questa costellazione di presente, passato e futuro, implicante al tempo stesso critica dell’esistenze e apertura verso il futuro, si rivela allo sguardo dello storico purificato dalle pecche dello storicismo sotto le sembianze di quella che Benjamin chiama un’”immagine dialettica”: un’immagine improvvisa, balenante, nella quale passato e futuro si illuminano a vicenda a partire dal presente.

E’nella sezione N del libro incompiuto dedicato ai passages di Parigi, intitolata “Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso” che Benjamin sviluppa questo concetto, sostenendo che è solo attraverso le immagini dialettiche che la storia giunge alla leggibilità in una determinata epoca, là  dove improvvisamente il passato subisce una sorta di “teléscopage” attraverso il presente: “Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora (Jetzt) in una costellazione.  In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità .  Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale,continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso, ma un’immagine discontinua, a salti.  Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio”.  L’immagine dialettica appare là dove il pensiero si arresta in una costellazione, dove passato, presente e futuro si manifestano improvvisamente alla luce di una “vera sintesi” in cui appare ciò che Benjamin , riprendendo un termine fondamentale della morfologia goethiana , chiama un “fenomeno originario della storia”.

La riflessione benjaminiana su cosa significhi un approccio materialistico e dialettico alla storia e all’arte sta sullo sfondo del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica , che nella “premessa” è presentato come una raccolta di “tesi sopra le tendenze dello sviluppo dell’arte nelle attuali condizioni di produzione”.  In apertura del saggio Benjamin cita un passo di un breve testo di Paul Valéry (1871-1945) , “La conquete  de l’ubiquité”, pubblicato nel 1931 nella raccolta Pièce sur l’art.  In questo testo Valéry si interroga sui mutamenti in atto nella nozione stessa di arte – nelle tecniche artistiche, nella concezione della creazione, nella riproduzione e trasmissione delle opere – in seguito all’incremento stupefacente del nostro “potere di azione sulle cose”.  La futura diffusione di nuovi mezzi di comunicazione analoghi alla radio e al telefono avrebbe presto consentito, secondo Valéry, di “trasportare o ricostituire in ogni luogo il sistema di sensazioni – o più esattamente, il sistema di eccitazioni – provocato in un luogo qualsiasi da un oggetto o da un evento qualsiasi”.  Nel caso dell’arte, ciò avrebbe significato la possibilità per le opere di avere una sorta di “ubiquità” , ossia di divenire delle “fonti” o “origini” i cui effetti potrebbero essere avvertiti ovunque.  Su un piano più generale, lo scenario evocato da Valéry è quello di una società futura in cui sarebbe possibile suscitare un flusso di immagini visive o di sensazioni uditive con un semplice gesto, una società caratterizzata dalla possibilità di una “distribuzione della Realtà Sensibile a domicilio”.  In questo aumentato potere di riprodurre e diffondere le opere, che Valéry vede già compiersi nel caso della musica, risiederebbe la “condizione essenziale della resa estetica più elevata”, ossia la possibilità di sganciare la fruizione dell’opera d’arte dall’hic et nunc della sua collocazione materiale o della sua esecuzione per renderla accessibile nel momento spirituale più favorevole e fecondo.

La stessa riflessione sui mutamenti in atto nello statuto e nella fruizione dell’arte in seguito all’elaborazione di nuove tecniche di riproduzione e trasmissione delle opere che anima il breve testo di Valéry è al centro del saggio di Benjamin, che ha come presupposto la grande diffusione della fotografia e del cinema nei primi decenni del secolo e il lavoro di sperimentazione condotto su queste due forme espressive da avanguardie artistiche come il dadaismo, il surrealismo o il costruttivismo.  A differenza di Valéry, Benjamin conferisce però alla propria analisi una valenza esplicitamente politica, in quanto nelle nuove forme di produzione e trasmissione dell’arte messe in atto da cinema e fotografia vede la possibilità di liberare l’esperienza estetica dal sostrato religioso-sacrale che ne accompagnava la fruizione da parte della borghesia, impedendo l’instaurazione di un nuovo rapporto tra l’arte e le masse.  Quelle proposte da Benjamin, secondo le sue stesse parole, sono tesi “che eliminano un certo numero di concetti tradizionali – quali i concetti di creatività e di genialità, di valore eterno e di mistero -, concetti la cui applicazione incontrollata (…) induce a un’elaborazione in senso fascista del materiale concreto”.  Scopo dell’analisi deve essere elaborare concetti “del tutto inutilizzabili ai fini del fascismo”, concetti che consentano, al contrario, “la formulazione di esigenze rivoluzionarie nella politica culturale”.

Una riflessione sulla riproducibilità dell’opera d’arte non può non partire dalla constatazione che, “in linea di principio”, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile”.  La riproduzione intesa come imitazione manuale di disegni, quadri o sculture è sempre stata parte integrante della pratica artistica, dell’apprendimento e della messa in circolazione delle opere. Nel caso della musica,poi, l’opera stessa esiste innanzitutto come ri-esecuzione .  Ciò che interessa a Benjamin , però, non è la riproduzione intesa in questo senso bensì la riproduzione tecnica delle opere d’arte, qualcosa che nella storia si è manifestato progressivamente nelle pratiche della fusione del bronzo, del conio delle monete, della silografia e della litografia come riproduzione della grafica e, soprattutto, della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura.  Con l’invenzione della fotografia e del cinema, la riproducibilità del visibile attinge a una dimensione nuova, sganciandosi ulteriormente dal condizionamento della manualità e velocizzandosi enormemente.  Di fronte a una tale rivoluzione tecnica, il compito del critico, secondo Benjamin, consiste nel riflettere sul modo in cui questo tipo di riproducibilità dell’opera d’arte finisce per imporre una ridefinizione dello statuto stesso dell’arte nella sua forma tradizionale.

La tesi centrale del saggio di Benjamin risiede nell’affermazione che nella riproduzione fotografica di un’opera viene a mancare un elemento fondamentale : “l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova”.  Nell’unicità della collocazione spazio-temporale dell’opera risiede il fondamento della sua autenticità e della sua autorità come “originale”, ossia la sua capacità di assumere il ruolo di testimonianza storica. La trasmissione di un’eredità culturale poggia infatti sul permanere nel tempo dell’unicità e dell’autorità delle opere e sulla loro conservazione e celebrazione in spazi dedicati, come i musei, o nei quali esse si radicano nella loro unicità (una chiesa, un palazzo).  Benjamin riassume i valori di unicità,autenticità e autorità dell’opera d’arte nella nozione di “aura” , un termine ricorrente nel lessico storico-artistico ed esoterico di inizio secolo nell’accezione di “aureola” (come quella che circonda le immagini dei santi) o in quella, assai più ambigua, di “alone” che circonda e avvolge ogni individuo, come negli scritti di carattere misterico o teosofico.

Il “declino”, il “venir meno” dell’aura (Verfall der Aura) determinato dall’avvento dei mezzi di riproduzione tecnica delle opere, sarebbe il sintomo, secondo Benjamin , di un più vasto mutamento “nei modi e nei generi della percezione sensoriale”: a ogni periodo storico corrispondono infatti determinate forme artistiche ed espressive correlate a determinate modalità della percezione, e la storia dell’arte deve essere accompagnata da una storia dello sguardo.  Proseguendo la riflessione sul progressivo impoverirsi dell’esperienza avviata nel saggio Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Benjamin constata come nella società a lui contemporanea, mediante la diffusione dell’informazione e delle immagini, tenda ad affermarsi sempre più un’esigenza di avvicinamento, alle cose e alle opere.

Ciò che però viene meno, in un’epoca caratterizzata dal bisogno di “rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine” e in cui “ si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione”, è quel peculiare intreccio di vicinanza e lontananza nel quale risiede, secondo Benjamin, l’essenza dell’aura: “Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali.  Noi definiamo questi  ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo”.  Fine dell’aura significa fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni.

Originariamente, le opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale, prima magico e poi religioso; la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata proprio da questa appartenenza al mondo del culto.  In forme secolarizzate, l’atteggiamento rituale e culturale nei confronti dell’arte sarebbe poi trapassato nelle forme profane del culto della bellezza, che nasce nel Rinascimento e dura fino alle ultime derive del Romanticismo.  L’avvento della riproducibilità tecnica e la sua diffusione mediante la fotografia segnano per la prima volta la possibilità di emancipare l’arte rispetto all’ambito del rituale: venendo meno i valori dell’unicità e dell’autenticità, si apre la possibilità di conferire all’arte una nuova valenza politica, al valore cultuale (Kultwert) dell’opera si sostituisce progressivamente il valore espositivo (Ausstellungswert).

Il discorso benjaminiano sulla fine dell’aura non è quindi riconducibile a una forma di nostalgia, bensì è un tentativo di individuare le potenzialità ancora non del tutto esplicitate della riproducibilità.  Nella fotografia la dissoluzione del valore cultuale in favore del valore di esponibilità non è ancora completa, in quanto l’aura mantiene una sua ultima forma di sopravvivenza nel “volto dell’uomo”.  Non è un caso che le prime fotografie siano state soprattutto dei ritratti, miranti a fissare e a tramandare nel tempo l’identità e lo sguardo dei soggetti fotografati:”Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalla prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. E’ questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza”.  Il profondo legame tra l’immagine fotografica e l’unicità del soggetto rappresentato nell’hic et nunc del suo essere rappresentato, e quindi il legame tra immagine, temporalità e morte- che Roland Barthes (1915-1980avrebbe successivamente tematizzato tramite il concetto di punctum nel celebre saggio La chambre claire – viene meno con il cinema.  La rappresentazione cinematografica, a differenza di quella teatrale, è fatta di mediazione , differimento, scomposizione: le azioni che ci si presentano nella loro sequenzialità sono girate in momenti diversi, e ciò che vediamo è il risultato di una serie di scelte legate all’inquadratura e al montaggio.  A differenza del pittore – che è come un mago nel mantenere la distanza tra sé e ciò che è oggetto della rappresentazione e nel conferire un’autorità auratica alla rappresentazione stessa- l’operatore cinematografico è come un chirurgo ; penetra nelle immagini, le frammenta, le scompone, ne ridefinisce la sequenza, finendo però per eliminarne l’aura.

Lungi dal condividere il senso di disagio provato da Pirandello nei confronti della presenza del mezzo tecnico nella realizzazione dell’immagine cinematografica, come testimonia il romanzo Si gira del 1915, Benjamin afferma che proprio questa mediatezza consente al cinema di determinare un significativo approfondimento delle nostre capacità percettive.  La possibilità di moltiplicare i punti di vista e le inquadrature mediante quella che Benjamin chiama “la dinamite dei decimi di secondo” rende infatti più libero e indipendente il nostro sguardo sulle cose.  Lo spazio che si rivela alla cinepresa è, inoltre, profondamente diverso da quello che si rivela allo sguardo empirico: “ al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente”. Quello rivelato dall’istantaneità dell’immagine fotografica e dalla sequenzialità dell’immagine in movimento è dunque un “inconscio ottico” che si rivela soltanto attraverso di esse, così come l’inconscio istintivo viene portato alla luce nella psicoanalisi.

La portata “rivoluzionaria” che Benjamin attribuisce alla fotografia come tecnica della riproduzione e,in maggior misura, al cinema, si esplica dunque su diversi piani: dissoluzione dell’aura attraverso riproduzioni che sottraggono l’opera d’arte all’hit et nunc della sua esistenza materiale e della sua fruizione, rivelazione di una visibilità che rimane inaccessibile all’occhio empirico e diventa invece accessibile grazie alla mediazione del dispositivo, contestazione di ogni atteggiamento cultuale e “feticistico”, tipicamente borghese, nei confronti dell’autenticità e dell’autorità dell’opera.  Riguardo a quest’ultimo punto, Benjamin sottolinea come il cinema, a differenza della pittura, non consenta un atteggiamento puramente contemplativo, fatto di esaltazione e rapimento.  Quella del cinema non è una fruizione fatta di raccoglimento ma una fruizione “distratta” in cui lo spettatore non si perde nell’opera, ma si mantiene in un atteggiamento nel quale piacere e giudizio critico coesistono senza limitarsi a vicenda.  Il cinema, in altre parole, si allontana dal naturalismo e dall’illusionismo teatrale e consente di conservare la “distanza” e lo “straniamento” che erano al centro, negli stessi anni, della riflessione sul teatro di Brecht.

La capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse aperta dal cinema, dunque, risiede per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva nella quale la critica non è soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine.  Certo, anche nel cinema è presente un residuo di aura, in particolare nel culto della personality che trasforma gli attori in divi, e del resto è chiaro che l’”industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse”.  Alla ricognizione delle possibilità espressive del mezzo cinematografico operata da registi come Ejzenstejn si contrapponeva, in quegli stessi anni, l’impiego dell’immagine cinematografica da parte dei regimi fascisti a fini propagandistici – basti pensare al contributo della regista Leni Riefenstahl nel definire l’iconografia del nazismo - , testimoniando così come questa forma espressiva avesse un potenziale ambiguo, , che sarà poi analizzato da Adorno e Horkehimer , in relazione all’industria culturale americana, in Dialettica dell’illuminismo (1946).  Rispetto a questo testo, l’analisi di Benjamin mostra di condividere l’interesse e le aspettative nutrite da diversi movimenti degli anni Venti e Trenta (neoplasticismo, costruttivismo, Bauhaus), oltre che dai giovani Lukàcs e Brecht , nei confronti dei nuovi mezzi espressivi, pur riconducendo la riflessione sull’arte a una finalità prettamente politica: Benjamin risponde infatti all’estetizzazione della politica e della guerra proposte dal fascismo, e condivise da futuristi come Martinetti, sostenendo la necessità di una “politicizzazione dell’arte” proprio a partire dal potenziale rivoluzionario e democratico del cinema.






La filosofia e i suoi eroi