ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO

 

 

LIBRO X

 

 

1. [Il piacere: teorie e fatti].

Deve a ciò far seguito la trattazione del piacere. [20] Si pensa comunemente che il piacere sia strettissimamente connaturato al genere umano, ragion per cui si educano i giovani governandoli col piacere e col dolore; si ritiene, inoltre, che anche per la virtù del carattere sia della massima importanza godere di ciò che si deve, e odiare ciò che si deve. Infatti, piacere e dolore si estendono per tutta la durata della vita, ed hanno gran peso e grande influenza sulla virtù e sulla vita felice: [25] si scelgono, infatti, le cose piacevoli, e si fuggono quelle dolorose316. Si ammetterà che non si può proprio sorvolare su argomenti di tale importanza, che sono oggetto, oltre tutto, anche di molte controversie. Infatti, alcuni317 affermano che il piacere è il bene, altri318, al contrario, che esso è affatto cattivo, e di questi ultimi alcuni, certo, perché sono persuasi che sia proprio così, altri perché pensano [30] che sia meglio per la nostra vita morale mostrare il piacere come una cosa cattiva, anche se non lo è: la massa inclina ad esso ed è schiava dei piaceri, e perciò bisogna condurla nella direzione opposta; così potrà arrivare proprio nel giusto mezzo. Ma, probabilmente, questa non è una buona tesi. Infatti, per quanto riguarda le passioni [35] e le azioni, le teorie sono meno persuasive dei fatti; le teorie, quindi, quando sono in disaccordo con i fatti constatati, vengono considerate con disprezzo e [1172b] coinvolgono nel discredito anche la verità. Se, infatti, colui che biasima il piacere viene una volta visto mentre tende anche lui ad un piacere, si pensa che egli inclini ad esso, perché, secondo lui, ogni piacere è degno di essere perseguito: fare distinzioni, infatti, non è cosa per la massa! Sembra, dunque, che, quando le teorie sono veritiere, [5] sono utilissime non solo per il sapere, ma anche per la vita: infatti, poiché si armonizzano con i fatti, vengono accolte con convinzione, ed è per questo che riescono a stimolare coloro che hanno giudizio a vivere in conformità con esse. Ciò posto, basta con tali considerazioni: esaminiamo ora le opinioni espresse sul piacere.

 

2. [La teoria di Eudosso e la critica di Speusippo].

Orbene, Eudosso319 pensava che il piacere è il bene per queste ragioni: [10] (1) vediamo che tutti i viventi, sia quelli razionali sia quelli irrazionali, tendono ad esso; ma in tutti i casi ciò che è desiderato è il bene, e ciò che è desiderato più di tutto è il massimo bene; quindi, il fatto che tutti i viventi siano portati al medesimo oggetto indica che per tutti questo è il sommo bene (ciascun essere vivente, infatti, trova ciò che è bene per lui, come trova il suo nutrimento), ma ciò, che è bene per tutti, cioè ciò verso cui tutti tendono, [15] è il bene per eccellenza320. Le sue teorie, poi, ottenevano credito più per la virtù del suo carattere che per se stesse: veniva considerato, infatti, eccezionalmente temperante, e, quindi, si pensava che egli facesse queste affermazioni non perché amico lui stesso del piacere, ma perché le cose stanno in verità proprio così. (2) Inoltre, pensava che ciò risulti non meno evidente in base all’argomento del contrario: infatti, diceva, il dolore di per sé è per tutti un oggetto da fuggire; [20] dunque, il suo contrario è parimente per tutti qualcosa di desiderabile. (3) E massimamente desiderabile è ciò che noi non desideriamo per qualcos’altro, né in vista di qualcos’altro. Tale oggetto è, per unanime consenso, il piacere: infatti, nessuno chiede a che scopo si gode, considerando che il piacere è desiderabile per se stesso. (4) Infine, qualunque sia il bene cui si aggiunge, per esempio, [25] all’agire con giustizia e con temperanza, il piacere lo rende più desiderabile; ma il bene resta accresciuto solo da se stesso. Quest’ultimo argomento, quindi, almeno così com’è, sembra mettere in chiaro che il piacere è uno dei beni, e per niente maggiore di un altro: infatti, ogni bene è più degno di scelta se è accompagnato da un altro bene che non se resta solo.

Orbene, è con un ragionamento di questo tipo che Platone dimostra che il piacere non è il bene. Infatti, egli dice321, [30] la vita di piacere è più desiderabile unita alla saggezza che non separata da essa, e se la vita mista è migliore, il piacere non è il bene, giacché nessuna cosa aggiunta al bene può renderlo più desiderabile. Ma è chiaro che il bene non sarà alcun’altra cosa che diventi più desiderabile se si accompagna a qualcosa che è bene di per sé. Che cosa dunque è questa natura, di cui anche [35] noi partecipiamo? È una cosa di questo genere che stiamo cercando.

(1) E coloro i quali obiettano non essere vero che è bene ciò a cui tutte le cose tendono, non dicono nulla di sensato. [1173a] Infatti, ciò che è ammesso da tutti noi affermiamo che è vero: e colui che rifiuta questa convinzione non troverà cose molto più convincenti da dire. Se, infatti, gli esseri privi di ragione fossero i soli a desiderare i piaceri, l’obiezione avrebbe senso, ma se li desiderano anche gli esseri dotati di ragione, come può aver senso l’obiezione? E poi, forse, anche negli esseri inferiori c’è un qualche istinto naturale e buono, [5] più forte di quanto essi siano per se stessi, che li fa tendere al bene proprio della loro specie.

(2) E non sembra che affrontino correttamente neppure l’argomento del contrario. Non è vero, dicono, che se il dolore è male, il piacere è bene: infatti anche un male può contrapporsi ad un male, ed entrambi possono contrapporsi a ciò che non è né male né bene. In ciò non hanno torto322, ma non colgono la verità, almeno non a proposito di ciò di cui stiamo parlando. [10] Se, infatti, piacere e dolore fossero entrambi dei mali, dovrebbero essere entrambi da fuggire; se, invece, non fossero né bene né male, nessuno dei due dovrebbe essere fuggito, oppure dovrebbero esserlo entrambi allo stesso modo. Ora, è evidente che gli uomini fuggono il dolore come un male, e che desiderano il piacere come un bene: dunque, piacere e dolore si contrappongono come bene e male.

 

3. [La teoria di Speusippo e sua confutazione].

(3) Certo, non è neppure vero che se il piacere non è una qualità, non è, per questo, neppure un bene: infatti, neppure [15] le attività della virtù sono delle qualità e nemmeno la felicità.

(4) Ma, dicono, il bene è determinato, mentre il piacere è indeterminato, perché ammette il più ed il meno323. Orbene, se fondano questo giudizio sul fatto che si può provare più o meno piacere, lo stesso varrà anche per la giustizia e le altre virtù, a proposito delle quali dicono esplicitamente che i virtuosi sono tali di più o di meno, [20] e agiscono più o meno in conformità con le virtù: infatti, ci sono uomini più giusti e più coraggiosi, ed è possibile comportarsi da giusti ed essere saggi in misura maggiore o minore. Se poi fondano il loro giudizio sulla natura stessa dei piaceri, non ce ne indicano però la causa, se è vero che ci sono due tipi di piaceri, quelli puri e quelli misti324. E che cosa impedisce che, come nel caso della salute, che, pur essendo determinata, ammette il più [25] ed il meno, così sia anche nel caso del piacere? Infatti, non c’è sempre la stessa proporzione in tutti gli individui, e neppure nel medesimo individuo essa resta sempre una e identica, ma, pur allentandosi, permane fino ad un certo punto, cioè differisce secondo il più ed il meno. Tale, dunque, può essere anche il caso del piacere.

(5) Inoltre, essi, posto che il bene è perfetto, e i movimenti e le generazioni sono [30] imperfetti, tentano di dimostrare che il piacere è movimento e generazione325. Ma non sembra che abbiano ragione, né che il piacere sia movimento. Si ritiene comunemente, infatti, che ogni movimento abbia una propria velocità o lentezza caratteristica, e se non l’ha per se stesso, come nel caso del cielo, l’ha in rapporto ad altro: ma al piacere non compete né l’una né l’altra cosa. Infatti, si può giungere a provar piacere, come [1173b] si può giungere ad essere adirati, rapidamente, ma non si può provar piacere rapidamente, neppure in rapporto ad altro, mentre rapidamente si può camminare, crescere e così via. Dunque, mentre è possibile passare rapidamente o lentamente ad una situazione di piacere, [5] non è invece possibile essere in atto in una situazione di piacere, cioè provar piacere, rapidamente. E poi, come potrebbe essere una generazione? Si ritiene comunemente, infatti, non che da una cosa qualsiasi si generi una cosa qualsiasi, ma che ciò da cui una cosa si genera sia la stessa in cui si dissolve: e di ciò la cui generazione è il piacere, corruzione è il dolore. Dicono326, inoltre, che il dolore è una mancanza di ciò che è conforme a natura, mentre il piacere è la restaurazione della sua pienezza. Ma questo è vero solo delle passioni del corpo. Se, quindi, il piacere è restaurazione della pienezza dello stato conforme a natura, [10] ciò in cui si restaura la pienezza sarà quello che anche proverà piacere: sarà dunque il corpo. Ma si ritiene che non sia così. Dunque, non è che il piacere sia la restaurazione di una pienezza, ma quando avviene la restaurazione della pienezza uno proverà piacere, come proverà dolore quando in lui si produce la mancanza327. Questa opinione, poi, si pensa che sia derivata dai dolori e dai piaceri relativi alla nutrizione: infatti, quando si è giunti in uno stato di privazione [15] e si è già provato dolore, poi si gode del riempimento. Ma questo non succede per tutti i piaceri: i piaceri dell’apprendimento, infatti, i piaceri sensibili derivanti dall’olfatto, molte sensazioni uditive e visive, ricordi e speranze, sono privi di dolore328. Di che cosa, dunque, saranno la generazione? In essi, infatti, [20] non è venuto a mancare nulla, per cui si possa dire che sono la restaurazione di una pienezza.

(6) In risposta, poi, a coloro che mettono avanti i piaceri più riprovevoli si dirà che queste cose non sono piacevoli: infatti, se esse sono piacevoli per coloro che hanno cattive disposizioni, non ne segue che si debba pensare che esse siano piacevoli anche per altri che non siano questi viziosi, come non pensiamo che ciò che è salutare o dolce o amaro per gli ammalati lo sia anche per i sani, [25] né che ciò che appare bianco a chi ha gli occhi malati lo sia realmente. Oppure si dirà anche così: tutti i piaceri sono desiderabili, ma non certo quando derivano da atteggiamenti riprovevoli, come è desiderabile anche l’essere ricchi, ma non a costo di un tradimento, e l’esser sani, ma non a costo di mangiare qualsiasi cosa. O ancora: i piaceri sono di specie differenti: quelli che derivano dalle cose belle, infatti, sono diversi da quelli che derivano dalle cose brutte, e non è possibile che si giunga a godere [30] il piacere del giusto se non si è giusti, né quello del musico se non si è musici, e lo stesso in tutti gli altri casi. Anche il fatto che l’amico è diverso dall’adulatore sembra mettere in luce che il piacere non è bene o che ci sono specie differenti di piacere: infatti, come comunemente si ritiene, il primo stringe rapporti con noi mirando al bene, il secondo, invece, mirando al piacere, ed a questo viene rivolto biasimo, mentre quello tutti lo [1174a] lodano, perché sono convinti che è in relazione con noi per scopi differenti. Nessuno, poi, sceglierebbe di vivere per tutta la vita con l’intelligenza di un bambino, anche se gode di ciò di cui soprattutto godono i bambini, né di procurarsi piacere compiendo qualche turpissima azione, anche se non ne dovesse conseguire per lui alcun dolore. E di molte cose noi ci daremmo cura [5] anche se non ci apportassero alcun piacere: per esempio, di vedere, ricordare, sapere, possedere la virtù. Se, poi, a queste cose conseguono necessariamente dei piaceri, non ha importanza; le sceglieremmo, infatti, anche se non ne derivasse piacere. Orbene, che il piacere non è il bene e che non ogni piacere è degno di essere scelto, sembra che sia chiaro; ed anche [10] che ci sono piaceri degni di scelta per se stessi, che differiscono dagli altri per specie o per origine329. Per questo si consideri conclusa l’esposizione delle teorie correnti sul piacere e sul dolore.

 

4. [La natura del piacere].

Che cosa sia il piacere e che natura abbia, ci apparirà con la maggiore chiarezza se ricominceremo da principio. Si ritiene, infatti, che l’atto del vedere [15] sia perfetto in qualunque momento della sua durata, giacché non manca di nulla, che gli si aggiunga in seguito, per renderlo perfetto nella sua forma specifica: e tale sembra essere anche il piacere. Esso, infatti, è un intero, ed in nessun momento si troverà un piacere che se viene prolungato per più tempo resterà perfezionato nella sua forma specifica. Ed è per questo che il piacere non è neppure un movimento. Infatti, ogni movimento si svolge nel tempo [20] ed ha un fine (come, per esempio, la costruzione di una casa), ed è perfetto quando ha compiuto ciò a cui tende. Per conseguenza, è perfetto se è considerato o nella sua intera durata o nel suo momento finale. Al contrario, nelle loro parti ed in quanto si svolgono nel tempo, tutti i movimenti sono imperfetti, e sono diversi quanto alla forma specifica, sia dall’intero movimento sia l’uno dall’altro. In effetti, la sistemazione delle pietre è diversa dalla scanalatura della colonna, e queste due operazioni sono diverse dalla costruzione del tempio: e [25] la costruzione del tempio è opera perfetta (giacché non ha bisogno di nient’altro per realizzare il progetto), mentre la costruzione della base e quella del triglifo sono imperfette, giacché l’una e l’altra sono costruzioni di una sola parte. Esse, dunque, differiscono per specie, e non è possibile cogliere in un momento qualsiasi della costruzione un movimento perfetto quanto alla forma specifica, ma, se mai, nella intera durata. Lo stesso vale anche nel caso del camminare e degli altri movimenti. Se, [30] infatti, la traslazione è un movimento da un luogo ad un altro, anche di essa vi sono differenze di specie: volare, camminare, saltare, e così via. Ma non c’è solo questo, bensì anche nel camminare stesso ci sono differenze di specie: infatti, muoversi da un luogo all’altro nell’intero stadio non è la stessa cosa che muoversi in una sua parte, né è lo stesso muoversi in una parte o in un’altra, né attraversare questa linea o quella: [1174b] infatti, non si tratta solo di attraversare una linea, ma anche di attraversare una linea tracciata in un certo luogo, e questa linea è tracciata in un luogo diverso da quella.

Orbene, in altri scritti330 si è trattato con rigore e precisione del movimento, ma sembra che esso non sia perfetto in un qualsiasi momento, bensì la maggior parte dei movimenti sono imperfetti e differiscono [5] per la specie, se è vero che il punto di partenza ed il punto di arrivo sono ciò che ne determina la specie. Invece, la forma specifica del piacere è perfetta in qualsiasi momento. È chiaro, dunque, che piacere e movimento sono diversi l’uno dall’altro, e che il piacere è un che di intero e di perfetto. Si arriverà però ad ammettere questo anche partendo dal fatto che non è possibile muoversi se non nel tempo, mentre è possibile provar piacere in assenza di tempo: l’atto di provar piacere, infatti, è un qualcosa che sta tutto nell’istante presente. Da ciò risulta poi chiaro anche [10] che non hanno ragione quelli che dicono che il piacere è un movimento o una generazione. Questo, infatti, non si può dire di tutte le cose, ma solo di quelle suddivisibili in parti, che cioè non costituiscono un tutto inscindibile: non c’è, infatti, generazione di un atto di vedere, né di un punto, né di una monade, né di essi vi è movimento e generazione: per conseguenza, neppure del piacere; esso, infatti, è un tutto indivisibile.

Poiché ogni senso è in atto quando è in relazione con l’oggetto sensibile331, [15] e lo è in modo perfetto quando è nella corretta disposizione in relazione al più bello degli oggetti che cadono sotto quel senso (tale si ritiene, infatti, che sia l’atto perfetto: non fa alcuna differenza dire che è in atto il senso oppure il soggetto in cui il senso si trova); di conseguenza, per ciascun senso, l’attività migliore è quella del soggetto che si trova nella disposizione migliore in relazione al più elevato degli oggetti che cadono sotto quel senso. E questa attività sarà [20] la più perfetta e la più piacevole. Infatti, per ogni senso c’è un piacere, come pure anche per il pensiero e per la contemplazione, ma il più piacevole è il più perfetto, ed il più perfetto è quello di chi è ben disposto in relazione all’oggetto di maggior valore che cade sotto quell’attività: il piacere, poi, perfeziona l’attività. Ma il piacere non perfeziona l’attività nello stesso modo in cui lo fanno l’oggetto sensibile [25] ed il senso quando sono pienamente validi, proprio come la salute ed il medico non sono nello stesso modo cause dell’essere sani. Che il piacere si generi in corrispondenza di ciascun senso, è chiaro (infatti noi parliamo di immagini piacevoli e di suoni piacevoli); ma è chiaro anche che il piacere è massimo quando la sensazione è molto intensa e si attua in relazione ad un oggetto molto elevato: [30] quando l’oggetto ed il soggetto della sensazione sono siffatti, ci sarà sempre un piacere se saranno presenti insieme sia ciò che lo produce sia chi lo prova. D’altra parte il piacere perfeziona l’attività non come fa, con la sua immanenza, la disposizione che la genera, bensì come un completamento che vi si aggiunge, come, per esempio, la bellezza che si aggiunge a coloro che sono nel fiore dell’età. Finché, dunque, l’oggetto pensabile o sensibile sono quali devono essere, e benché tali sono anche il soggetto che giudica o [1175a] quello che contempla, nell’attività del pensare e del sentire ci sarà il piacere: infatti, se restano uguali in sé e nel medesimo rapporto reciproco l’elemento passivo e quello attivo, si produce naturalmente il medesimo risultato.

Come avviene che nessuno prova piacere in continuazione? Non è perché ci si stanca? Tutto ciò che è umano, infatti, [5] non può restare in atto in continuazione. Dunque, neppure il piacere si produce in continuazione, dal momento che fa seguito all’attività. Alcune cose, poi, producono godimento quando sono nuove, ma in seguito non è più cosi, per la medesima ragione: all’inizio, infatti, il pensiero resta eccitato e si trova in uno stato di intensa attività in relazione a questi oggetti, come fanno, nel caso della vista, coloro che fissano lo sguardo su qualcosa, ma in seguito l’attività non è più la stessa, bensì [10] si rilassa; perciò anche il piacere si indebolisce. Si potrebbe pensare che tutti gli uomini aspirano al piacere, perché tutti tendono a vivere. La vita è una specie di attività, e ciascuno esercita la sua attività in relazione agli oggetti e con le facoltà che egli ama di più: per esempio, il musico con l’udito in relazione alle melodie, l’amante del sapere con il pensiero in relazione [15] agli oggetti della speculazione, e così anche ciascuno degli altri uomini. Ma il piacere perfeziona le attività, e quindi anche quell’attività che tutti intensamente desiderano: la vita. È naturale, dunque, che tutti tendano anche al piacere: esso, infatti, dà a ciascuno la perfezione del suo vivere, che è ciò che si desidera. Se, poi, è per il piacere che desideriamo la vita, o è per la vita che desideriamo il piacere, lasciamolo per il momento da parte. Infatti, la vita e il piacere [20] si presentano strettamente congiunti e non ammettono separazione: senza attività, infatti, non si produce piacere, e il piacere perfeziona ogni attività.

 

5. [Le specie del piacere e il loro valore].

Questa è la ragione per cui si ritiene che i piaceri differiscano anche quanto alla specie. In effetti, noi pensiamo che le cose diverse per specie vengono perfezionate da cose pure diverse per specie (così infatti è, manifestamente, sia per le realtà naturali sia per i prodotti dell’arte, come, per esempio, animali, alberi, una pittura, una statua, [25] una casa, un utensile): e che, allo stesso modo, anche le attività che differiscono per la specie sono perfezionate da cose differenti per specie. Ma le attività del pensiero differiscono dalle attività dei sensi, e differiscono per specie fra di loro: e, per conseguenza, sono specificamente differenti anche i piaceri che le perfezionano.

Ciò può risultare manifesto anche dal fatto che ciascuno dei piaceri è connaturale [30] all’attività che perfeziona. Infatti, l’attività è incrementata dal piacere che le è proprio, giacché in ogni campo chi agisce con piacere giudica meglio ed è più preciso: così, per esempio, diventano veri geometri coloro che provano piacere nell’esercizio della geometria, e sono loro che meglio ne penetrano ciascun aspetto, e, parimenti, coloro che amano la musica, l’architettura e le altre arti, [35] progrediscono ciascuno nella propria specialità perché vi provano piacere: i piaceri incrementano le attività; ma ciò che incrementa una cosa le è connaturale: [1175b] e le cose che sono connaturali a cose specificamente diverse sono esse stesse diverse per specie.

Ma ciò può risultare ancor più manifesto dal fatto che i piaceri che derivano da attività diverse sono d’ostacolo alle attività. Per esempio, quelli che amano il flauto sono incapaci di concentrarsi nei ragionamenti, se sentono qualcuno suonare il flauto, perché provano maggior piacere [5] nell’arte del flauto che nella loro presente attività; il piacere derivante dal suono del flauto distrugge dunque l’attività relativa al ragionamento. Questo stesso fatto succede anche negli altri casi, quando si esercita la propria attività in relazione a due oggetti contemporaneamente, giacché l’attività più piacevole scaccia l’altra, e ciò tanto più quanto maggiore è la differenza dal punto di vista del piacere, cosicché non è più possibile esercitare neppure [10] l’altra attività. È per questo che, quando proviamo intenso piacere in una qualsiasi cosa, non facciamo più nient’altro; e facciamo altro, quando cose diverse ci piacciono poco, come, per esempio, quelli che nei teatri si mettono a mangiare dolciumi lo fanno soprattutto quando gli attori non sono bravi. Ora, poiché il piacere loro connaturale rende più precise le attività e le fa più durevoli e [15] più efficaci, mentre i piaceri ad esse estranei le guastano, è chiaro che c’è una gran distanza fra le due specie di piaceri. I piaceri estranei hanno sulle attività quasi lo stesso effetto che i dolori ad esse connaturali: infatti, i dolori ad esse connaturali distruggono le attività, come, per esempio, succede se a uno non fa piacere, anzi è penoso scrivere o far di conto: uno non scrive, l’altro non fa di conto, perché questa [20] attività gli è penosa. Dunque, i piaceri e i dolori ad essa connaturali hanno sull’attività l’effetto opposto: e connaturali sono i piaceri e i dolori che si accompagnano all’attività per la sua stessa natura. I piaceri estranei, invece, si chiamano così perché hanno un effetto molto simile a quello del dolore: hanno, infatti, un effetto distruttivo, anche se non nello stesso modo.

Ma poiché le attività differiscono per la loro convenienza [25] o sconvenienza morale, e poiché le une sono da scegliere e le altre da evitare, altre né l’una né l’altra cosa, lo stesso è anche dei piaceri, giacché per ciascuna attività c’è un piacere che le è connaturale. Dunque, il piacere connaturale all’attività virtuosa è conveniente, il piacere connaturale all’attività cattiva è perverso: infatti, anche i desideri delle cose belle sono degni di lode, quelli delle cose brutte sono meritevoli di biasimo. [30] Ma i piaceri che risiedono nelle attività stesse sono ad esse più strettamente connaturali che non i desideri: infatti, i desideri sono distinti dalle attività, sia nel tempo sia per la natura, mentre i piaceri sono strettamente connessi con le attività, e ne sono inseparabili, al punto che si discute se l’attività e il piacere siano la stessa cosa. Non sembra, infatti, che il piacere sia pensiero né sensazione (sarebbe strano!), [35] ma, per il fatto che non ne può essere separato, ad alcuni appare identico ad essi. Dunque, come sono diverse le attività, così sono diversi i piaceri. [1176a]

La vista differisce dal tatto per purezza, e l’udito e l’odorato differiscono dal gusto: allo stesso modo, per conseguenza, differiscono anche i relativi piaceri, e da questi si differenziano i piaceri del pensiero, e nell’ambito di ciascun gruppo ci sono piaceri diversi fra di loro.

Si ritiene comunemente che ci sia un piacere connaturale a ciascun essere vivente, e così pure una funzione332, giacché il piacere connaturale è quello che deriva dall’esercizio di questa funzione. [5] E se si considerano uno per uno, ciò risulterà manifesto: infatti, altro è il piacere proprio del cavallo, altro è quello del cane e quello dell’uomo. Come dice Eraclito: "Gli asini preferirebbero la paglia all’oro"333; infatti, il cibo è per gli asini più piacevole dell’oro. Dunque, i piaceri degli esseri che sono specificamente diversi differiscono specificamente, mentre sarebbe naturale che quelli della stessa specie non fossero differenti. [10] Invece differiscono non di poco, almeno per quanto riguarda gli uomini: infatti, le stesse cose dilettano alcuni e affliggono altri, e per alcuni sono penose e odiose, per altri piacevoli ed amabili. Questo succede anche nel caso delle cose dolci: le stesse cose, infatti, non sembrano ugualmente dolci a chi ha la febbre e a chi è sano, né la stessa cosa sembra essere calda a chi è malato e a chi [15] sta bene. Lo stesso succede anche in altri casi. Ma si ritiene che in tutti questi casi sia reale ciò che appare all’uomo in buone condizioni. Se questo è giusto, come in genere si pensa, e se di ciascuna cosa sono misura la virtù e l’uomo buono in quanto tale, anche i piaceri saranno quelli che a quest’uomo appaiono tali, e piacevoli saranno le cose che a lui procurano piacere. [20] Che poi gli oggetti che sono sgradevoli all’uomo buono appaiano piacevoli a qualcuno, non desta meraviglia, perché sono molte le corruzioni e le degenerazioni cui gli uomini sono soggetti: non ci sono cose piacevoli in sé, ma cose piacevoli per uomini determinati e con determinate disposizioni.

È chiaro che i piaceri concordemente giudicati brutti si deve dire che non sono dei piaceri tranne che per gli uomini corrotti: ma tra quelli comunemente ritenuti convenienti, quale specie di piacere o [25] quale piacere in particolare dobbiamo dire che è proprio dell’uomo? Non risulta forse chiaro dalle attività proprie dell’uomo? È a queste, infatti, che fanno seguito i piaceri. Che dunque le attività dell’uomo perfetto e beato siano una sola o più, sono i piaceri che perfezionano queste attività che potranno essere chiamati in senso proprio piaceri dell’uomo; tutti gli altri, invece, potranno essere chiamati piaceri umani in un senso secondario e molto meno appropriato, come le attività cui corrispondono.

 

6. [La felicità è un’attività fine a se stessa e conforme a virtù].

[30] Dopo aver parlato delle virtù, delle forme dell’amicizia e dei piaceri, resta da delineare uno schizzo della felicità, dal momento che la poniamo come fine delle azioni umane. Se riprendiamo, quindi, quanto abbiamo già detto, la trattazione risulterà più concisa. Abbiamo dunque detto334 che la felicità non è una disposizione, giacché apparterrebbe anche a chi dormisse per tutta la vita, [35] vivendo una vita solo vegetativa, e a chi si trovasse nelle più grandi disgrazie. Per conseguenza, se queste implicazioni [1176b] non soddisfano, e se, invece, bisogna porre la felicità in una qualche attività, come s’è detto precedentemente335, e se alcune delle attività sono necessarie e da scegliersi per altro, mentre altre devono essere scelte per se stesse, è chiaro che bisogna porre la felicità tra le attività che meritano di essere scelte per se stesse e [5] non per altro: infatti, la felicità non ha bisogno di nient’altro, cioè basta a se stessa336. Meritano, poi, di essere scelte per se stesse quelle attività che non richiedono nulla oltre il proprio esercizio. Tali si ritiene comunemente che siano le azioni conformi a virtù: compiere azioni belle e virtuose, infatti, è una delle cose che meritano di essere scelte per se stesse. Lo sono anche i divertimenti piacevoli, giacché gli uomini non [10] li scelgono in vista di altre cose: da essi, infatti, ricevono danno più che vantaggio, perché sono da essi indotti a trascurare il loro corpo ed il loro patrimonio. E la maggior parte degli uomini che sono stimati felici si rifugiano in tali passatempi, ragion per cui alle corti dei tiranni sono apprezzati coloro che in tali passatempi sono spiritosi: essi, infatti, [15] si rendono piacevoli proprio in ciò cui sono rivolte le tendenze dei tiranni, che hanno bisogno di tali uomini. Si ritiene, pertanto, che siano queste le cose che rendono felici, per il fatto che è in esse che passano il tempo libero i potenti, mentre è certo che gli uomini di questo tipo non sono affatto una prova: infatti, non è nell’esercizio del potere assoluto che si realizzano la virtù e l’intelletto, dalle quali procedono le attività che hanno valore morale. Se poi i tiranni, essendo incapaci di gustare [20] un piacere puro e degno di un uomo libero, si rifugiano nei piaceri del corpo, non si deve per questo pensare che questi piaceri siano più degni di essere scelti: infatti, anche i bambini pensano che siano ottime le cose apprezzate da quelli. È ragionevole, quindi, che, come diverse sono per i bambini e per gli uomini le cose che appaiono apprezzabili, così queste siano diverse anche per gli uomini cattivi e per quelli per bene. Come dunque [25] abbiamo spesso detto337, sono apprezzabili e piacevoli le cose che sono tali per l’uomo di valore: per ciascuno l’attività più degna di essere scelta è quella conforme alla disposizione che gli è propria, e, per conseguenza, per l’uomo di valore è quella conforme alla virtù. La felicità, dunque, non sta nel divertimento: e, in effetti, sarebbe strano che il fine dell’uomo fosse un divertimento, e che ci si affaticasse e si soffrisse per tutta la vita [30] al solo scopo di divertirsi. Tutto noi scegliamo, per così dire, in vista di altro, tranne che la felicità: questa, infatti, è fine in sé. Darsi da fare ed affaticarsi per il divertimento è manifestamente stupido e troppo infantile. Divertirsi, invece, per potersi applicare seriamente, come dice Anacarsi338, sembra essere un atteggiamento corretto: in effetti, il divertimento è simile al riposo, giacché gli uomini, [35] non potendo affaticarsi in continuazione, hanno bisogno di riposo. [1177a] Il riposo non è, quindi, un fine, giacché ha luogo in funzione dell’attività. Si ritiene, poi, che la vita felice sia conforme a virtù: e questa vita implica seria applicazione, e non consiste nel divertimento. Noi diciamo che le cose serie sono migliori di quelle fatte per ridere e per divertimento, e che, in ogni caso, l’attività [5] della parte migliore dell’anima e dell’uomo più buono è quella di maggior valore; e l’attività del migliore è perciò stesso superiore e più idonea a procurare la felicità. Infine, dei piaceri del corpo può godere un uomo qualsiasi, persino uno schiavo, non meno del migliore degli uomini: ma della felicità nessuno farebbe partecipe uno schiavo, a meno che non lo facesse partecipare anche di una vita da uomo libero. In effetti, la felicità non consiste in questi passatempi, [10] ma nelle attività conformi a virtù, come s’è detto anche prima339.

 

7. [La felicità consiste soprattutto nell’attività contemplativa].

Ma se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù più alta: e questa sarà la virtù della nostra parte migliore340. Che sia l’intelletto o qualche altra cosa ciò che si ritiene che per natura governi e guidi [15] e abbia nozione delle cose belle e divine, che sia un che di divino o sia la cosa più divina che è in noi, l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria sarà la felicità perfetta. S’è già detto341, poi, che questa attività è attività contemplativa. Ma si ammetterà che questa affermazione è in accordo sia con le nostre precedenti affermazioni sia con la verità. [20] Questa attività, infatti, è342 la più alta (giacché l’intelletto è la più alta di tutte le realtà che sono in noi, e gli oggetti dell’intelletto sono i più elevati); inoltre, è la più continua343 delle nostre attività: infatti, possiamo contemplare in maniera più continua di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Noi pensiamo che il piacere sia strettamente congiunto con la felicità344, ma la più piacevole delle attività conformi a virtù è, siamo tutti d’accordo, quella conforme alla sapienza; [25] in ogni caso, si ammette che la filosofia ha in sé piaceri meravigliosi per la loro purezza e stabilità, ed è naturale che la vita di coloro che sanno trascorra in modo più piacevole che non la vita di coloro che ricercano. Quello che si chiama "autosufficienza" si realizzerà al massimo nell’attività contemplativa345. Delle cose indispensabili alla vita hanno bisogno sia il sapiente, sia il giusto, sia tutti gli altri uomini; [30] ma una volta che sia sufficientemente provvisto di tali beni, il giusto ha ancora bisogno di persone verso cui e con cui esercitare la giustizia, e lo stesso vale per l’uomo temperante, per il coraggioso e per ciascuno degli altri uomini virtuosi, mentre il sapiente anche quando è solo con se stesso può contemplare, e tanto più quanto più è sapiente; forse vi riuscirà meglio se avrà dei collaboratori, ma tuttavia egli è assolutamente autosufficiente. [1177b] E questa sola attività si riconoscerà che è amata per se stessa346, giacché da essa non deriva nulla oltre il contemplare, mentre dalle attività pratiche traiamo un vantaggio, più o meno grande, al di là dell’azione stessa. Si ritiene che la felicità consista nel tempo libero: [5] infatti, noi ci impegniamo per essere poi liberi, e facciamo la guerra per poter vivere in pace. Dunque, l’attività delle virtù pratiche si esercita nell’ambito della politica ed in quello della guerra, ma le azioni relative a questi ambiti sono ritenute affatto impegnative, ed in modo totale le attività militari (giacché nessuno sceglie di fare la guerra per la guerra, [10] e nessuno prepara la guerra per la guerra: sarebbe giudicato un vero e proprio maniaco assassino, se degli amici facesse dei nemici per provocare battaglie e uccisioni!). Anche l’attività del politico è affatto impegnativa, e, oltre alla attività civica in quanto tale, mira a ricavare poteri ed onori o almeno a procurare la felicità per sé e per i suoi concittadini, felicità [15] che è differente dalla attività politica, e che, chiaramente, anche ricerchiamo in quanto ne è differente. Se, dunque, tra le azioni conformi alle virtù, quelle relative alla politica ed alla guerra eccellono per bellezza e grandezza, e se queste azioni sono affatto impegnative, mirano a qualche fine e non sono degne di essere scelte per se stesse; se, d’altra parte, si riconosce che l’attività dell’intelletto si distingue per dignità [20] in quanto è un’attività teoretica, se non mira ad alcun altro fine al di là di se stessa, se ha il piacere che le è proprio (e questo concorre ad intensificare347 l’attività), se, infine, il fatto di essere autosufficiente, di essere come un ozio, di non produrre stanchezza, per quanto è possibile ad un uomo e quant’altro viene attribuito all’uomo beato, si manifestano in connessione con questa attività: allora, per conseguenza, questa sarà la perfetta felicità dell’uomo, [25] quando coprirà l’intera durata di una vita348: giacché non c’è nulla di incompleto tra gli elementi della felicità. Ma una vita di questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti, non vivrà cosi in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divino: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività conforme all’altro tipo di virtù. [30] Se, dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina349, anche l’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana. Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi. Infatti, sebbene [1178a] per la sua massa sia piccola, per potenza e per valore è molto superiore a tutte le altre. Si ammetterà, poi, che ogni uomo si identifica con questa parte, se è vero che è la sua parte principale e migliore350. Sarebbe allora assurdo che egli non scegliesse la vita che gli è propria ma quella che è propria di qualcun altro. Ciò che abbiamo detto prima351 [5] verrà a proposito anche ora: ciò, infatti, che per natura è proprio di ciascun essere, è per lui per natura la cosa più buona e più piacevole; e per l’uomo, quindi, questa cosa sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che l’uomo è soprattutto intelletto352. Questa vita, dunque, sarà anche la più felice.

 

8. [Assoluta superiorità della vita contemplativa].

Al secondo posto viene la vita conforme all’altro tipo di virtù: infatti, le attività [10] ad esso conformi sono esclusivamente umane. In effetti, atti giusti e coraggiosi, e atti virtuosi in generale, noi li facciamo gli uni nei confronti degli altri nei contratti, nei servizi, nelle azioni di ogni genere come nelle passioni, rispettando ciò che compete a ciascuno: e queste sono tutte, manifestamente, azioni esclusivamente umane. Si ritiene, poi, [15] che la virtù del carattere per alcuni aspetti derivi dal corpo, e per molti aspetti sia in stretta connessione con le passioni. Ma anche la saggezza è collegata alla virtù del carattere, e quest’ultima alla saggezza, se è vero che i principi della saggezza discendono dalle virtù etiche, e che la rettitudine delle virtù etiche discende dalla saggezza. Ma essendo queste virtù legate anche [20] alle passioni, saranno relative al composto; ma le virtù del composto sono virtù esclusivamente umane, e, per conseguenza, lo sono anche la vita ad essa conforme e la felicità che ne deriva. La virtù dell’intelletto, invece, è separata: su di essa basti quanto s’è detto, ché esaminarla con precisione sarebbe un compito più grande di quello che ci siamo proposti.

Si ammetterà, poi, che essa ha anche poco bisogno di essere provvista di beni esteriori o ne ha meno bisogno [25] della virtù etica. Infatti, si ammetta pure che entrambe abbiano bisogno, e in misura uguale, di ciò che è loro necessario, anche se l’uomo politico si preoccupa di più del corpo e di quanto ha natura corporea, giacché ci sarà poca differenza; ma per quanto riguarda le attività la differenza sarà grande. L’uomo liberale, infatti, avrà bisogno di denaro per compiere atti di liberalità, e [30] l’uomo giusto, quindi, ne avrà bisogno per contraccambiare (le intenzioni, infatti, non si vedono, ma anche coloro che giusti non sono fanno mostra di voler agire con giustizia); l’uomo coraggioso, d’altro canto, ha bisogno di forza, se vuole mandare ad effetto una qualunque azione conforme alla sua specifica virtù, e l’uomo temperante ha bisogno di avere disponibilità di beni. Se no, come potrà rivelarsi appunto virtuoso questo o quell’altro virtuoso? Si discute se il costitutivo più importante [35] della virtù sia la scelta o le azioni, pensando che essa risiede in entrambe le cose. [1178b] È chiaro, quindi, che la sua perfezione implicherà entrambe le cose; per le azioni occorrono molte cose, e tante di più quanto più le azioni sono grandi e belle. L’uomo contemplativo, al contrario, non ha bisogno di nulla di tutto ciò, almeno per la sua specifica attività, ma anzi queste cose sono, per così dire, degli ostacoli, [5] almeno per la contemplazione. Ma, in quanto è uomo e vive insieme con molti altri uomini, egli sceglie di agire in conformità con la virtù: dunque, avrà bisogno di tali mezzi per vivere da uomo.

Che la felicità perfetta, poi, sia un’attività contemplativa, risulta manifesto anche dalle considerazioni seguenti. Noi ammettiamo che gli dèi siano beati e felici al massimo grado: [10] ma che tipo di azioni bisogna attribuire loro? Le azioni giuste? Ma non sarà manifestamente ridicolo pensare che facciano contratti, restituiscano depositi, e così via? Allora le azioni coraggiose, immaginando che affrontino pericoli e corrano rischi perché è bello? O forse le azioni liberali? Ma a chi doneranno? Sarà ben assurdo [15] che possiedano moneta o qualcosa di simile. E le azioni temperanti che cosa saranno per loro? Non sarà grossolano lodarli perché non possiedono cattivi desideri? Se passiamo in rivista tutto questo, ci risulterà manifesto che l’intero ambito delle azioni è piccolo ed indegno di dèi. Tuttavia, tutti ammettono almeno che essi vivono e quindi sono attivi, ché non si può certo pensare che dormano come [20] Endimione353. Ma se si toglie, all’essere che vive, l’agire, e ancor più il produrre, che cosa gli rimane se non la contemplazione? Cosicché l’attività di Dio, che eccelle per beatitudine, sarà contemplativa: e, per conseguenza, l’attività umana che le è più affine sarà quella che produce la più grande felicità.

Una prova, poi, è anche il fatto che tutti gli altri animali non partecipano della felicità, [25] perché sono completamente privi di tale tipo di attività. Per gli dèi, infatti, tutta la vita è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui loro compete una qualche somiglianza con quel tipo di attività: invece, nessuno degli altri animali è felice, perché non partecipa in alcun modo alla contemplazione. Per conseguenza, quanto si estende la contemplazione, tanto si estende anche la felicità, e a coloro cui [30] appartiene in misura maggiore il contemplare appartiene in misura maggiore anche l’essere felici, non per accidente, ma proprio in virtù della contemplazione, perché essa ha valore per se stessa. Per conseguenza, la felicità sarà una forma di contemplazione.

Ma il contemplativo avrà bisogno anche della prosperità esteriore, dal momento che è un uomo: la natura umana, infatti, non è di per sé sufficiente per esercitare la contemplazione, ma occorre anche che il corpo [35] sia in buona salute e che riceva cibo ed ogni altra cura. [1179a] Certo non dobbiamo pensare che, se non è possibile essere beati senza i beni esteriori, si avrà bisogno per giungere alla felicità di molte e grandi cose: non è nell’eccesso, infatti, che consistono l’autosufficienza e l’azione, ma è possibile compiere belle azioni anche senza comandare in terra e in mare, [5] giacché anche con mezzi misurati si può agire secondo virtù (e si può vederlo molto chiaramente: si ammette, infatti, che i semplici privati compiano azioni virtuose non meno dei potenti, anzi anche di più). È sufficiente avere quanto basta alla virtù, poiché sarà felice la vita di chi agisce conformemente alla virtù. Anche Solone354 [10] definì certamente bene gli uomini felici, dicendo che sono stati in giusta misura forniti di beni esteriori, che hanno continuato a compiere le azioni più belle (le più belle secondo il suo modo di pensare) e a vivere saggiamente: infatti, anche coloro che sono forniti di beni misurati possono compiere ciò che si deve. Sembra, poi, che anche Anassagora355 concepisse l’uomo felice non ricco né potente, dicendo che [15] non ci si deve meravigliare se un tale uomo appare strano alla massa: questa, infatti, giudica dai beni esterni, perché solo questi percepisce. Le opinioni dei sapienti, dunque, sembrano concordare con le nostre argomentazioni.

Insomma, anche considerazioni di questo tipo hanno una certa credibilità, ma la verità nelle questioni di comportamento si giudica dai fatti e dalla vita vissuta: in questi, [20] infatti, sta l’essenziale356. È quindi necessario esaminare le cose precedentemente dette mettendole a confronto con i fatti e con la vita, e se sono in armonia con i fatti dobbiamo accettarle, se, invece, ne sono discordanti dobbiamo considerarle semplici teorie. L’uomo che è intellettualmente attivo e che coltiva il suo intelletto sembra che si trovi nella migliore delle disposizioni e che sia il più caro agli dèi. Se, infatti, [25] gli dèi si prendono una qualche cura delle cose umane, come comunemente si ritiene, sarà ragionevole pensare anche che essi si compiacciono dell’elemento umano più elevato e ad essi più affine (e questo sarà l’intelletto), e che ricompensano gli uomini che amano e curano l’intelletto più d’ogni cosa, considerando che questi si curano di cose a loro care e agiscono in modo retto e bello. Che tutto questo [30] si ritrovi soprattutto nel sapiente, è chiaro. Questi, dunque, è il più caro agli dèi. Ed è naturale che lo stesso uomo sia anche il più felice: cosicché anche da questa argomentazione risulterà che il sapiente è sommamente felice.

 

9. [Etica e politica].

Se, dunque, di queste cose e della virtù, e poi dell’amicizia e del piacere abbiamo trattato a sufficienza, nelle loro linee generali, [35] dobbiamo pensare che il nostro programma abbia raggiunto il suo fine? O non si deve piuttosto riconoscere, come si dice, che [1179b] nelle questioni di comportamento il fine non è quello di contemplare, cioè di conoscere i singoli valori, ma piuttosto quello di metterli in pratica? Quindi, anche per quanto riguarda la virtù non è sufficiente il sapere, ma dobbiamo sforzarci di possederla e metterla in pratica, o cercare qualche altro modo, se c’è, per diventare uomini buoni.

Se, dunque, questi ragionamenti fossero sufficienti [5] per renderci virtuosi, riceverebbero a buon diritto molte e grandi ricompense, come dice Teognide357, e bisognerebbe farsene una provvista; ora, invece, è manifesto che essi hanno la forza di stimolare ed incoraggiare i giovani di spirito libero, di rendere un carattere, nobile per natura e veramente amante del bello, pronto a lasciarsi possedere dalla virtù, [10] ma che non sono capaci di stimolare la massa alla perfezione morale. La massa, infatti, per natura, non ubbidisce al sentimento del pudore, bensì alla paura, e non si astiene dalle azioni basse a causa della loro turpitudine, ma per timore della punizione; in effetti, poiché vive immersa nella passione, persegue i piaceri che le sono propri e gli oggetti che glieli procureranno, e fugge i dolori opposti, [15] ma di ciò che è bello e veramente piacevole non ha alcun’idea, perché non li ha mai gustati. Uomini simili, quindi, quale ragionamento potrà trasformarli? Non è infatti possibile, o non è facile, far mutare col ragionamento ciò che da molto tempo si è impresso nel carattere: anzi, dobbiamo senza dubbio esser contenti se, possedendo tutto ciò che secondo noi serve per diventar virtuosi, riusciamo a partecipare [20] della virtù.

Alcuni pensano che si diventi buoni per natura, altri per abitudine, altri per insegnamento358. Orbene, ciò che deriva dalla natura è chiaro che non dipende da noi, ma per certe divine cause si trova in coloro che sono veramente fortunati; il ragionamento, poi, e l’insegnamento non hanno, temo, sempre efficacia su tutti, ma occorre preparare prima, [25] con le abitudini, l’anima di chi li ascolta a provar piacere ed odio come è bello che si faccia, così come si deve preparare la terra che dovrà nutrire il seme. Infatti, chi vive secondo passione non ascolterà un ragionamento che lo distolga da essa, ed in ogni caso non comprenderà. Com’è possibile che chi si trova in questa disposizione si lasci persuadere a cambiare? In generale, la passione non sembra che ceda al ragionamento, bensì alla forza. Bisogna, dunque, [30] che ci sia già in precedenza, in qualche modo, il carattere che è proprio della virtù, cioè un carattere che ama il bello e mal sopporta il brutto.

Ma è difficile avere fin dalla giovinezza una retta guida alla virtù, se non si viene allevati sotto buone leggi, giacché il vivere con temperanza e con fortezza non piace alla massa, e soprattutto non piace ai giovani. Perciò bisogna che l’allevamento [35] e le occupazioni dei giovani siano regolati da leggi, giacché non saranno penosi se saranno divenuti abituali. [1180a] Certo non è sufficiente che i giovani abbiano magari un allevamento ed una educazione corretti, ma, poiché anche quando sono diventati uomini bisogna che li mettano in pratica e che vi si siano abituati, anche per questo campo abbiamo bisogno di leggi, e quindi in generale per tutta la vita: la massa, infatti, [5] ubbidisce di più alla necessità che al ragionamento, e più alle punizioni che al bello.

È per questo che alcuni359 pensano che i legislatori debbano, da una parte, esortare e stimolare alla virtù per amore del bello, nella speranza che diano retta coloro che sono stati in precedenza convenientemente guidati con le abitudini, e, dall’altra, stabilire castighi e pene per coloro che non si lasciano persuadere e che hanno indole troppo cattiva, [10] che anzi debbano bandire del tutto gli incorreggibili: essi pensano, infatti, che l’uomo per bene, che vive orientato al bello, ubbidisce al ragionamento, l’uomo malvagio, che desidera solo il piacere, è punito con il dolore come una bestia da soma. Perciò dicono360 anche che le pene devono essere di natura tale da costituire la massima contrapposizione ai piaceri agognati. Se, dunque, come s’è detto, l’uomo [15] avviato a diventare buono deve essere allevato ed abituato bene, e deve poi vivere in occupazioni virtuose e non compiere cattive azioni né involontariamente né volontariamente, questo si verificherà per coloro che vivono secondo una certa intelligenza e un retto ordinamento: orbene, l’autorità paterna non ha né la forza né la capacità coercitiva, [20] né quindi, in genere, ce l’ha l’autorità di un uomo solo, che non sia re o qualcosa del genere: la legge, invece, ha potenza coercitiva, essendo una regola fondata su una certa saggezza e sull’intelletto. E noi odiamo gli uomini che si impongono ai nostri impulsi, anche se lo fanno a buon diritto, mentre la legge non è odiosa se ordina ciò che è moralmente conveniente. Si sa che solo [25] nella città di Sparta ed in poche altre il legislatore si prende cura dell’allevamento e delle occupazioni dei cittadini; nella maggior parte delle città, invece, si trascurano cose simili, e ciascuno vive come vuole, esercitando la sua autorità su figli e moglie alla maniera dei Ciclopi361. La cosa migliore, dunque, è che vi sia una corretta educazione pubblica; [30] ma se queste cose vengono trascurate dal punto di vista pubblico, si riconoscerà che è a ciascun individuo che conviene aiutare i propri figli ed i propri amici a raggiungere la virtù, e che ciascuno può farlo362, o, almeno, scegliere di farlo. In base a quello che abbiamo detto, poi, si ammetterà che possa far questo meglio se avrà acquisito capacità legislatrice. È chiaro, infatti, che l’educazione pubblica [35] si attua mediante leggi, ed è buona quella che si ottiene con buone leggi: [1180b] leggi scritte o non scritte, lo si ammette comunemente, non ha importanza, né importa che con esse si educhi un solo individuo o tanti, come non importa nella musica, nella ginnastica e nelle altre occupazioni. Come, infatti, nelle città hanno vigore le leggi e i costumi, così anche [5] nelle famiglie hanno vigore le ragioni del padre e le abitudini, anzi, ancora di più, a causa della parentela e dei benefici che ne derivano: i bambini, infatti, le prevengono addirittura, perché amano i padri e perché sono per natura disposti ad ubbidire. Inoltre, l’educazione diretta all’individuo è superiore a quella di un’intera comunità, come nel caso della medicina: in generale, infatti, a chi ha la febbre giovano il riposo e la dieta, [10] ma forse a qualcuno in particolare no; ed un pugile non impone a tutti i suoi allievi lo stesso stile di combattimento. Si ammetterà, quindi, che il singolo caso è trattato con maggior accuratezza se l’educazione è privata: infatti, ciascuno vi trova in misura maggiore ciò che gli giova.

Ma potrà curare nel modo migliore il singolo caso il medico, il maestro di ginnastica, e chiunque altro conosca l’universale, [15] cioè ciò che giova a tutti o ad un certo tipo di persone (giacché si dice che le scienze sono dell’universale, e lo sono, in effetti). Tuttavia, certo, niente impedisce che si prenda adeguatamente cura di un individuo determinato anche chi non possiede conoscenza scientifica, purché abbia osservato accuratamente, mediante l’esperienza, che cosa succede caso per caso, così come si pensa che certi uomini siano i migliori medici di se stessi, pur non essendo in grado di portare alcun aiuto ad altri. [20] Nondimeno, certo, si riconoscerà che, almeno chi vuole diventare competente dal punto di vista tecnico o teoretico, deve percorrere la strada dell’universale, cioè deve conoscere l’universale quanto è possibile: abbiamo detto, infatti, che è questo l’oggetto delle scienze. E così anche chi vuole con la propria attività educativa rendere migliori gli uomini, sia molti sia pochi, deve sforzarsi [25] di diventare competente come legislatore, se è vero che è mediante leggi che possiamo diventare buoni. Infatti, produrre buone disposizioni in chiunque gli si trovi davanti non è cosa del primo che capita, ma se mai lo è di qualcuno, questi è colui che possiede la scienza, come nel caso della medicina e di tutte le altre arti che implichino applicazione e saggezza.

Non si dovrà, dunque, dopo questo, esaminare su quale base ed in che modo si può acquisire la competenza del legislatore? Non forse, [30] come nel caso delle altre arti, basandosi sugli uomini politici? Infatti, abbiamo già ammesso363 che la legislazione è una parte della politica. O non è forse manifesto che non è lo stesso il caso della politica e quello di tutte le altre scienze e capacità? Nelle altre, infatti, è manifesto che sono gli stessi quelli che sanno trasmettere le proprie capacità e che sanno metterle in pratica, come, per esempio, medici e pittori: [35] al contrario, i sofisti proclamano, sì, di insegnare la politica, [1181a] ma nessuno di loro la mette in pratica. La mettono in pratica, invece, i politici, i quali, si ammetterà, lo fanno con una certa capacità derivata dall’esperienza, più che con pensiero riflesso364: si vede bene, infatti, che non scrivono né parlano di tali argomenti (eppure sarebbe certo più bello che far discorsi in tribunale [5] e all’assemblea), e che, d’altra parte, non hanno saputo fare dei propri figli, o di alcun altro loro amico, degli uomini politici. Ma sarebbe naturale che lo facessero se lo potessero: non potrebbero, infatti, lasciare in eredità alle loro città, né potrebbero desiderare per se stessi, e quindi per quelli che sono loro più cari, niente di meglio che una tale capacità. Certo, [10] l’esperienza sembra fornire un non piccolo aiuto; giacché, senza di essa, non si potrebbe diventare uomini politici mediante la consuetudine con la politica: perciò sembra che coloro che aspirano ad acquisire la scienza politica abbiano bisogno di esperienza. Ma quei sofisti che pur lo proclamano sono manifestamente molto lontani, troppo!, dall’insegnare l’arte politica. In generale, infatti, essi non sanno neppure che cosa essa sia o quali siano i suoi oggetti; giacché, allora, [15] non affermerebbero che è identica alla retorica, né che le è inferiore, e non penserebbero che sia facile compiere opera di legislatore col fare una collezione delle leggi che godono di buona fama365. Dicono, infatti, che basta scegliere le migliori, come se la scelta non fosse opera di giudizio e il giudicare rettamente non fosse una cosa molto impegnativa, come nel campo della musica. Sono gli uomini esperti, infatti, che in ciascun campo [20] giudicano rettamente le opere, che sanno cioè giudicare con quali mezzi od in che modo esse possono essere portate a perfezione, e quali sono gli elementi che si armonizzano fra di loro; i non esperti, invece, si devono contentare di rendersi conto se l’opera è stata fatta bene o male, come nel caso della pittura. Ma le leggi non sono che opere della politica, per così dire: [1181b] come, dunque, si potrà acquisire competenza di legislatore, o saper giudicare quali sono le migliori, sulla base di una semplice raccolta di leggi? È anche manifesto che non si diventa neppure medici leggendo i trattati di medicina. Eppure gli autori si sforzano, per lo meno, di indicare non solo le terapie in generale, ma anche come si possono guarire, cioè come si devono curare, [5] i singoli casi, distinguendo le varie disposizioni fisiche: e queste indicazioni si ritiene che siano, sì, utili agli esperti, ma affatto inutili a chi non possiede la scienza medica. Orbene, è certo che le raccolte di leggi e di costituzioni sono utilissime a coloro che sono in grado di meditarle e di giudicare che cosa è bene e che cosa è male, e quali elementi si armonizzano fra di loro; ma a coloro [10] che affrontano tali argomenti senza la disposizione adatta non può accadere di giudicare bene, se non, magari, per caso; tutt’al più diventerebbero più aperti alla comprensione di queste cose. Poiché, dunque, chi ci ha preceduto ha lasciato inesplorato il campo della legislazione, sarà certo molto meglio che ne affrontiamo noi stessi l’indagine, e, per conseguenza, affrontiamo in blocco l’indagine sulla struttura della Città, [15] per portare a compimento, secondo le nostre capacità, la filosofia dell’uomo. Orbene, per prima cosa, se qualche buona indicazione parziale è stata data dai nostri predecessori, cercheremo di esaminarla, poi cercheremo di vedere, sulla base delle costituzioni che abbiamo raccolte366, quali sono le cose che conservano e quali sono quelle che distruggono le Città e ciascun tipo di costituzione, e quali sono le ragioni per cui [20] alcune Città sono ben strutturate e altre sono strutturate male. Una volta esaminate teoricamente queste cose, potremo forse meglio abbracciare con un solo sguardo anche quale sia la migliore costituzione, in che modo ciascuna costituzione debba venire ordinata, e di quali leggi e di quali costumi debba fare uso. Che la trattazione abbia inizio.


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