L’ETICA DI ARISTOTELE E DI KANT

 

Di Roberta Musolesi

 

 

 

L’ETICA DI ARISTOTELE

 

 

L’opera di riferimento per l’analisi di questo tema l’Etica Nicomachea, sebbene il pensiero etico di Aristotele sia sviluppato anche in altri due trattati, la Grande Etica e l’Etica Eudemia. Per ciò che riguarda la Grande Etica non si è certi che si tratti di un’opera autentica di Aristotele; alcuni studiosi, infatti, la considerano un’opera giovanile in cui il filosofo avrebbe risentito ancora molto dell’influenza platonica, ma l’opinione corrente è che essa sia stata redatta dagli allievi dello Stagirita.  L’Etica Eudemia viene ritenuta in generale più antica rispetto agli altri due trattati ed è molto utile sia come materiale supplementare per arricchire la conoscenza del pensiero aristotelico su vari punti, sia per il fascio di luce che getta sul suo sviluppo. L’Etica Nicomachea,  che deve il suo nome al fatto di essere stata raccolta e pubblicata dal figlio di Aristotele, Nicomaco, è la fonte migliore per comprendere la filosofia morale più matura dello Stagirita ed è una delle opere di Aristotele ancora oggi più lette e studiate. Essa rappresenta uno dei trattati aristotelici più coerenti e sistematici, e forse il più gratificante per chi si accosta per la prima volta al tema. A differenza della Fisica e della Metafisica, che sono raccolte di libri spesso uniti da legami labili, l’Etica Nicomachea costituisce un lavoro organico e compatto, i cui contenuti possono essere riassunti nel seguente schema:

-         I LIBRO: definizione del soggetto e presentazione del problema

-         II – V LIBRO: analisi della virtù morale, prima in generale, poi, dopo una discussione sui concetti di scelta e responsabilità, nei dettagli

-         VI LIBRO: tratta della virtù intellettuale

-         VII LIBRO: tratta della debolezza morale

-         VIII – IX LIBRO: rappresentano una digressione rispetto al tema di fondo del trattato e contengono un’analisi dettagliata dell’amicizia

-         X LIBRO: si tirano le somme del discorso relativo al piacere, iniziato nel VII libro, poi si ritorna al problema della felicità, che rappresenta il soggetto principale dell’etica, già presentato ed affrontato nel I libro.

Da un punto di vista stilistico, l’Etica Nicomachea è, fra le opere aristoteliche giunte fino a noi, quella di livello qualitativo paragonabile a quello dei dialoghi platonici, tuttavia i modi attraverso i quali Aristotele vede la natura e concepisce l’etica in generale sono per molti aspetti profondamente diversi da quelli di Platone; questa differenza va tenuta in considerazione se si vuole comprendere il reale contributo dei due pensatori allo sviluppo del problema della moralità.

Prima quindi di affrontare la trattazione dei contenuti dell’opera, si rende necessaria pertanto una precisazione metodologica, che scaturisce proprio dal raffronto fra l’etica socratica e platonica da un lato e l’etica aristotelica dall’altro e che emerge dalla lettura del I libro dell’Etica Nicomachea:

 

MODELLO SOCRATICO E PLATONICO

MODELLO ARISTOTELICO

1)     Nel modello platonico, la matematica veniva usata come paradigma conoscitivo cui l’uomo politico avrebbe dovuto attenersi nel comportamento etico, non meno che nella sua attività di statista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2)     Secondo Platone, solo il filosofo è veramente felice e ben poche persone riescono a raggiungere tale condizione, peraltro solo al termine di un prolungato esercizio di contemplazione delle Forme e a prescindere dal mondo fuorviante dell’esperienza di tutti i giorni. Platone, sulla scia di Socrate, aveva nutrito un profondo disprezzo per le opinioni popolari su temi come la virtù e la felicità, considerandole come incoerenti e prive di valore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3)     Nei dialoghi platonici c’è una forte componente di ricerca ed indagine sui problemi morali, ma l’obiettivo che sottende la ricerca è quello di prescrivere persuasivamente norme di vita. Platone, pur senza arrivare a scrivere sermoni, fa, attraverso le parole di Socrate, dell’autentico moralismo e il tema principale delle sue opere è come cambiare la vita dell’uomo.

1)     Aristotele cita, nell’Etica Nicomachea, l’esempio del matematico solo in negativo per definire una distinzione fondamentale fra due tipi di indagine: le prove rigorose e la certezza sono parametri che vigono nell’ambito della matematica, ma che sono del tutto fuori luogo nell’etica e nella politica, in cui dobbiamo accontentarci invece di raggiungere l’esattezza permessa dall’argomento. Secondo Aristotele inoltre, e conseguentemente, l’etica non può essere oggetto di convenzione e non può diventare soggetto di leggi assolute e di prove rigorose. A suo parere, l’etica deve affrontare principalmente casi singoli, analogamente a quanto accade nella medicina; anche in etica, così come in campo medico, si possono fare generalizzazioni, ma con la consapevolezza che le eccezioni sono possibilissime.

2)     Secondo Aristotele, lo studioso, nella ricerca etica, deve ambire solo al grado di precisione che gli è da questa consentito e il significato della virtù morale e della felicità vengono ricercati dopo aver sottoposto ad un’attenta analisi le opinioni più diffuse in proposito. Aristotele quindi, pur tenendo conto delle incongruenze del pensiero etico popolare, aveva ritenuto che, nel tentativo di pervenire ad una verità in questo campo, fosse fondamentale l’analisi degli endoxa e ritenne opportuno discostarsi il meno possibile dalle concezioni morali più accreditate e diffuse. Emerge qui molto chiaramente quella che è la sua impostazione metodologica in ambito morale: è necessario iniziare da ciò che è noto, il che può essere inteso sia come ciò che è noto a noi, sia come ciò che è noto in assoluto, precisando che è necessario e comunque preferibile iniziare da ciò che è noto a noi. Il metodo che Aristotele propone quindi in ambito etico, come in qualsiasi altro ambito, è quello induttivo, che muove cioè dai dati confusi dell’esperienza per arrivare ad un giudizio ragionato ed universale.

3)     Aristotele rifiuta quanto gli suggerisce il senso comune solo nel caso in cui sia costretto a farlo e gran parte dell’Etica Nicomachea è dedicata all’analisi di esempi particolari che facciano luce sulla natura dei fatti morali, come la scelta, la responsabilità, l’amicizia e il piacere. Aristotele accetta quindi la natura dell’uomo così come la verifica in atto e parla sia del modo in cui gli uomini agiscono, sia di come dovrebbero agire. Anche in Aristotele comunque non manca un momento persuasivo e prescrittivo: anch’egli infatti richiama con vigore il proprio punto di vista, in particolare nel X libro dell’opera, in cui espone il proprio ideale di vita felice.

 

Per il fatto quindi di non contenere norme di carattere assoluto, l’etica non è quindi per Aristotele una scienza esatta e non aspira né alla verità assoluta, né alla precisione delle dimostrazioni matematiche. L’etica, per lo Stagirita, si occupa di questioni relative ai costumi e alle abitudini propri degli uomini, che sono di per sé mutevoli e relativi e non rendono possibili giudizi rigorosi e definitivi. I giudizi etici pertanto si devono adattare alle situazioni concrete della società e non aspirano alla verità assoluta, in quanto valgono solo “in linea di massima” o, come dice lo stesso Aristotele, “per lo più”, cioè nella maggior parte dei casi, senza escludere che le cose possano andare diversamente.

Passando quindi all’esposizione dei contenuti salienti dell’Etica Nicomachea, è importante in primo luogo mettere in rilievo la domanda da cui muove tutta la riflessione di Aristotele, e cioè “Che cosa è il bene per l’uomo?”. La definizione del bene viene ricercata infatti in quanto è il fine cui tende l’esistenza umana, non solo per quanto riguarda i singoli individui, ma anche per gli individui organizzati in gruppo e in comunità. Il bene che si ricerca in ambito etico, infatti, non è, secondo Aristotele, diverso da quello che si ricerca anche in politica: il bene è pertanto il medesimo per il singolo individuo e per la città.

Da ciò emerge molto chiaramente la stretta correlazione che esiste in Aristotele fra etica, che si interessa del comportamento individuale, e politica, che è la scienza che studia le forme di governo degli uomini all’interno dello Stato e possiamo affermare che:

1)     l’etica è subordinata alla politica, in quanto quest’ultima, per il mondo greco in generale, rappresenta il massimo grado di realizzazione dell’uomo, considerato per natura un essere sociale;

2)     lo studio dell’etica è più importante della politica perché la vita politica non ha altro scopo se non quello di assicurare la felicità delle persone.

Il contesto di riferimento di Aristotele è quindi quello della polis, il modello umano cui si ispira è quello del cittadino ateniese, proprietario terriero e benestante, interessato ad un’efficiente amministrazione della propria casa e al governo della città, e la classe sociale alla quale si rivolge è l’aristocrazia cittadina, che rifugge dalle ambizioni di potere e cerca un modello di vita imperniato sulla concretezza e sulla moderazione.

In che cosa consista il bene, secondo Aristotele, tutti sono d’accordo: tanto la massa quanto gli uomini di cultura lo definiscono “felicità”(à 1095a, 17 ss.). La felicità in Aristotele viene espressa con il termine eudaimonia che letteralmente significa “essere in compagnia di un buon demone” e che la traduzione appunto con il termine di felicità non riesce ad esprimere nella complessità del suo significato. Il problema emerge chiaramente, secondo Aristotele, quando si tratta appunto di decidere che cosa sia la felicità. Rispetto a questa questione, lo Stagirita afferma che le opinioni in proposito sono molte: c’è chi la pone nell’onore, chi nel  guadagno e nelle ricchezze, chi  nel piacere; egli non nega, peraltro, che per essere felici occorra una certa dose di benessere esteriore, goduto con moderazione, perché è impossibile o non è facile compiere azioni belle se si è privi di risorse materiali. Tentando una sintesi delle varie definizioni di vita felice, Aristotele perviene a tre possibili forme, quella della vita dedita al piacere, quella dedita all’onore e quella votata alla contemplazione. La differenza fra questi diversi stili di vita è data dalla natura del bene cui ciascuno di questi tende. Il bene, in generale, è qualcosa di diverso a seconda delle varie attività: per la medicina infatti è una cosa, mentre è diverso per una qualsiasi altra attività. Per risolvere la questione, Aristotele propone di ammettere che il bene consista nel fine, cioè in ciò cui una certa attività è protesa; sempre pensando al caso della medicina, il fine è quello della salute. Aristotele procede inoltre distinguendo fra:

1)     fini ricercati in vista di qualcos’altro, cioè fini che sono a loro volta tramiti verso fini superiori: in questa classe ricadono onore, piacere e virtù in quanto sono ricercati perché in grado di procurarci la felicità;

2)     fini in sé: in questa classe ricade la felicità perché rappresenta un bene autosufficiente.

Per rendere comunque più chiaramente conto dell’idea di felicità, Aristotele afferma che è necessario considerare la funzione dell’uomo, cioè la sua attività (à 1097b, 22 ss.). Se si considera, ad esempio, un artigiano, il bene consisterà nella sua attività specifica, quella cioè non solo di scolpire, ma anche di scolpire bene. Lo stesso ragionamento si dovrà quindi fare per l’uomo nel suo complesso. L’uomo possiede varie funzioni, alcune delle quali sono condivise dagli altri animali oltre all’uomo (vedi la funzione nutritiva e la crescita), quindi la funzione specifica dell’uomo non si potrà individuare in questo ambito. Il fattore che distingue l’uomo dagli altri animali è la ragione e ciò porta ad una preliminare definizione del bene per l’uomo(à 1098a, 16 ss.): il bene è l’attività dell’anima secondo  virtù e, se poi le virtù sono molteplici, secondo la migliore e la più completa e in una vita completa. Aristotele sottolinea come questo suo modo di vedere la felicità coincida in effetti sia con le opinioni di altri sullo stesso tema, sia con quanto emerge dall’analisi del senso comune, che, come afferma lo stesso Aristotele, mostra di aver fatto centro in più punti (à 1098b, 27 ss.). Anche se la felicità è favorita e assecondata dalle positive condizioni esteriori, che tuttavia dipendono molto dal caso, in realtà la felicità in quanto tale viene definita come un’attività dell’anima, per nulla quindi affidata al caso, ma diretta dalla volontà dell’uomo. Quindi, secondo Aristotele, né i bambini, né gli animali possono essere felici, in quanto ancora incapaci di tale attività dell’anima secondo virtù, e pertanto perché si possa dare una virtù completa e quindi una completa felicità è necessaria un’esistenza completa. La felicità è quindi attività, e non pura e semplice condizione mentale, ed è gratificante di per sé: la felicità quindi (à 1099a, 24) è la cosa più nobile e gratificante. Il discorso sulla felicità viene ripreso da Aristotele e portato a compimento nel libro X: la felicità è un’attività in accordo con la virtù, in particolare con quella più alta, cioè quella relativa alla parte più sublime della nostra anima, l’attività contemplativa. La felicità, in particolare, è il termine ultimo di ogni azione e di ogni desiderio umano e, come afferma lo stesso Aristotele (à 1177a, 12 – 1177b, 13), deve consistere in una qualche forma di attività: infatti l’azione è preferibile allo star fermi, l’attività è migliore della passività. Ma di quale attività si tratti Aristotele poi lo spiega chiaramente: poiché si sta ricercando la perfetta felicità, e non semplicemente qualche piacere più o meno soddisfacente, tale attività consisterà in ciò che attiene all’essenza stessa della natura umana e cioè all’attività conoscitiva, che è l’attività della parte più nobile ed elevata dell’uomo. Grazie alla conoscenza, l’uomo si distingue infatti dal resto degli animali. Nella parte finale del brano preso in esame, l’argomentazione sviluppa l’idea che la felicità del sapiente dedito alla contemplazione disinteressata della verità rappresenti effettivamente un’esperienza autosufficiente e totalizzante. Il sapiente, infatti, può dedicarsi all’attività del pensiero in qualsiasi momento e in ogni circostanza e raggiunge nella riflessione la beata solitudine ed autonomia: basta a se stesso e non ha bisogno di null’altro. In questa visione non è difficile peraltro scorgere il riflesso della dottrina aristotelica di Dio, concepito come “pensiero di pensiero”, quindi come pura attività teoretica, e una svalutazione della tecnica e del fare produttivo, tipica del mondo greco classico.

La perfetta felicità quindi per Aristotele consiste nell’attività contemplativa, che è tipica degli uomini migliori, anche se non tutti possono aspirare ad un simile traguardo; la maggior parte degli uomini deve tendere quindi alla realizzazione delle virtù etiche.

La disamina delle virtù etiche viene sviluppata da Aristotele dal II al VI libro. Il punto di partenza della sua analisi è la distinzione fra due tipi principali di virtù:

1)     virtù etiche (da ethos, “comportamento”, “costume”): dipendono dal rapporto fra la parte intellettiva e la parte sensitiva dell’anima, quella cioè caratterizzata da passioni e desideri. Queste virtù consistono nella disposizione a scegliere il giusto mezzo, dominando gli impulsi della parte più passionale dell’anima; questa disposizione, secondo Aristotele, si perfeziona e si consolida con l’esercizio e con la pratica di azioni virtuose. Fra le virtù etiche viene sottolineata l’importanza della giustizia, cui è dedicato interamente il V libro, come ricerca dell’equilibrio e dell’equità in rapporto a noi e in rapporto agli altri A questo proposito potrebbe essere interessante sviluppare con la classe, anche in ragione dell’estrema attualità dell’argomento, un dibattito circa il rapporto fra giustizia ed equità: secondo Aristotele l’equità si rapporta alla giustizia in termini problematici, nel senso che non è identica ad essa, ma non ne differisce neppure. Il rapporto giustizia/equità dà luogo, nel corso della trattazione, ad un’aporia: l’equo è sinonimo di buono ed esprime lodabilità, ma per un altro verso è diverso dal giusto; se si punta su tale diversità si giunge alla conclusione che o il giusto non è buono o che non è buono l’equo. La prima istanza è assurda e la seconda è una contraddizione rispetto alla premessa.

Aristotele risolve l’aporia mostrando che l’equo è una specie di giusto: l’equo è infatti un correttivo del giusto, necessario quando la legge parla in termini universali e non può prevedere tutti i casi particolari nella loro concretezza e non può perfettamente adattarsi ad essi. La correzione che opera l’equo consiste quindi in un adattamento della norma universale alle situazioni individuali: l’uomo equo non è troppo vincolato alla norma nella forma più rigida e accetta, ad esempio, di avere qualcosa di meno laddove, su base giuridica, potrebbe pretendere di avere di più;

2)     virtù dianoetiche (da dianoia, “ragione”): derivano dall’uso della sola ragione e sono collegate alle funzioni dell’anima razionale. La virtù dianoetica principale è la sapienza (sophia), la più elevata tra le attività teoretiche dell’uomo, alla quale è dedicato interamente il X libro. Essa ci permette infatti di conoscere i principi primi delle cose e delle scienze e concorre alla formazione di una disposizione che ci permette di capire le cause della realtà. Accanto alla sapienza, Aristotele parla anche della saggezza (phronesis), che  ha il compito di orientarci nella vita e di guidarci nell’azione sia aiutandoci a trovare il giusto mezzo fra gli opposti estremi che caratterizzano il vizio, calcolo che non è mai definitivo e che deve essere ripetuto ogni volta che si agisce, sia aiutandoci nella scelta dei mezzi più idonei per conseguire il fine considerato buono.  Mentre la sapienza non è alla portata di tutti, ma solo dei filosofi, la saggezza è una virtù che dipende dalla ragion pratica che tutti gli uomini possono coltivare nella propria vita.

Pertanto, mentre le virtù intellettuali sono generalmente acquisite attraverso l’insegnamento, le virtù morali vengono conquistate attraverso l’abitudine (à 1103a 14 ss.): nessuna virtù è innata così come è innato il senso della vista, ma anche se non sono innate, le virtù morali non sono in contrasto con la natura, anzi, al contrario, si formano in noi (à 1103a, 24 ss.) perché siamo portati per natura ad accoglierle e divengono più perfette con l’esercizio e l’educazione.

Il tratto distintivo della virtù morale viene individuato attraverso la famosa dottrina del giusto mezzo, che fa da cornice alla trattazione delle singole virtù e vizi: la virtù è una disposizione che comporta scelta e consiste nel giusto mezzo relativo a noi, definito dalla ragione e tale quale lo delimiterebbe l’uomo saggio (à1106b, 36 ss.). L’uomo virtuoso deve quindi  praticare con assiduità l’equilibrio, scegliendo il giusto mezzo fra due estremi, cioè fra l’eccesso e il difetto. Per introdurre la sua dottrina Aristotele si serve di due analogie, una delle quali è riferita all’opera degli artisti e degli artigiani in generale e l’altra alla scienza medica à  1106b 9. Gli artigiani, secondo Aristotele, mirano alla medietà nel senso che cercano di evitare tutto ciò che è sproporzionato: dei manufatti artistici migliori noi infatti diciamo appunto che sarebbe impossibile togliere o aggiungere alcunché; ciò dimostrerebbe che l’eccesso o il difetto possono distruggere la bellezza di un’opera, mentre il giusto mezzo la conserverebbe. La seconda analogia si basa sulla constatazione che la salute del corpo è compromessa sia dall’eccesso, sia dalla scarsità di cibo, oppure dal troppo o poco esercizio fisico, mentre la giusta dose di cibo o di esercizio fisico creerebbe e preserverebbe la salute e la forza à 1104a 11 e 1106a 36. Le virtù e i vizi sono quindi correlati alle affezioni e alle azioni per le quali esistono un eccesso, un difetto o un grado intermedio: così possiamo provare collera, pietà, paura, cioè in generale sofferenze e piaceri, in grado diverso, ma accusarli in modo troppo forte o troppo debole risulta inopportuno à 1106b 16 - 23.

La virtù sta quindi nel mezzo, ma cosa significa in concreto ciò? Aristotele risponde a queste domande con molta prudenza; sa bene infatti che non possono darsi, in campo morale, regole assolute e che quindi non può esserci una misurazione rigorosa del giusto mezzo, che sia valida per tutti. Non sarà pertanto un calcolo puramente quantitativo a dirci cosa è giusto, ma la determinazione di ciò che è giusto richiede flessibilità, in quanto varia in relazione al soggetto e alle circostanze dell’azione. In che modo Aristotele arriva a formulare questa dottrina e quale intenzione sta ad essa sottesa? I precedenti della dottrina del giusto mezzo possono essere rintracciati, nell’etica popolare greca, già in antiche sentenze, come quella di origine delfica che per noi suonerebbe “il troppo stroppia”, ma riferimenti importanti possono essere trovati anche nella diffusa dottrina medica di fisiologia per cui la salute consisterebbe in un giusto mezzo fra opposti estremi, ad esempio fra il freddo e il caldo. Potrebbe essere interessante a livello didattico rilevare le principali critiche ed obiezioni di cui è stata fatta oggetto la dottrina del giusto mezzo. Essa è spesso stata criticata come se dovesse essere intesa come regola assoluta e quindi come se Aristotele avesse voluto elaborare una casistica generale in cui su una scala di difetto, medietà ed eccesso stessero disposti tutti i vizi e tutte le virtù, quindi una casistica da consultarsi dogmaticamente in tutti i casi. Questa prospettiva è in effetti errata in quanto l’intento di Aristotele non è certo quello di proporre una regola applicabile inderogabilmente in tutte le circostanze, ma di mostrare al contrario che la medietà di cui parla varia da persona a persona: ciò che è a suo avviso estremamente importante è che ognuno diventi cosciente delle proprie inclinazioni naturali e cerchi di compensarne le carenze. La seconda obiezione, più incisiva rispetto alla prima, rivolta alla dottrina del giusto mezzo è che applicherebbe una scala quantitativa a differenze fra virtù, che in effetti sono di tipo qualitativo. E’ vero che l’utilizzo di criteri di carattere quantitativo si adatta molto bene a difetti o pregi come l’avarizia e la liberalità, che si prestano più immediatamente di altre virtù e vizi all’analisi schematica concepita da Aristotele in termini di eccesso e difetto, ma è anche vero che il nostro lessico abituale relativo ai giudizi morali incorpora parecchi termini le cui connotazioni primarie sono di carattere quantitativo, per cui applichiamo termini quali “troppo” o “troppo poco” ad una gamma molto ampia di sentimenti, attività e disposizioni d’animo che vanno dall’amore, all’orgoglio, all’ambizione.

Aristotele dedica inoltre, nell’Etica Nicomachea, ampio spazio al tema dell’amicizia, al quale ritengo debba essere data particolare rilevanza anche sul piano didattico, trattandosi, insieme all’amore, di uno dei centri di interesse principali per i ragazzi in età adolescenziale e per l’essere umano in generale.

Il termine utilizzato da Aristotele per parlare dell’amicizia è philía e la traduzione con “amicizia” appare estremamente limitativa; nel vocabolo greco infatti sono compresi tutti i sentimenti di affetto e di attaccamento verso gli altri, sentimenti che rappresentano la base comunque sottesa a tutte le molteplici forme di via in comune. All’amicizia vengono dedicati due libri interi, l’VIII e il IX, ed il tema occupa pertanto uno spazio che non è stato assegnato da Aristotele a nessun altro tema, segno che la questione è a suo avviso di grande interesse.

Nel libro VIII à 1155a, introducendo la trattazione dell’argomento, pone l’accento sull’universale bisogno di amicizia, che riguarda tutti gli uomini, anche i  più ricchi e fortunati. Infatti, si chiede lo Stagirita, a che cosa servirebbe l’abbondanza di mezzi, se non si avesse la possibilità di renderne partecipi gli amici? L’amicizia è quindi caratteristica inconfondibile della naturale socievolezza degli uomini ed è oggetto di trattazione nell’ambito dell’etica perché è una virtù o qualcosa che si accompagna alla virtù. Essa inoltre è una disposizione permanente dell’anima, non un atto momentaneo ed impulsivo, e per consolidarsi ha bisogno di tempi lunghi. Aristotele poi, in questa sezione del libro VIII, sostiene che l’amicizia serve anche alla vita della città, ancora di più forse della giustizia: quando infatti le persone si amano con amicizia, la concordia della vita cittadina è assicurata.. L’amicizia è quindi necessaria, ma è anche bella e piacevole.

Ma che cos’è in effetti l’amicizia? Aristotele ne distingue varie forme, adottando come criterio di classificazione i tre possibili motivi per cui si origina à 1156 a, 31 – 1156b, 29:

1)    l’amicizia fondata sull’utile 2) l’amicizia fondata sul piacere: in questi casi gli uomini non si amano per se stessi, ma in vista di un qualche vantaggio reciproco. Gli anziani, ad esempio, sono portati a stabilire amicizie dalle quali potrà derivare qualche vantaggio e i giovani a ricercare amicizie basate sul piacere; questi sono esempi di amicizie effimere, destinate ad esaurirsi non appena cessino l’utilità e la piacevolezza.

3)    l’amicizia in cui si ama l’amico in modo disinteressato: è un’amicizia poco frequente e che si consolida nel tempo, attraverso una consuetudine di vita in comune. Secondo Aristotele non si possono avere molti amici in quanto la vera amicizia presuppone un’uguaglianza di condizione sociale e morale, una grande intesa reciproca e una comunanza di vita e di intenti, cose molto difficili da raggiungere à  1158a, 20. Nel testo si sottolinea la rarità della perfetta amicizia che non può stabilirsi fra persone acide e diffidenti, come spesso sono gli anziani, ma anche fra i giovani, che stabiliscono molto rapidamente delle relazioni, senza tuttavia mai raggiungere la vera intimità. La perfetta amicizia invece è una disposizione costante dell’anima buona e consente peraltro di raggiungere tutte le tre le principali motivazioni per cui si stringe un’amicizia: è utile e piacevole, ma è anche buona e virtuosa.

L’amicizia inoltre non deve essere confusa con la benevolenza, che può essere rivolta  anche a persone sconosciute, e con l’amore, in cui entrano in gioco la seduzione, la bellezza e l’attrazione.

Aristotele nel corso dell’VIII libro, dedica inoltre un certo spazio alla trattazione del tema dell’amicizia in rapporto alle varie forme di governo, di cui viene qui proposta un’esposizione quasi del tutto simile a quella sviluppata nella Politicaà 1160a 31 e ss. Si ritiene questo aspetto della riflessione etica di Aristotele degno di rilevanza da un punto di vista didattico sia come premessa al pensiero politico dello Stagirita, sia come spunto per riflettere sul problema del rapporto fra amicizia e giustizia e sulle caratteristiche dell’amicizia propria del mondo giovanile.  

Il motivo per cui Aristotele sente la necessità di collocare proprio in questo punto della sua opera questo tipo di trattazione e di classificazione è strettamente legato a questo principio generale: tutte le associazioni naturali particolari, quindi anche l’amicizia, si riconducono alla società politica, di cui esse non sono altro che parti e sarà pertanto necessario studiare le diverse forme di organizzazione politica per comprendere pienamente le diverse specie di amicizia.

Aristotele inizia quindi la sua trattazione affermando l’esistenza di tre specie di costituzioni e di un egual numero di degenerazioni.

Le costituzioni sono la monarchia, l’aristocrazia e quella fondata sul censo, definita timocrazia (questo termine in Platone indicava il governo fondato sull’onore, mentre in Aristotele indica il regime in cui il potere appartiene alla classe media, cioè a coloro che possiedono un certo reddito), ma dai più denominata politia; la migliore è ritenuta la monarchia, nel senso che è la migliore delle costituzioni in linea di diritto, in quanto corrisponde al governo di quell’unico che sia veramente il più eccellente di tutti, ma è di difficile realizzazione, e la peggiore è la timocrazia, anche se, vista l’impossibilità di realizzare concretamente una buona monarchia, risulta nei fatti la miglior forma di governo possibile, in quanto assicura il potere alla classe media e realizza quella sorta di via di mezzo tanto gradita da Aristotele.

La degenerazione della monarchia è la tirannide: entrambe sono infatti monarchie, ma si differenziano moltissimo in quanto il tiranno bada a ciò che è utile per sé, il re invece mira all’utile per i suoi sudditi.

La degenerazione dell’aristocrazia è l’oligarchia, definita nella Politica come il regime in cui il potere viene esercitato da un ristretto numero di uomini ricchi e nobili; secondo Aristotele, nell’oligarchia le cariche vengono distribuite con un criterio che non si fonda sul merito, ma solo ed esclusivamente sulla ricchezza. A comandare in questo caso quindi saranno non le persone più virtuose, ma le persone più cattive.

La timocrazia, infine, degenera nella democrazia, definita, sempre nella Politica, come quella forma di governo in cui uomini liberi ed indigenti, che costituiscono la maggioranza, prendono il potere. Aristotele afferma che timocrazia e democrazia sono contigue poiché anche la democrazia vuole essere regime di una maggioranza e vuole sancire un’uguaglianza  fra coloro che si collocano in una certa fascia di censo; la democrazia, quindi, per il fatto di discostarsi poco dalla timocrazia, non è vista come cosa completamente cattiva, concetto che conferma quanto detto in proposito nella Politica, in cui viene fissata una sorta di classifica delle forme di governo corrotte e viene collocata al primo posto, come peggiore, la tirannide, cui segue l’oligarchia ed infine la democrazia.

Le stesse analogie e differenze si possono trovare, secondo Aristotele, nell’organizzazione delle comunità domestiche e ciò perché lo stato deriva originariamente dalla famiglia ed è quindi possibile trovare nei rapporti e nelle strutture della famiglia stessa delle determinazioni che stanno alla base dei diversi tipi di rapporto politico.

La comunità del padre con i figli appare come una monarchia, poiché il padre ha cura dei figli così come il re ha cura dei suoi sudditi; la monarchia infatti vuole essere un potere paterno.

La comunità del marito con la moglie è aristocratica, in quanto il marito comanda perché maggiore è il suo valore; nella Politica infatti Aristotele afferma che il maschio è per natura migliore e la femmina peggiore, l’uno è atto al comando e l’altra all’obbedienza. Vi sono comunque delle cose che spettano di diritto all’uomo e altre in cui la donna deve comandare; se infatti il marito finisce per comandare in tutte le cose, trasforma la comunità familiare in oligarchia, in quanto comanderà non per il suo maggior valore, ma per il maggior potere di cui si è investito.

La comunità dei fratelli assomiglia alla timocrazia: i fratelli infatti sono uguali e differiscono solo per il fatto di essere di età diversa.

La democrazia si incontra infine, secondo Aristotele, in quelle case che sono senza padrone, nelle quali cioè chi comanda è debole e ciascuno fa ciò che più gli piace.

Dopo questo esame delle varie forme di governo e di come esse trovino un riferimento nell’ambito della comunità familiare, Aristotele passa ad analizzare come amicizia e giustizia si realizzino nelle forme di governo presentate, sia quelle rette che quelle degeneri.

Ad ogni costituzione, secondo Aristotele, corrispondono un’amicizia ed una forma di giustizia. Il re mostra nei confronti dei sudditi una superiorità che (1161a, 10-15) consiste nel rendere loro dei benefici, nel prendersene cura e nel guidarli verso il raggiungimento di una condotta virtuosa. I sudditi, al contrario, non hanno questa capacità di guida e reggenza verso il sovrano e da questo dipende l’amicizia particolare che lega il sovrano ai suoi sudditi e anche quella che il padre mostra  nei confronti dei figli, anche se la grandezza dei benefici che un padre opera nei confronti dei figli stessi è di gran lunga superiore a quella dei benefici  che un sovrano può operare: il padre, infatti, è causa dell’esistenza dei figli, che è il bene più grande, della loro crescita e della loro educazione. Per natura il padre, secondo Aristotele, ha dominio sui figli e mostra, rispetto a loro, una netta superiorità; è questo il motivo per cui i figli onorano i genitori, onore che compensa, secondo il criterio della proporzione, i benefici che essi ricevono. La giustizia che si manifesta fra genitori e figli non è quindi identica, ma conforme al merito, rifletterà cioè il maggior merito dei genitori rispetto a quello dei figli.

L’amicizia del marito verso la moglie è la stessa che si manifesta nell’aristocrazia: è infatti proporzionale al merito e così accade anche per la giustizia. Come quindi nella vita politica chi è migliore ha il diritto di ricevere da chi è inferiore un bene maggiore, poiché, esercitando un potere ed un’autorità, rende dei servizi maggiori di quelli che riceve, così nella vita coniugale il marito, che è superiore alla moglie, le rende un beneficio maggiore di quello che riceve e per questo ha diritto a ricevere da lei un bene  maggiore di quanto egli stesso non manifesti. Il termine “bene” qui è da intendersi in senso ampio, nel senso sia di onore, che si addice al bene che si tributa a coloro che esercitano il potere, sia di affetto, che è il bene che intercorre nei rapporti tra i coniugi. L’amicizia fra i fratelli  è per Aristotele dello stesso tipo di quella che sussiste nella timocrazia: i cittadini, come avviene fra fratelli, vogliono essere uguali e virtuosi, quindi comandano a turno e in ugual misura. Il punto fondamentale sul quale si regge la relazione fra l’amicizia propria dei fratelli è quindi l’uguaglianza in virtù; se non fosse uguaglianza in virtù, non avrebbe luogo la timocrazia, ma la democrazia.

Nelle forme devianti di costituzione invece, dove il giusto è ridotto a poca cosa, anche l’amicizia è ridotta al minimo, soprattutto nelle forme di governo peggiori: nella tirannide infatti l’amicizia è nulla o scarsa; se non c’è nulla in comune fra chi governa e chi è governato, non sussistono né amicizia né giustizia.

Aristotele poi, nel IX libro, (capp. 7-8, 1168a – 1168b) affronta il tema dell’amicizia intesa come amore per se stessi, chiedendosi se tale sentimento possa essere un bene o un male e se possa o debba essere considerato egoismo. A questo proposito, sottolinea l’esistenza di un equivoco circa l’uso del termine egoismo: da un lato, infatti, si ammette che chi ama se stesso è condannabile, d’altro canto, però, si dice che l’uomo virtuoso è colui che sta bene con se stesso, cioè rispetta ed ama se stesso. L’equivoco nasce dal fatto che si attribuisce al termine egoismo il desiderio di onori e di ricchezze, atteggiamento comunque frequente  e riprovevole, ma colui che vuole per sé la virtù e il bene morale ama la parte più nobile di se stesso ed è egoista nel senso positivo della parola, nel senso che vuole bene alla parte razionale e virtuosa di sé.

Quindi, secondo Aristotele, si deve essere egoisti nel senso buono e amare se stessi: l’uomo buono donerà agli amici onori e ricchezze, riservando a se stesso la virtù. La trattazione del tema dell’amicizia si conclude con l’affermazione che anche l’uomo felice ha bisogno di amici à 1169b. Egli possiede tutti i beni spirituali e non ha bisogno di altro; a lui non si addice l’amicizia utilitaristica e poco quella che tende al piacere ed è soddisfatto di ogni cosa. Essendo tuttavia l’uomo un essere socievole, ama donare agli altri i suoi beni e vivere in intimità con loro, godendo nel vedere realizzate le virtù anche negli amici. Dunque anche l’uomo felice, che si dedica alla conoscenza e alla filosofia, ha bisogno di amici: la condivisione dell’attività filosofica e la comune ricerca della verità fanno sì che la sua felicità si perfezioni e possa raggiungere il grado più elevato.

L’indicazione che Aristotele fornisce nell’Etica Nicomachea, come via per raggiungere l’obiettivo di una vita felice, è la ricerca di uno stile di vita virtuoso, che consiste nel seguire il criterio del giusto mezzo, rifuggendo da ogni comportamento che si possa configurare in qualche modo estremistico e rischioso. La morale aristotelica è quindi una morale del buon senso, attenta alle virtù civiche e all’orientamento sociale e politico del cittadino benestante della polis a cui essa si rivolgeva.

La successiva ricerca della felicità, scomparsa la città-stato, con conseguente inglobamento del cittadino all’interno di un vasto impero, si caratterizzerà per un radicale e totale ripiegamento dell’individuo su se stesso, animato da nuovi e diversi interrogativi, riassumibili nel seguente: come è possibile vivere sottraendosi all’infelicità e al dolore che opprimono l’uomo? Questa domanda, che denuncia il diffuso senso di precarietà psicologica in cui viene a trovarsi l’uomo ellenistico, genera a sua volta una serie di domande fondamentali:

-         è razionale aver paura della morte?

-         dobbiamo temere gli dei e la loro punizione?

-         che cos’è il dolore?

-         come si può far fronte alla malattia?

interrogativi dunque che animano le principali correnti di pensiero di questo periodo, scetticismo, epicureismo e stoicismo, impegnate a cercare di trovare soluzioni etiche al problema del vivere quotidiano, perseguendo l’obiettivo della saggezza e dell’imperturbabilità di fronte agli eventi.

 

 

Bibliografia

 

-         Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Marcello Zanatta, BUR, Milano, 1986

-         Geoffrey E.R. Lloyd, Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1985

-         Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 2002

-         Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori, Milano, 2000

-         Domenico Massaro, La comunicazione filosofica, vol. 1, Paravia, Milano, 2002

 

 

 

 

 

 

ETICA IN KANT

 

Le domande fondamentali che guidano la riflessione etica di Aristotele sono fondamentalmente riconducibili a: com’è possibile essere felici? In che cosa consiste la felicità?

Cercherò ora di valutare, evidenziano analogie e soprattutto differenze rispetto al pensiero etico di Aristotele stesso, che tipo di risposta fornisce Kant a questi interrogativi.

 

Da un punto di vista didattico, la domanda relativa alla felicità rappresenta il coronamento di tutto il percorso etico di Kant; lo studente pertanto dovrà conoscere tutti i concetti fondamentali della morale kantiana, quindi in particolare:

1.     conoscenza dei concetti di massima, legge ed imperativo

2.     corrispondenza, nel pensiero kantiano, fra legge pratica e libertà

3.     la visione in Kant della legge morale come fatto della ragione

4.     la moralità come espressione dell’autonomia della ragion pura pratica

 

Il tema della felicità è quello in cui emerge più nettamente la differenza fra la posizione etica di Kant e tutte le etiche precedenti di tipo eudaimonistico, come quella aristotelica e, anche se con un taglio diverso, quella agostiniana. Il concetto di felicità viene infatti presentato da Kant senza far alcun riferimento specifico al piacere, mentre tradizionalmente questa nozione, come emerge anche in Aristotele, era spesso stata intesa come “sistema di piaceri”, secondo un’interpretazione ripresa esplicitamente dall’empirismo inglese del XVIII secolo e che con Hume era stata declinata in modo tale da assumere un più evidente e fondamentale significato sociale. In Kant pertanto non c’è traccia di questa impostazione eudemonistica sia perché egli non ritiene possibile porre la felicità a fondamento della vita morale, ma anche perché, secondo la sua definizione, la felicità non può essere fatta coincidere con la tirannia della sensibilità e del piacere.

Della felicità in Kant si danno molte definizioni.

Nella Critica della Ragion Pura, nell’ambito della trattazione della Dottrina trascendentale del metodo, Kant afferma:

 

Felicità è l’appagamento di tutte le nostre tendenze (tanto extensive, nella molteplicità loro, quanto intensive, rispetto al grado, e anche protensive, rispetto alla durata). Io dico legge prammatica (regola di prudenza) la legge pratica derivante dal motivo della felicità; morale (legge dei costumi) quella invece, in quanto ce n’è una che non ha altro motivo, che il merito di essere felice. La prima consiglia cosa si deve fare, se noi vogliamo divenir partecipi della felicità, la secondo comanda come dobbiamo comportarci solo per farci degni della felicità. La prima si fonda su principi empirici; perché io altrimenti che per esperienza non posso né sapere quali tendenze ci sono, che voglion esser soddisfatte, né quali sono le cause naturali che possono produrre la loro soddisfazione. La seconda astrae da tendenze e mezzi naturali di soddisfarle, e considera soltanto la libertà di un essere ragionevole in generale e le condizioni necessarie, nelle quali soltanto ella si accorda secondo principi con la distribuzione della felicità, e può quindi per lo meno poggiare su semplici idee della ragion pura e esser conosciuta a priori”[1]

 

Kant parla quindi della felicità come appagamento di tutte le nostre inclinazioni, al massimo grado,  pienamente e come condizione stabile e duratura, poiché la felicità non è un attimo fuggente e solo alla fine della vita è possibile fare un bilancio (riferimento ad Aristotele); fa inoltre riferimento a due leggi, la legge pratica fondata sul movente della felicità e la legge morale: mentre la prima legge, poggiante su principi empirici, riconduce sistematicamente la felicità alle condizioni empiriche e alla dimensione sensibile della sua realizzazione, la seconda legge vuole collocarsi invece oltre la schiavitù della sensibilità animale per radicarsi su un piano razionale a priori, in cui l’esercizio consapevole e responsabile della libertà dia le premesse per il raggiungimento della felicità stessa. In questa seconda accezione, quindi, la felicità finisce per sottrarsi costitutivamente alla dimensione empirico-sensibile, per proiettarsi in una dimensione diversa da quella legata alla concretezza, divenendo pertanto un obiettivo empiricamente impossibile e del tutto irrealizzabile.

Nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant tuttavia separa l’ambito della felicità da quello della razionalità: afferma infatti che quanto più una ragione raffinata tende al godimento della vita e della felicità, tanto più l’uomo si allontana dalla vera contentezza. L’uso critico della ragione nell’ambito pratico della ricerca della felicità crea quindi una condizione paradossale per cui chi vuole effettivamente raggiungerla finisce per provare invidia per coloro che tendono a farsi guidare dal puro istinto naturale e restringono al massimo l’influenza della ragione sulla loro condotta. Per Kant quindi la ragione non è in grado di incrementare la felicità dell’individuo, ma semmai è vero l’opposto:

 

Se, dunque, in un essere dotato di ragione e volontà l’effettivo scopo della sua conservazione, il suo benessere – in una parola la sua felicità – la natura avrebbe preso per questo molto male le sue misure, affidando alla ragione il compito di eseguire codesta intenzione. Infatti tutte le operazioni dirette a quel fine, e tutta la regola del suo comportamento sarebbero indicate a quell’essere molto più precisamente da suo istinto. Per mezzo suo, quello scopo si potrebbe raggiungere molto più sicuramente di quanto non possa mai avvenire mediante la ragione. E, qualora questa fosse, cionondimeno, assegnata a quell’essere fortunato, essa dovrebbe servirgli soltanto a fargli sviluppare considerazioni sulla felice disposizione della sua natura, e indurlo ad ammirarla, a compiacersene, a ringraziare la causa benevola che gliel’ha data; non per sottomettere la sua facoltà di desiderare a quella guida, debole e ingannevole, guastando la natura intenzione”[2].

 

Sempre nella Fondazione della metafisica dei costumi, prosegue affermando che:

 

…Sfortunatamente, il concetto della felicità è un concetto così indeterminato che, sebbene ogni uomo desideri giungere ad essa, nessuno tuttavia è in grado di dire determinatamente e coerentemente che cosa, in verità, desideri e voglia. Causa di ciò è che tutti gli elementi che concorrono a formare il concetto della felicità sono empirici, ossia devono essere tratti dall’esperienza, mentre all’idea della felicità si richiede un tutto assoluto: un massimo di benessere nella mia condizione attuale e in ogni stato futuro. ……

In breve, nessuno è in grado di determinare con piena certezza, in base a un qualsiasi principio, che cosa effettivamente lo renderà felice: perché, per questo sarebbe necessaria l’onniscienza. E’ impossibile, quindi, agire secondo principi determinati in vista della felicità”[3].

 

Kant, in questo passo, parla quindi della felicità come di un ideale dell’immaginazione, concetto chiaramente contraddittorio perché l’ideale è prerogativa della ragion pura ed indica un’assolutezza, mentre l’immaginazione è la facoltà empirica con cui noi incontriamo gli oggetti; da ciò appare evidente che non è possibile colmare un’aspirazione assoluta con qualcosa di empirico.

La felicità per Kant è quindi flatus vocis e titolo complessivo che raccoglie tutti i moventi soggettivi della volontà, moventi cui corrisponde qualcosa di diverso non solo da soggetto a soggetto, ma anche in uno stesso soggetto nel corso del tempo. La felicità raccoglie quindi tutte le varie inclinazioni, ma anche se noi volessimo sondare le opinioni su ciò che viene ritenuto comunemente felicità e volessimo ricavarne un principio oggettivo, ci renderemmo conto che ciò non è possibile perché i risultati ottenuti variano anche in relazione all’ambiente in cui ci troviamo e al momento particolare della nostra esistenza. Quindi, secondo Kant, il bisogno di felicità è in ogni essere vivente, ma il suo contenuto ci fa cadere nel relativismo assoluto.

 

Il discorso sulla felicità viene comunque sviluppato compiutamente da Kant nella Critica della Ragion Pratica.

Nella Dilucidazione critica dell’Analitica della ragion pura pratica, Kant afferma che la distinzione fra dottrina della felicità, dove i principi empirici costituiscono l’intero fondamento, e dottrina etica, dove invece i principi empirici non contribuiscono in nulla, è il primo e più importante compito che spetta all’Analitica della ragion pura pratica[4]. Continua quindi operando una separazione fra principio della felicità e principio della moralità: sotto un certo aspetto, afferma Kant, può essere un dovere adoperarsi per la propria felicità, sia perché essa, comprendendo abilità, salute, ricchezza, contiene mezzi per adempiere al proprio dovere, sia perché la sua mancanza (ad esempio, la povertà) può indurre in tentazione di trasgredire il dovere stesso[5]. Egli tuttavia separa nettamente i due principi, felicità e moralità, che sono anche contrapposti: chi persegue la propria felicità non arriva alla moralità. Kant pertanto distingue fra una saggezza ed una razionalità al servizio della moralità ed una saggezza ed una moralità al servizio della felicità; questa seconda accezione di razionalità e saggezza coincide con la ragione empiricamente condizionata, che trova il proprio fine nella sensibilità e dà all’individuo l’indicazione per raggiungere la felicità e il benessere.

Nella Dialettica della Ragion Pura Pratica, dopo aver parlato della virtù e della santità, gli interrogativi che si pone sono così riassumibili:

-         Perché sento di dover fare il bene e non il male?

-         Spesso compiere il bene nella vita comune porta non vantaggi, ma svantaggi e spesso chi fa il male vive la propria vita con grandi soddisfazione. La virtù non dovrebbe portare la felicità?

-         E la felicità unita alla virtù non dovrebbe essere il sommo bene?

E’ nel rispondere a queste domande che Kant che introduce la distinzione fra bene supremo e sommo bene e la tesi del “bisogno morale” di credere nell’esistenza di un Dio quale garante del sommo bene, la felicità eterna, non in questa vita, ma in un’altra dopo la morte corporea.

Per Kant il bene supremo che risulta alla nostra portata è la vita virtuosa, cioè una condotta che cerca che cerca di rispettare al massimo grado possibile la legge morale. Ma il bene supremo, identificato con la vita virtuosa, non è la felicità; essere virtuosi non significa affatto per Kant essere felici, ma significa semmai essere degni della felicità. Kant infatti afferma:

 

“Che la virtù (cioè il meritare di essere felici) sia la condizione suprema di tutto ciò che comunque può apparire desiderabile -       quindi anche di ogni nostra ricerca della felicità – e, quindi, che sia anche il bene supremo, è stato dimostrato nell’Analitica. Ma con questo esso non è ancora il bene totale e completo, come oggetto della facoltà di desiderare di esseri razionali finiti; perché, per essere questo, dovrebbe aggiungervisi ancora la felicità”[6].

 

Di questo Kant parla anche nella Dialettica della ragion pura pratica, quando, prendendo in esame le concezioni etiche del passato, distingue nettamente la sua posizione da quella degli Stoici, per i quali basta essere virtuosi per essere felici: secondo Kant, invece, essere virtuosi non ci conduce ad essere felici, ma, al massimo, ad essere contenti, ad avere cioè la consapevolezza della nostra dignità.

 

Virtù e felicità, continua Kant, “insieme costituiscono, in una persona, il possesso del sommo bene” e “costituiscono il sommo bene in un mondo possibile”[7]. Il mondo possibile cui si riferisce Kant, in cui virtù e felicità sono unite eternamente, non è questo mondo, in cui la felicità non è raggiungibile, ma il mondo delle anime immortali, nel quale c’è un Dio che dà la felicità a chi è stato virtuoso, per sua libera scelta, nella vita terrena.

Intorno a queste cose non è possibile dare alcuna dimostrazione di tipo conoscitivo, ma, afferma Kant, noi sentiamo il bisogno di credere in esse e, per potervi credere, abbiamo bisogno di presupporre l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, di un essere cioè che sia in grado di valutare la nostra condotta e di dare un grado di felicità corrispondente al grado di virtù mostrato nella vita terrena:

 

…Dunque, il sommo bene è possibile, in senso pratico, solo presupponendo l’immortalità dell’anima, e quindi questa, in quanto inseparabilmente connessa con la legge morale, è un postulato della ragion pura pratica…” [8]

 

“Per la possibilità del secondo elemento del sommo bene, e cioè di quella felicità che sia commisurata alla moralità, questa medesima legge deve condurre con altrettanto disinteresse, in virtù della pura, oggettiva ragione, precisamente al presupposto dell’esistenza di una causa adeguata a tale effetto; cioè, a postulare l’esistenza di Dio, come necessaria alla possibilità del sommo bene.”[9]

 

La trattazione del tema della felicità assume in Kant anche una valenza legata alla vita comunitaria, che potrebbe essere interessante valutare, da un punto di vista didattico, come punto di partenza per trattare, di Kant stesso, anche il pensiero politico e il diritto. Questo tipo di analisi potrebbe iniziare dalla lettura di questo brano tratto dalla seconda edizione del saggio Sopra il detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la  pratica”, del 1793:

 

Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri).”[10]

 

In questa prospettiva, la felicità del singolo individuo si ricollega direttamente e costitutivamente al problema della libertà, in quanto ogni cittadino rappresenta sempre un soggetto vivente nell’ambito di una specifica società civile, formata da cittadini dotati di pari diritti. Alla luce del passo richiamato, quindi, appare evidente che per Kant il problema della felicità non può mai essere scisso dal problema della libertà, sia a livello politico, quindi nella società civile, sia a livello etico.

Nell’ambito della società civile, la conquista della propria felicità deve attuarsi,  secondo Kant, nel rispetto della legge universale che tutela la libertà della ricerca della felicità per tutti; a questo proposito, Kant stesso aggiunge che un governo paternalistico rappresenta il peggior dispotismo che si possa immaginare, in quanto, volendo occuparsi direttamente della felicità dei singoli cittadini, sottrae loro la libertà e la responsabilità di questa ricerca, ledendo  inevitabilmente la  loro natura di uomini liberi.

Anche in questo caso è possibile individuare una chiara differenza rispetto ad Aristotele. Quando infatti lo Stagirita parla, sia nell’Etica Nicomachea che nella Politica, delle varie forme di governo, fa riferimento alle cosiddette buone costituzioni, monarchia, aristocrazia, politia, e alle loro degenerazioni, tirannide, oligarchia, democrazia, la differenza fra le quali è data dal fatto che le leggi hanno in vista, nelle prime, il bene di tutti i cittadini, mentre nelle seconde il bene di alcuni di essi soltanto, ed esattamente di coloro che comandano. Secondo Aristotele, quando le leggi mirano a ciò che è il bene comune, definiscono una costituzione corretta, quando invece stabiliscono il bene di un gruppo di persone definiscono una costituzione degenere, affermazione con cui lo Stagirita sembra implicitamente accogliere ed approvare l’immagine di un sovrano che interviene attivamente mediante la legislazione per favorire la felicità dei propri sudditi.

Kant, a questo proposito, si riferisce in termini critici alla tradizione del liberalismo moderno, in particolare alla figura di John Stuart Mill: secondo Kant, la libera fioritura del genere umano e il diritto alla felicità di cui parla Mill devono essere garantiti da leggi che permettano un’analoga libera fioritura per ciascun componente della medesima società e ciascuno può perseguire la sua felicità a patto che questa sua ricerca non rechi pregiudizio alla libertà altrui. Così come nella morale l’introduzione di un principio eudemonistico tra dovere e volontà comporta lo scardinamento dell’assoluta imperatività della legge morale e la sua sostituzione con i semplici consigli tecnici della prudenza, allo stesso modo la sostituzione del diritto con la felicità in ambito politico rappresenta per Kant la negazione della razionalità e la caduta in una contingenza empirica di per sé incapace di rappresentare un solido fondamento universale.

La felicità, in conclusione, non può, nemmeno a livello politico, rappresentare secondo Kant un concetto riducibile ad un’unica forma razionale e la sua dimensione multiforme rinvia al massimo alla dimensione dell’empiria storico-esistenziale: non si può assumere una determinata configurazione della felicità e spacciarla come norma universale e razionale, valida per tutte le società civili, né tantomeno la felicità stessa può essere assunta come fondamento della politica. La trattazione potrebbe concludersi con la lettura e il commento di un brano tratto da Per la  pace perpetua[11]:

 

il diritto degli uomini deve essere tenuto come cosa sacra, anche se ciò possa costare grossi sacrifici al potere dominante. Qui non è possibile fare due parti uguali e immaginare il mezzo termine di un diritto pragmatico-condizionato (qualcosa di mezzo tra l’utile e il diritto), ma ogni politica deve piegare le ginocchia davanti alla morale e solo così sperare che essa pervenga, sia pure lentamente, a un grado in cui potrà brillare di durevole splendore.”

 

La massima libertà dell’uomo, tale da garantire la massima libertà nel perseguire la propria felicità, richiede pertanto la presenza di un diritto in grado di tutelare questa stessa libertà, secondo il principio di reciprocità che prevede un limite alla libertà del singolo solo per tutelare un’analoga libertà negli altri individui. La massima libertà umana, premessa per la ricerca della massima felicità, deve essere quindi fondata su leggi in grado di garantire e tutelare questa stessa libertà.

 

 

Bibliografia

 

-         Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, a cura di Vittorio Mathieu, Bompiani, Milano, 2003

-         Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, trad. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari, 1981

-         Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, a cura di Vittorio Mathieu, Bompiani, Milano, 2000

-         Immanuel Kant, Sopra il detto comune, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, trad. di Gioele Solari e Giovanni Vidari, ed. postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieau, UTET, Torino, 1995.

-         Augusto Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari, 2002

-         Otfried Hoeffe, Immanuel Kant, Il Mulino, Bologna, 1986

-         Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori, Milano, 2000

-         Domenico Massaro, La comunicazione filosofica, vol. 2, Paravia, Milano, 2002

 

 

 

 

 



[1] I. Kant, Critica della Ragion Pura, traduzione di Giovani Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 613

[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di Vittorio Mathieu, Bompiani, Milano, 2003, p. 59

[3] I. Kant, ibid.,  p. 115-116

[4] I. Kant, Critica della Ragion Pratica, traduzione di Vittorio Mathieu, Bompiani, Milano, 2000, p. 197

[5] I. Kant, ibid., pag.199

[6] ibid., p. 229

[7] ibid., p. 229

[8] ibid., p. 249

[9] ibid., p. 253

[10] I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, trad. di Gioele Solari e Giovanni Vidari, ed. postuma a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Vittorio Mathieu, Utet, Torino, 1995, p. 255

[11] I. Kant, op. cit.,  p. 329



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