LE SUPPLICI
di Eurģpide
traduzione di Ettore Romagnoli

PERSONAGGI:

čtra
Tesčo
Adrąsto
ARALDO
MESSAGGERO
Evądne
IFI
Atčna
FANCIULLI
CORO

In fondo alla scena il tempio di Demčtra, a diritta un'alta rupe
che lo sovrasta, davanti al tempio un grande altare, dinanzi al
quale sono prostrate le madri dei sette capi Tebani. Velate di
funebri bende, tendono supplici rami d'ulivo verso čtra che sta
anch'ella presso all'altare. A destra il re d'Argo Adrąsto.


čtra:
   Demčtra, tu che l'are occupi in questa
   terra d'Eleusi, e voi, che, della Diva
   ministri, i templi custodite, a me
   e al figlio mio Tesčo rida fortuna,
   alla cittą d'Atene, al suol di Pķtteo.
   Quivi cresciuta io sono, čtra, sua figlia;
   ed egli sposa al figlio di Pandķone,
   a Egčo mi die': ché cosķ volle Febo.
   Io queste preci volgo a voi, vedendo
   queste misere vecchie, che lasciarono
   l'argiva patria, e con i rami supplici
   alle ginocchia mie caddero. Orribile
   č la sciagura che le opprime: prive
   dei loro figli son: presso alle mura
   cadmče quei sette valorosi caddero,
   che un giorno Adrąsto, il re d'Argo, condusse
   a conquistar per Polinķce, l'esule
   genero suo, l'ereditą d'Edķpo.
   Le salme loro, che trafitte caddero,
   ora le madri seppellir vorrebbero;
   ma fan contrasto i vincitori, spregiano
   ogni legge divina, e proibiscono
   che si levino i corpi. Insiem con esse,
   di commuovermi Adrąsto assunse il cómpito;
   e giace lķ, molli di pianto ha gli occhi,
   e per la guerra geme, e per l'impresa
   ch'ei dalla patria addusse, infelicissima.
   Ed or mi spinge, ch'io mio figlio induca
   a seppellirli, vuoi con argomenti,
   vuoi per virtś di ferro; e affida il cómpito
   solo a mio figlio e alla cittą d'Atene.
   Or qui mi trovo, ché di casa io giungo,
   sacrifici a offerir per la sementa,
   presso questo recinto, ove la spiga
   prima spuntņ, fitta ondeggiņ nei campi.
   Da quelle rame or senza lacci stretta,
   presso io qui resto all'are venerabili
   delle due Dee, di Cora e di Demčtra,
   per la pietą di queste bianche madri
   prive dei loro figli, e per rispetto
   di quelle sacre bende. Ed ho spedito
   un araldo in cittą, perché qui faccia
   venir Tesčo, che questa schiera triste
   dalla terra bandisca, o, qualche impresa
   compiendo ai Numi accetta, questo debito
   delle supplici accolga: in tutto agli uomini
   le donne sagge devono rimettersi.
CORO:                                  Strofe prima
   O vegliarda, ti supplica
   l'antico labbro mio:
   cado alle tue ginocchia.
   Libera i figli miei, non far che restino
   insepolte le membra dei cadaveri
   giacenti, nell'oblio,
   feral, preda alle scane
   delle fiere montane.

                                       Antistrofe prima
   Ti muova questo misero
   pianto dei nostri cigli,
   e le impronte che incidono
   le mani sopra le mie membra pallide.
   Ahimč, ch'io non potei recare in patria
   i miei defunti figli,
   e non s'addensa cumulo
   di terra a lor sul tumulo.

                                       Strofe seconda
   Anche tu fosti madre, avesti un pargolo,
   o Signora, anche tu, diletto al talamo
   del tuo consorte. Ora, i tuoi sensi ai miei
   accomuna, partecipa lo spasimo
   che invade me, che il figlio mio perdei.
   Il tuo figlio convinci, ch'egli venga alle rive
   dell'Ismčno, e le salme a noi dei validi
   eroi consegni, ch'ora sono di tomba prive.

                                       Antistrofe seconda
   Squallida č la mia veste: il lutto, supplice
   qui mi spinse a prostrarmi, ove le vittime
   consuma il fuoco, delle Dee su l'ara.
   č con me la Giustizia: č in te, tal figlio
   č il tuo, la possa: al danno mio ripara.
   La prece a te rivolgo, io, prostrata nel duolo:
   fa' ch'io dal tuo figliuolo abbia il cadavere,
   ch'io stringa al sen le misere membra del mio figliuolo.

                                       Strofe terza
   D'łluli segue un'alta gara, d'łluli:
   delle man' delle ancelle odi lo schianto.
   Or dunque, su, compagne del mio pianto,
   compagne del mio cruccio,
   le danze dell'Averno ora s'intreccino:
   faccia alla guancia oltraggio
   la bianca unghia, la laceri, l'insanguini:
   dei vivi a chi sparķ questo č l'omaggio.

                                       Antistrofe terza
   Fuori mi trae da me l'insazļabile
   brama di pianto; da un'eccelsa roccia
   cosķ geme perenne umida goccia.
   Mai non desiste l'ululo:
   allor che i figli muoiono,
   il tormentoso spasimo materno
   in łluli si scioglie. Ahi, degli spasimi
   trovar possa io l'oblio nel sonno eterno!
(Entra Tesčo)
Tesčo:
   Di quali łluli il suono, e qual di seni
   percossa ho udito, e di funerei salmi?
   L'eco da questi templi a me ne giunse.
   Il terror mi die' l'ali, e in cerca io mossi
   di mia madre, che lungi č dalla casa,
   da tempo. Un nuovo mal forse le incolse?
   (Scorge prima la madre, poi le donne del coro)
   Ahimč!
   Che cosa avviene? L'argomento ad altri
   discorsi trovo. Sopra l'ara vedo
   seder l'antica madre, e donne estranee
   accanto a lei, non da un sol male oppresse;
   ché dai cigli vetusti al suolo stillano
   misero pianto; e non son gią festivi
   quei manti, e i capi cosķ rasi. O madre,
   che cosa č questo? A te significarmelo,
   a me l'udire; e nuove cose attendo.
čtra:
   Figlio, le madri queste son dei sette
   duci caduti combattendo intorno
   alle mura di Cadmo; e me coi supplici
   rami, lo vedi, or prigioniera tengono.
Tesčo:
   Chi č quei che triste su la soglia geme?
čtra:
   Adrąsto egli č, d'Argo signore, dicono.
Tesčo:
   E i fanciulli d'intorno? I figli suoi?
čtra:
   Non gią, ma i figli degli eroi caduti.
Tesčo:
   Perché vennero a noi coi rami supplici?
čtra:
   Bene io lo so; ma tempo č ch'essi parlino.
Tesčo (Si rivolge ad Adrąsto):
   Tu che col manto ascondi il volto, scņpriti,
   parla, non gemer piś: nulla, se prima
   per la lingua non passa, in porto giunge.
Adrąsto:
   D'Atene o re vittorļoso, o Tesčo,
   a te supplice io giungo, alla cittą.
Tesčo:
   Che cerchi? Qual necessitą ti spinge?
Adrąsto:
   Sai la funesta mia guerresca impresa?
Tesčo:
   Muto non fosti, attraversando l'čllade.
Adrąsto:
   Il fior degli eroi d'Argo ivi perdei.
Tesčo:
   La triste guerra tali frutti adduce.
Adrąsto:
   Le salme di quei morti a Tebe io chiesi.
Tesčo:
   Per seppellirli? Con araldi d'Erme?
Adrąsto:
   E gli uccisori a me li rifiutarono.
Tesčo:
   Con qual pretesto? Tu chiedevi il giusto.
Adrąsto:
   Smaltir non sanno la fortuna ch'ebbero.
Tesčo:
   E a me ti volgi per consiglio? O a che?
Adrąsto:
   Perché tu renda ad Argo i figli suoi.
Tesčo:
   Ed Argo ov'č? La sua fama era un vanto?
Adrąsto:
   Siam vinti e affranti, e ricorriamo a te.
Tesčo:
   Fu tua l'idea? Fu degli Argivi tutti?
Adrąsto:
   Di dar sepolcro ai morti ognun ti prega.
Tesčo:
   Contro Tebe perché movesti a campo?
Adrąsto:
   Per far cosa gradita ai due miei generi.
Tesčo:
   A quali Argivi le tue figlie desti?
Adrąsto:
   Non cercai tale parentela in Argo.
Tesčo:
   Fanciulle argive a stranļeri desti?
Adrąsto:
   A Polinķce ed a Tidčo, tebani.
Tesčo:
   Come avesti desio di tali generi?
Adrąsto:
   Me di Febo un responso oscuro spinse.
Tesčo:
   Che ti disse di far delle due vergini?
Adrąsto:
   Di darle spose a un apro e ad un leone.
Tesčo:
   E quale senso tu desti all'oracolo?
Adrąsto:
   Due fuggiaschi, di notte ad Argo giunti...
Tesčo:
   Due? Chi l'uno, e chi l'altro? I nomi dimmi.
Adrąsto:
   Polinķce e Tidčo: qui si batterono.
Tesčo:
   E come fiere a lor desti le figlie?
Adrąsto:
   Sķ: ché alla zuffa due belve parevano.
Tesčo:
   E perché dalla patria eran fuggiti?
Adrąsto:
   Tidčo morte a un parente aveva inflitta.
Tesčo:
   Ed il figliuolo d'Edķpo, perché?
Adrąsto:
   Imprecņ il padre che uccidesse Etčocle.
Tesčo:
   E per non farlo egli fuggķ? Fu saggio.
Adrąsto:
   Ma chi rimase soverchiņ gli assenti.
Tesčo:
   Dei beni lo privņ forse il fratello?
Adrąsto:
   E a far giustizia io mossi; e fui perduto.
Tesčo:
   Consultasti i profeti e l'arse vittime?
Adrąsto:
   Ahi, l'error mio piś grande mi rimproveri!
Tesčo:
   Senza il favor dei Numi andasti dunque?
Adrąsto:
   Peggio! Contro il voler d'Anfļarąo.
Tesčo:
   Cosķ spregiasti a cuor leggero, i Numi?
Adrąsto:
   Mi frastornņ dei giovani la furia.
Tesčo:
   Piś seguisti l'ardir che la prudenza.
Adrąsto:
   Altri duci cosķ perduti furono.
   Ora, signor d'Atene, eroe fortissimo
   sopra tutti gli Ellčni, or mi vergogno
   di prosternarmi innanzi a te, di stringere,
   canuto gią, le tue ginocchia; e un tempo
   fui fortunato: eppure, alla disgrazia
   č necessario ch'io mi pieghi. Salva
   i nostri morti, abbi pietą di me,
   abbi pietą di queste madri, prive
   dei loro figli, sovra cui la bianca
   vecchiezza incombe solitaria, e ardiscono
   spingere il piede sopra estranea terra,
   movendo a stento le lor membra antiche,
   non peregrine ai misteri di Dčmčtra,
   bensķ le salme a seppellir di quelli
   dalle cui mani giovani sepolcro
   avere esse doveano. Ed č saggezza
   che l'uom felice volga gli occhi al povero,
   ed il povero al ricco, ove la brama
   di ricchezza lo prenda: agli infelici
   badi, chi mai sventura non provņ.
   .....................................
   Il fabbro d'inni, i canti suoi creare
   deve nel gaudio; e s'ei gaudio non prova,
   se in cuor tristezza alberga, e come gli altri
   allegrar mai potrą? Sarebbe assurdo.
   Ma dir forse potrai: «Perché di Pčlope
   alla terra non pensi, e aggravi Atene
   di tal fatica?». - Ed č giustizia ch'io
   questo punto ti spieghi. č dura Sparta,
   di costumi cangevoli, e del resto
   piccola e fiacca: a tale impresa accingersi
   la tua cittą sola potrebbe; ed occhi
   essa ha per la miseria, e te possiede,
   pastor giovane e buono; e assai cittą,
   per la mancanza d'un pastore, prive
   di buona guida, andarono in rovina.
CORO:
   Ciņ che quest'uomo disse, io ti ripeto.
   Abbi, Tesčo, pietą della mia sorte.
Tesčo:
   Con altri gią contesi, per difendere
   un mio concetto, e faticai. La somma
   dei mali, alcun dicea, per l'uomo supera
   quella dei beni; ma credenza io nutro
   contraria ad essi: nelle umane cose
   stimo che il ben soverchi il male: l'uomo,
   se non fosse cosķ, vivrebbe forse?
   Io dņ lode a quel Dio ch'ordine pose
   alla vita dell'uom, ch'era confusa
   prima, e ferina, la ragion pria dandoci,
   poi la parola, dei concetti aralda,
   e le voci distinte; e della spiga
   il nutrimento; e con la spiga, l'acqua
   che dal cielo stillando irrora i visceri
   e i frutti nutre della terra; e poi
   i ripari del verno, e come l'alido
   schermir del cielo, e i legni, onde le terre
   di quello onde han penuria fanno permuta.
   E quello onde i mortali alcun indizio
   non hanno, o chiara conoscenza, i vati,
   guardando il fuoco, o i seni delle visceri,
   o degli uccelli il vol, sanno predirlo.
   Ora, quando tanti agi al viver nostro
   dispose un Dio, non siamo insazļabili,
   se cerchiamo di piś? Ma piś del Nume
   poter vorrebbe l'intelletto umano,
   e, in cuore accolta l'arroganza, saggi
   piś degli Dei presumļamo d'essere.
   E tu stesso appartieni a questa turba:
   credesti ai Numi allor che, dall'oracolo
   irretito di Febo, a genti estranee
   desti le figlie, e una progenie pura
   ad una torba mescolando, apristi
   nella tua casa una ferita - il saggio
   non deve unir con gl'innocenti i rei,
   ma con le case benedette stringere
   i parentadi: poiché il Nume vuole
   che accomunate sian le sorti, e strugge
   con le pene che al reo spettano, quanti
   vivon col reo, sebben di colpa immuni -:
   poi, quando a guerra tutta Argo adducesti,
   ebbero i vati un bel cantare oracoli:
   tu li spregiasti; e, trasgredito a forza
   il volere dei Numi, Argo perdesti.
   E ti lasciasti trascinar da giovani
   che per ambizļone aman le guerre,
   e l'ingrandirsi in onta alla giustizia,
   e i cittadini sterminano, l'uno
   per divenire capitano, l'altro
   per avere il potere e farne abuso,
   l'altro per ammassare oro; e non bada,
   se, facendo cosķ, danneggia il popolo.
   Ed io dovrei combattere al tuo fianco
   come alleato? E qual ragione addurre
   ai cittadini miei? Vattene in pace.
   Se non sapesti a buon consiglio apprenderti,
   muovi rampogna alla tua sorte, e vattene.
CORO:
   Fallķ: la colpa fu tutta dei giovani;
   ma conviene perdono ora concedergli.
Adrąsto:
   Non io dei mali miei t'elessi giudice;
   ma perché tu, signor, ne fossi medico,
   siam qui venuti; e non perché, se colpa
   mi si puņ far di qualche errore, tu
   rimprovero o castigo a me ne dessi,
   ma perché m'aiutassi. Ed or, se tu
   non lo vuoi far, ch'io mi rassegni č d'uopo:
   altro che far potrei? Su, vecchie, andiamo:
   le glauche qui lasciam frondose rame
   cinte di bende; e i Numi e questa terra
   e, datrice di spighe alma, Demčtra,
   e la luce del Sol, fede ci facciano
   che a nulla ci giovņ pregare i Numi.
CORIFEA:
   ...................................
   che di Pčlope fu prole: noi siamo
   della terra Pelopia; e abbiam, da parte
   di padre, un solo sangue. Or che farai?
   Senza riguardo a ciņ, dalla tua terra
   scaccerai le vegliarde, e nulla avranno
   di quanto esse chiedeano? Oh no! La fiera
   trova rifugio nello speco, il servo
   presso l'ara dei Numi; e la cittą
   cui la tempesta travagliņ, ripara
   alla cittą: ché delle umane cose
   nessuna v'č felice sino al termine.
(Le madri incominciano ad alzarsi)
CORO:
   Muovi, tapina, su, di Persčfone sorgi dal sacro
   suolo, alle sue ginocchia le mani protendi, e preghiera
   fa' che dei nostri figli qui adduca le salme, o tapina,
   dei figli miei caduti sott'esse le mura di Cadmo.
   (Alle ancelle)
   Ahimč, prendetemi, guidatemi, sostenetemi
   le vecchie mie povere mani, dirigetemi.
   (Si trascinano ai piedi di Tesčo)
   Per la tua gota, o caro, preclaro fra gli člleni tutti,
   io ti scongiuro, le tue ginocchia e le mani baciando,
   abbi pietą di me, che supplice giungo, errabonda,
   pei figli miei levando querele e funerėe nenie.
   Deh, non lasciare, o figlio, ti prego, che senza sepolcro
   giovani pari a te negli anni, ludibrio alle fiere
   restino nella terra di Cadmo. Bagnato di pianto
   questo mio figlio vedi. Prostrata dinanzi ti cado
   cosķ, perché tu faccia che ottengan sepolcro i miei figli.
(čtra piange e si cuopre il viso, per nascondere le lagrime)
Tesčo:
   Madre, perché con quei leggeri veli
   nascondi il viso, e piangi? Ti commuovono
   le lor misere grida? Un turbamento
   anch'io sento nel cuore. Il capo bianco
   solleva, non versar lagrime, quando
   di Dčo sull'ara veneranda siedi.
čtra:
   Ahimč!
Tesčo:
   Non gemer tu pei loro affanni.
čtra:
   Misere!
Tesčo:
   Il loro mal tu non partecipi.
čtra:
   Posso parlar pel ben d'Atene e tuo?
Tesčo:
   Sķ: con senno le donne spesso parlano.
čtra:
   Ma perplessa mi fa l'idea ch'io nutro.
Tesčo:
   Mal tu parli: agli amici il bene ascondere?
čtra:
   Non taccio, no: ché poi rimproverarmi
   non debba che fu il mio tristo silenzio.
   L'antico detto, che sconviene a donna
   un abile parlar, tanto sgomenta
   non mi fa, ch'io repudī il ben ch'io penso.
   E pria t'esorto che tu badi, o figlio,
   che tu non erri, per tenere i Numi
   in poco onore: in questo punto sbagli,
   tu, che nel resto hai senno. Ove l'audacia
   in favor degli oppressi adoperare
   necessitą non fosse, io di sicuro
   avrei taciuto; ma per te d'onore
   sarą cagione, ed io di consigliartelo
   non temo, o figlio, se saprai costringere
   col valor del tuo braccio i vļolenti
   a conceder la tomba e i doni funebri
   ch'essi or negano, ai morti, ed a desistere
   da un uso tal che turba tutta l'Ellade:
   ché salde le cittą restano, quando
   con riguardo le leggi ognuno osserva.
   Per la fiaccbezza del tuo braccio - alcuno
   certo dirą - quando potevi cogliere
   di fama un serto per Atene, tu
   rinunciasti e temesti; e d'un selvaggio
   apro lo scontro sostenesti, ch'era
   ben misero cimento; e quando invece
   conveniva guardar con ciglio intrepido,
   nella prova di guerra, elmetti e cuspidi,
   si vide ch'eri un vile. O figlio, no,
   questo non fare: la tua patria vedi
   che sconsigliata sia qualcun l'offende;
   ma con che fiero piglio essa squadrare
   sa chi l'oltraggia! E trova nel pericolo
   la sua grandezza. Invece, le cittą
   che nella calma oscuramente vivono,
   velato anche lo sguardo hanno di tenebre
   per la loro prudenza. A che non muovi
   dei defunti in soccorso, e delle misere
   donne, che, figlio mio, prece a te volgono?
   Ed io non temo, nel veder che muovi
   a giusta guerra, e che ventura al popolo
   di Cadmo arride: al gioco di fortuna
   gitteranno, lo so presto, altri punti:
   ché capovolge un Dio tutte le cose.
CORO:
   Bene per me, pel figlio mio, carissima,
   parlasti; e ne otterrai duplice grazia.
Tesčo:
   I discorsi ch'io gią feci, a proposito
   di costui, sempre immoti, o madre, restano.
   Il modo io dimostrai come in rovina
   egli piombņ pel mal consiglio. Eppure,
   ciņ che mi dici vedo anch'io: che al mio
   costume non convien fuggir pericoli:
   poiché compiute ho molte imprese, fama
   č tra gli Ellčni ch'io punire debba
   sempre i malvagi; e, dunque, non m'č lecito
   ai perigli sottrarmi. E che direbbero
   quanti mi son nemici, allor che tu,
   che partorito m'hai, che sempre trepidi
   per la mia vita, ad affrontar m'esorti
   questo travaglio? Ed io l'affronterņ.
   Andrņ, riscatterņ le salme: prima
   con le parole; e, dove non bastassero,
   per forza d'armi; e allora non sarą
   contro il voler dei Numi. Adesso, occorre
   che tutta Atene approvi; e quando io voglia,
   approverą; ma piś benigno il popolo
   avrņ, se accordo la parola: io queste
   genti del poter mio volli partecipi,
   poi che uguale concessi a tutti il voto.
   Or vado all'Assemblea: sarą soggetto
   del mio discorso, Adrąsto; e quando il popolo
   avrņ convinto, i giovani piś prodi
   raccoglierņ d'Atene, e tornerņ.
   Poi, starņ in arme; ed a Creonte araldi
   che richiedan le salme invierņ.
   Vegliarde, orsś, d'attorno alla mia madre
   quelle bende togliete: io porger devo
   alla sua mano la mia mano, e addurla
   alla casa d'Egčo. Tristo quel figlio
   che quale servo ai genitor non s'offra,
   mutuo dono bellissimo: ché dona
   l'uomo, e dai figli suoi poscia riceve
   ciņ che donato ai genitori egli ha.
(Tesčo parte conducendo con sé čtra)
CORO:                                  Strofe prima
   Argo, nutrice di corridori, suol di mia patria,
   udite, udite le pie parole di questo principe,
   ch'egli pronuncia, pei Numi, per la terra pelasgica,
   e per la mia cittą.

                                       Antistrofe prima
   Deh, ch'egli al termine le mie sciagure portando, al vertice
   recuperare possa le salme, cruento orgoglio,
   delle lor madri. Per lui perenne la terra d'Inaco
   riconoscenza avrą.

                                       Strofe seconda
   Per le cittą la pia fatica č fulgido
   fregio, e grata memoria ognor ne dura.
   Avrem da questi il patto d'amicizia?
   Avranno i figli miei la sepoltura?

                                       Antistrofe seconda
   Le madri aiuta, fa' che non si macchino,
   di Pallade cittą, le umane leggi:
   tu la giustizia onori, e l'ingiustizia
   repudī, e gl'infelici ognor proteggi.
(Torna Tesčo con un araldo)
Tesčo:
   Il medesimo ufficio ognor tu presti
   per Atene e per me: portar messaggi.
   L'Asopo e l'acque dell'Ismčno or varca,
   ed al superbo dei Cadmči signore
   parIa cosķ: «Tesčo ti chiede in grazia
   che seppellir gli lasci i morti, e spera
   tal favore ottener, poi che la terra
   sua con la tua confina; e, in cambio, amica
   ti sarą d'Erettčo tutta la gente».
   Qualora acconsentir vogliano, tu
   sśbito torna: ove rifiuto oppongano,
   aggiungi allor che la festosa schiera
   dei miei soldati attendano. L'esercito
   č tutto in punto, presso all'acque sante
   del Callķcoro, e pronto alla battaglia.
   Appena seppe il mio volere, Atene,
   di buon grado s'accinse a questa impresa.
   Ehi, chi giunge a troncar le mie parole?
   Sembra, ma non ne son certo, un araldo
   di Tebe. Attendi tu. Forse i disegni
   miei previene, e il viaggio a te risparmia.
(Entra un araldo di Tebe)
ARALDO:
   Il re dov'č di questa terra? A chi
   di Creonte recar devo il messaggio,
   che in Tebe ora ha il poter, poiché per mano
   del fratel Polinķce, alle settemplici
   mura di Tebe innanzi Etčocle cadde?
Tesčo:
   Prima di tutto, da un error le mosse
   hai prese, o forestier, quando in Atene
   tu cerchi un re: qui non comanda un solo:
   libera č la cittą: comanda il popolo,
   con i suoi deputati, a turno eletti
   anno per anno; e privilegio alcuno
   non hanno i ricchi: ugual diritto ha il povero.
ARALDO:
   Tu m'hai concesso un punto di vantaggio,
   come al giuoco dei dadi. La cittą
   dalla quale son giunto, č governata
   da un uomo sol, non da la folla. E alcuno
   quivi non č che a ciance esalti il popolo
   pel proprio lucro, e qua e lą lo volga.
   Tutti miele, costor, tutti lusinghe
   son pria, che in danno poscia si convertono.
   E con calunnie nuove allor nascondono
   gli antichi falli, e alla giustizia sfuggono.
   D'altronde, come mai potrebbe il popolo,
   che guidare non sa neppure il proprio
   razļocinio, reggere uno stato?
   A insegnar tal dottrina, il tempo giova,
   e non la fretta; e un povero bifolco,
   anche se inculto non sarą, distolto
   dal suo lavoro, agl'interessi pubblici
   badare non potrą. Malanno grande
   č per gli onesti, quando un uomo tristo
   e venuto dal nulla, acquista credito,
   e con le ciance sue dņmina il popolo.
Tesčo:
   č sottil questo araldo, e di parole
   artefice sagace, anche se impronto.
   Or, poiché tu proposta hai tale gara,
   poiche m'inviti a tal disputa, ascoltami.
   Nulla per un paese infesto č piś
   d'un assoluto re. Qui, per primissima
   cosa, leggi non son, per tutti uguali.
   In propria casa un uomo sol detiene
   le leggi, uno il potere; e l'uguaglianza
   non c'č. Ma quando leggi scritte esistono,
   ugual giustizia ottiene il ricco e il povero.
   Il debole puņ allor, quando l'insultano,
   rimbeccare il possente: allora il piccolo,
   quando ha ragione, puņ vincere il grande.
   Ecco che cosa č libertą: «Chi ha
   qualche utile consiglio, e vuole offrirlo
   alla cittą?». Chi se la sente, celebre
   divien di colpo; e chi non se la sente,
   se ne sta zitto. Uguaglianza piś
   perfetta, esiste? E dove della terra
   il popolo č sovrano, ivi si gode
   d'aver nella cittą pronta una florida
   gioventś; ma nemica invece un principe
   assoluto la stima, e i piś gagliardi
   uccide, e quanti ch'abbian senno reputa,
   ché pel suo regno teme. E come, allora,
   puņ divenir gagliarda una cittą,
   se v'ha chi tronca, quasi a Primavera
   spighe dal prato, ogni baldanza, e il fiore
   dei giovani discerpa? Ed a che giova
   agi e ricchezze procurare ai figli,
   perché piś cresca del tiranno il lusso?
   A che fanciulle costumate in casa
   crescere, se sollazzo esser dovranno,
   quand'ei lo voglia, del signore, a che
   lagrime seminare? Oh, ch'io non viva,
   se alcun mai debba vļolar mia figlia!
   Con questi colpi i colpi tuoi rintuzzo.
   Ma quale scopo a questo suol t'adduce?
   Col tuo malanno qui giunto saresti,
   se tu non fossi araldo: ché tu chiacchieri
   piś del bisogno; e un messaggero, esporre
   dovrebbe quanto gli fu imposto, e andarsene
   alla piś spiccia. E d'ora in poi, Creonte
   men loquaci di te ci mandi i nunzi.
CORO:
   Ahimč, ahimč! Se la fortuna un dčmone
   accorda ai tristi, come se dovessero
   sempre aver buona sorte, insolentiscono.
ARALDO:
   Sia; parlerņ. Quanto alla nostra disputa,
   tu sei di ciņ convinto, io del contrario.
   Adesso io t'inibisco, e tutto il popolo
   meco č di Cadmo, che s'accolga Adrąsto
   in questa terra; e s'egli pur v'č giunto,
   pria che del Sol tramonti il raggio, sciogliere
   devi l'incanto delle sacre bende,
   e scacciarlo di qui, né con la forza
   le salme devi riscattar: legame
   non c'č che d'Argo alla cittą ti stringa.
   Ché, se tu retta mi darai, la nave
   della cittą potrai senza tempesta
   governare; se no, grandi marosi
   piomban di guerra gią, su noi, su te,
   sugli alleati tuoi. Bada che, irato
   per le parole mie, tu che una libera
   cittą governi, nel valor fidando
   del braccio tuo, gonfiar troppo non debba
   la tua risposta. č confidenza pessimo
   mal, che l'ire accendendo al punto estremo,
   molte cittą sospinse a guerra. E quando
   nell'assemblea del popolo si mette
   la guerra ai voti, nessun v'č che in conto
   ponga la propria morte; e la sciagura
   storna su gli altri ognor. Se invece, quando
   vota la guerra, ognuno innanzi agli occhi
   la guerra avesse, l'Ellade in rovina
   mai non andrebbe per manķa di guerre.
   Eppure, ogni uomo il bene e il mal distingue,
   e bene giudicar fra guerra e pace
   sa, quanto questa sia miglior di quella.
   Alle Muse la pace č dilettissima,
   odļosa alle Furie; e l'opulenza
   ama, e i pargoli belli; e noi gettiamo
   tal bene, o stolti, e la ragion del forte
   e la guerra eleggiamo, onde asserviti
   son lo stato allo stato, e l'uomo all'uomo.
   Ora i nemici spenti, a cui die' morte
   la tracotanza, tu soccorri, e vuoi
   ch'abbian riscatto e sepoltura. E dunque,
   giusto non fu che Capančo, dal folgore
   arso, piombasse, ei che, la scala ai muri
   appoggiando, giurņ che presa avrebbe
   Tebe, volesse o non volesse il Nume?
   E non rapķ, schiuso improvviso, il bąratro,
   il vate degli augelli, e la voragine
   non inghiottķ la sua quadriga? E giacciono
   presso alle porte gli altri duci, l'ossa
   alle giunture han dai macigni infrante.
   Or, di Giove piś saggio esser presumi,
   dunque, o ammetti che i Numi a buon diritto
   sterminano i malvagi. Un uom di senno
   amare deve prima i figli, poi
   i genitori, e poi la patria, e fare
   che prosperi, e non gią che sia distrutta.
   Ben poco affida temerario duce,
   temerario nocchiero; e saggio č l'uomo
   che sa, quando bisogna, esser tranquillo.
   E per me, la prudenza č pur coraggio.
CORO:
   Bastņ che Giove li punisse: offenderli
   di tanta offesa, a noi mal si conviene.
Adrąsto:
   O scellerato!
Tesčo:
   Taci, Adrąsto, frena
   la lingua, e non voler parlare prima
   di me: ché a me spedito, e non a te
   fu questo araldo; e a me spetta rispondere.
   E cņnluto per primo il primo punto.
   Non mi risulta che Creonte sia
   il mio padrone, né che tanto sia
   di me piś forte, da poter costringere
   Atene al suo voler. Se ci lasciassimo
   imporre, i fiumi risalir dovrebbero
   alle sorgenti loro. Io, questa gara
   provocata non ho, ché non irruppi
   nella terra cadmča, con questi supplici.
   Senza far danni a Tebe, e senza pugne
   micidļali addurre, io dar sepolcro
   bramo alle salme degli eroi, difendere
   una legge comune a tutti gli člleni.
   Che di men giusto in ciņ? Se dagli Argivi
   riceveste sopruso, ora son morti,
   ché gl'inimici voi sconfitti avete,
   con vostra gloria e con vergogna loro,
   e trionfa giustizia. Or, consentite
   che le lor salme sian rese alla terra,
   che torni lą donde alla luce venne
   ogni elemento: all'čtere lo spirito,
   e le membra alla terra: esse, perché
   fosser l'albergo della nostra vita,
   ci furono concesse; e poi le deve
   chi le nutrķ, recuperare. Quando
   non seppellisci i morti, ad Argo pensi
   danno recar? No, punto! A tutta l'Ellade
   infliggi un colpo, se di tomba privi
   tu lasci e degli onor debiti i morti.
   Questa legge, se poi sancita fosse,
   viltą consiglierebbe ai cuor piś forti.
   Messaggi di minacce or tu mi rechi;
   e poi sgomento avete che sotterra
   scendano i morti? E di che mai temete?
   Forse che quando sian laggiś, vi scavino
   la terra sotto i piedi? Oppur che possano
   negli anfratti del suol dar vita a figli
   che vendichino i padri? Oh, sciocco sperpero
   č di parole, il confutar sķ tristi
   sķ maligni terrori. Oh, stolti, via,
   considerate la miseria umana:
   una lotta č la vita; e la fortuna,
   chi l'ha prima, chi poi, chi l'ebbe gią.
   Ella in sollazzo vive ognor: ché il misero
   l'esalta, che sollievo ai mali spera,
   e, per timor che l'abbandoni l'aura
   sua, la porta a le stelle il fortunato.
   Tanto saper dunque bisogna, e senza
   cruccio patir le offese lievi, e torti
   non fare ad altri che alla patria nocciano.
   Or come finirą? Concedi a noi
   che vogliamo esser pii, dar sepoltura
   ai corpi estinti; o ben si vede quale
   sarą la fine: io lą verrņ, darņ
   sepolcro ai morti con la forza. Mai
   detto sarą fra gli člleni che a me,
   che di Pandļone alla cittą, l'antica
   legge dei Numi giunse, e fu spregiata.
CORO:
   Fa' cuor: se di giustizia il raggio salvi,
   potrai fuggire il biasimo degli uomini.
ARALDO:
   Soggiunger posso una parola breve?
Tesčo:
   Parla, se vuoi: parole non ti mancano.
ARALDO:
   Non torrai d'Argo i figli al suolo d'ąsopo.
Tesčo:
   Anche la mia risposta odi or, se vuoi.
ARALDO:
   Odo: a vicenda favellar conviene.
Tesčo:
   Li trarrņ quindi, e li seppellirņ.
ARALDO:
   Degli scudi affrontar dovrai la sorte.
Tesčo:
   Altri perigli molti affrontai gią.
ARALDO:
   Forse il padre ti die' che tutti fiacchi?
Tesčo:
   I prepotenti: non m'appiglio ai buoni.
ARALDO:
   Troppo vi sobbarcate, Atene e tu.
Tesčo:
   Sķ, molto si sobbarca, e molto prospera.
ARALDO:
   Vieni: t'aspettan le spartane cuspidi.
Tesčo:
   Qual puņ furia di guerra avere un drago?
ARALDO:
   Alla prova il saprai: troppo or sei giovane.
Tesčo:
   Tanto eccitarmi non potrai, che l'animo
   pei tuoi vanti io mi crucci. Orsś, ripķgliati
   le vane ciance che portasti, e vattene
   da questo suol, ché nulla si conclude.
   Ora ogni oplķta muova, ogni guerriero
   che dal carro combatta, e di sudore
   stillando i morsi, verso il suol di Cadmo
   spingan le bocche dei cavalli. Andrņ
   col ferro in pugno verso le settemplici
   porte di Tebe, araldo io stesso. Tu
   devi restare, Adrąsto, e non confondere
   la tua sorte e la mia. Novello duce,
   a nuova guerra io movo col mio Dčmone.
   Solo una cosa occorre a me: che i Numi
   stiano con me, che la vittoria accordino.
   Perché nulla il valor profitta agli uomini,
   quando non ha proprī alleati i Dčmoni.
CORO:                                  Strofe prima
A:
   Che terror livido v'agita, o misere
   madri dei miseri duci, lo spirito?
B:
   Che nuovo innalzi, che nuovo gemito?
C:
   Qual sorte avranno le genti di Pąllade?
D:
   La pugna, dici? O il tranquillo dibattito?
E:
   Meglio sarebbe! Se, invece, belligere
   stragi, se zuffe, se colpi che frangano
   petti con alto strepito
   suonar per la cittą
   dovran, che dire, o misera,
   potrei? Ché questa, mia colpa sarą!

                                       Antistrofe prima
A:
   Chi fu felice, felice lo serbino
   le Parche: č questo l'ardire che m'anima.
B:
   Tu certo giusti reputi i Superi.
C:
   Chi, se non essi, ha la norma degli esiti?
D:
   Spesso han giudizio diverso dagli uomini.
E:
   Il tuo terrore di prima ancor t'agita.
   Vendetta chiama vendetta, sterminio
   chiama sterminio; i Superi
   concedono agli umani
   sollievo ai mali; e il termine
   č d'ogni cosa nelle loro mani.

                                       Strofe seconda
A:
   Oh, di Tebe potessi al piano muovere
   turrito, e del Callķcoro lasciar l'onde celesti!
   Se qualcuno dei Superi t'accordasse le piume,
   alla cittą potresti gir dal duplice fiume:
   dei tuoi cari la sorte vedere allor potresti.
C:
   Qual destino, qual sorte
   aspetta dunque il principe
   di questa terra forte?

                                       Antistrofe seconda
A:
   Gią l'invocammo, ed or di nuovo i Superi
   invoco: nei pericoli č il primo baluardo.
   O Giove, o tu che d'Ķnaco fecondasti la figlia,
   la giovenca, che origine fu di nostra famiglia,
   con noi combatti, a noi volgi benigno il guardo.
D:
   Di Tebe il fulcro, il raggio
   tuo, sķ ch'io l'arda, rendimi,
   ed or gli č fatto oltraggio.
(Giunge un messaggero)
MESSAGGERO:
   Donne, vi reco assai grate novelle.
   Primo, libero io son: ché prigioniero
   fui nella guerra che le sette schiere
   dei re defunti combatteron presso
   l'acque di Dirce. La vittoria annuncio
   poi di Tesčo. Non far lunghe dimande.
   Di Capančo, dal fulmine di Giove
   incenerito, un dei famigli io sono.
CORO:
   Lieto č ciņ che di te dici, o carissimo,
   e di Tesčo! Se salvo č pur l'esercito
   d'Atene, in tutto il tuo messaggio č lieto.
MESSAGGERO:
   č salvo. E ciņ che Adrąsto dovea compiere
   con gli Argivi, quand'ei mosse dall'ģnaco
   contro i valli di Tebe, esso ha compiuto.
CORO:
   Or, come a Giove un trofeo tale il figlio
   d'Egeo levņ, con gli alleati? Tu
   ch'eri presente, chi non c'era allegra.
MESSAGGERO:
   Del sole i raggi scintillanti, indizi
   certi dell'ora, gią colpķan la terra;
   ed io, sovra una torre eccelsa, presso
   le porte Elettre, asceso ero, e miravo.
   E tre falangi a guerra armate io vidi.
   In alto, sino al poggio Ismenio, come
   lo udii chiamare, si stendeva tutta
   la schiera degli opliti: all'ala destra,
   lo stesso re, d'Egčo l'illustre figlio,
   e intorno a lui, gli abitatori antichi
   della terra cecropia. Ed i Paralī,
   di lance armati, presso il fonte d'Are.
   Stavano i cavalieri ai lati estremi
   schierati, uguali in numero; ed i carri,
   d'Anfķone presso al venerando tumulo.
   L'esercito di Cadmo era schierato
   dinanzi ai valli, i cavalieri contro
   i cavalieri, e i carri contro i carri.
   E disse a tutti di Tesčo l'araldo:
   «Tacete, o genti! O schiere dei Cadmči,
   udite: noi per dar sepolcro ai morti
   venimmo qui, perché rispetto avesse
   una legge comune a tutti gli člleni,
   non per brama di strage.» E nulla a questi
   detti Creonte replicņ, ma stette
   muto, chiuso nell'armi. Incominciarono
   la zuffa i guidator' delle quadrighe.
   Spingono i carri, le due file passano
   una oltre l'altra, e i combattenti posano,
   che s'incontrino, a terra: i ferri incrociano
   questi, e gli aurighi presso a loro spingono
   nuovamente i puledri, alla battaglia.
   Forbante allor, che ai cavalieri d'Attica
   era preposto, e quelli che guidavano
   lo stuol di Cadmo equestre, appena videro
   il tumulto dei carri, s'impegnarono
   nella battaglia anch'essi, or vincitori
   ed ora vinti. Ed io tutto vedevo,
   udivo tutto: ch'ero presso dove
   s'azzuffavano i carri e i duci loro.
   Ma degli orrori molti ch'io lą scorsi,
   non so qual prima io debba dire. Forse
   la polvere, che al cielo in fitti vortici
   si sollevava? O i corpi nelle redini
   avvincigliati, e tratti qua e lą,
   e i rivoli del sangue, e chi cadeva,
   e chi piombava, franto il carro, a guisa
   di palombaro, con la testa in giś
   al suol, con urto vļolento, e qui
   fra i rottami del carro uscia di vita?
   Come Creonte i cavalier' d'Atene
   prevaler vide, lo scudo imbracciņ,
   e alla pugna balzņ, pria che languisse
   il coraggio nei suoi. Né, d'altra parte,
   nell'inerzia poltrķ Tesčo, ma sśbito,
   strette l'armi lucenti, s'avventņ.
   Ed era un cozzo sol tutto l'esercito,
   era un colpire, un cadere, un rivolgere
   l'uno all'altro grandi urla eccitatrici:
   «Picchia sodo! La lancia appunta contro
   la gente d'Erettčo!» - Salde alla lotta
   eran le schiere dei guerrieri nati
   dai denti del dragone; e l'ala manca
   nostra, piegava gią: quelli cedevano
   invece a dritta; e ugual pendeva l'esito.
   E qui degno di lode il duce fu:
   ché non ristette solamente a cogliere
   della vittoria i frutti; ove cedevano
   le sue schiere, si spinse, e un urlo alzņ,
   alto cosķ, che n'echeggiņ la terra.
   «Figli, se non reggete di questi uomini
   nati d'un drago all'aspra asta, č finita
   la fortuna di Palla». In cuore ai nati
   dalla roccia, cosķ coraggio infuse.
   Ed egli stesso, l'arma d'Epidauro,
   la terribile clava in pugno stretta,
   come una fionda la vibrava in giro
   su le cervici e su le teste, e gli elmi
   falciava, al par di spighe, al par di canne.
   Furono infine, a stento, in fuga volti.
   Ed io battei le mani, e grida alzai
   di vittoria, e danzai. Quelli fuggirono
   verso la porta. E in tutta la cittą
   suonavan pianti ed łluli di giovani
   e di vegliardi; e tutti lo sgomento
   addensava nei templi. E i muri facile
   era varcar; ma i suoi contenne Tesčo,
   ché non ad espugnar Tebe, diceva,
   ma le salme a cercare era venuto.
   Un tale duce eleggere bisogna,
   che nei perigli č valoroso, e aborre
   il vulgo senza fren, che, quando prospera
   volge la sorte, per brama d'ascendere
   ai sommi gradi della scala, strugge
   anche quel bene onde gioir poteva.
CORO:
   Or che, contro ogni speme, un tal dķ vidi,
   ai Numi credo; e poi che il fio pagarono
   quei crudi, men la sorte mia m'ambascia.
Adrąsto:
   O Giove, e come il senno proprio vantano
   i miseri mortali? Essi dipendono
   da te, l'opere loro tu determini.
   Argo era nostra, rocca inespugnabile,
   molti eravamo, e giovani e gagliardi
   le braccia. E quando ci propose Etčocle
   un giusto accordo, noi lo respingemmo;
   e quindi venne la rovina nostra.
   E poi, lo stolto popolo di Cadmo,
   appena trionfņ, simile al povero,
   che, di colpo arricchito, insolentisce,
   oltraggiņ la giustizia; ed a sua volta
   cadde in rovina. Oh dissennata gente,
   che troppo l'arco tendi, e assai dolori
   poi Giustizia v'infligge, ed agli amici
   negate fede, e sol credete ai fatti!
   E voi, cittą che i vostri guai potreste
   con le parole superare, e invece
   non le parole, ma le stragi usate
   a sciogliere i contrasti! Ora perņ
   ciņ non importa. Come ti salvasti
   narrami prima, e poi ti chiedo il resto.
MESSAGGERO:
   Quando il tumulto della guerra invase
   la cittą, dalle porte ove irrompeva
   l'esercito fuggiasco, uscii da Tebe.
Adrąsto:
   Le salme onde la pugna arse, recate?
MESSAGGERO:
   Sķ, delle sette illustri schiere i duci.
Adrąsto:
   Come? E la turba ov'č degli altri estinti?
MESSAGGERO:
   Del Citeron presso alle valli giacciono.
Adrąsto:
   Da quale parte? E chi scavņ le fosse?
MESSAGGERO:
   Tesčo, dove ombre effonde il Sasso Elčutero.
Adrąsto:
   E dove i non sepolti hai tu lasciati?
MESSAGGERO:
   Presso: ché presso chi s'affretta č ognora.
Adrąsto:
   Penār, dal sangue a raccattarli, i servi?
MESSAGGERO:
   Non attese alcun servo a tal travaglio.
Adrąsto:
   Ebbe cura di ciņ Tesčo medesimo?
MESSAGGERO:
   Con quanto amore, dir lo puņ chi vide.
Adrąsto:
   Dunque le piaghe egli lavņ dei miseri?
MESSAGGERO:
   E i corpi ricoprķ, distese i letti.
Adrąsto:
   Dura bisogna e repugnante fu.
MESSAGGERO:
   Perché? Miserie son comuni agli uomini.
Adrąsto:
   Ahimč! Fossi con loro anch'io caduto!
MESSAGGERO:
   Vano č il tuo lagno; e queste al pianto provochi.
Adrąsto:
   Esse, mi sembra, a me ne son maestre.
   Ma via, la man protendo ora, per fare
   onore ai morti, e i lagrimosi carmi
   d'Averno intono, a salutar gli amici
   onde fui privo, e solo ora li lagrimo.
   Ché questo bene sol non si recupera,
   quando perduto fu: l'anima umana.
   Le ricchezze, c'č via che si ristorino.
CORO:                                  Strofe prima
   Ahimč, come col mal commisto č il bene!
   Pei duci dell'esercito
   duplice fu l'onor della vittoria:
   tutta una gloria č Atene.
   Ma dei figli veder le membra esanimi,
   quanto amaro č per me! Lieta č la vista
   d'un dķ ch'io non pensai dovesse sorgere;
   e insieme il cruccio piś fiero m'attrista.

                                       Antistrofe prima
   Senza nozze serbate ognora, e sole
   ci avesse il tempo, il vecchio
   padre dei giorni, sino a questo termine!
   Che mi giovņ la prole?
   E quale ambascia, se di nozze ai vincoli
   sfuggivo, mi colpia maggior di questa?
   Or lo vedo ben chiaro: i figli perdere,
   č piś d'ogni altra sciagura funesta.
   Ma i corpi gią vedo che giungono
   dei figli defunti. Oh me misera,
   ché non posso morir coi miei figli,
   e con essi discendere all'Ade!
Adrąsto:                               Strofe seconda
   Madri, levate i gemiti,
   piangete quei che spenti
   sotto la terra giacciono: rispondano
   i vostri ai miei lamenti.
CORO:
   O figlio, figlio caro,
   a te si volge, a te che giaci esanime,
   il mio saluto amaro.
Adrąsto:
   Tristo me!
CORIFEA:
   Trista me, quale sciagura!
Adrąsto:
   Ahi, me tapino!
CORIFEA:
   Lagrime spargo!
Adrąsto:
   Patimmo, ahimč...
CORIFEA:
   La doglia d'ogni doglia piś dura.
Adrąsto:
   Non vedete la mia misera sorte,
   o cittadini d'Argo?
CORIFEA:
   Volgere anche su me possono il ciglio
   ché priva io son del figlio.
Adrąsto:                               Antistrofe seconda
   Recate qui le misere
   salme, di stragi rosse.
   Indegni i colpi, indegna fu la causa
   onde la gara mosse.
CORIFEA:
   Fate, fate che appressi
   il mio figlio al mio sen, ché le mie braccia
   lo stringano d'amplessi!
Adrąsto:
   Prendili!
CORIFEA:
   č troppo il duolo che mi preme.
Adrąsto:
   Ahimč!
CORIFEA:
   Non parli dei figli miei?
Adrąsto:
   Uditemi...
CORIFEA:
   D'entrambi la doglia or piangi insieme.
Adrąsto:
   Ché non mi stese morto nella polvere
   lo stuolo dei Cadmči!
CORO:
   Deh, se mai non avessi asceso, o figlio,
   il nuzļal giaciglio!
ASRASTO:                               Epodo
   O madri sventurate,
   questo di mali pelago mirate.
CORO:
   Segnam sui visi dell'unghie le impronte,
   spargiamo polvere sovra la fronte.
Adrąsto:
   Ahimč, ahimč!
   Deh, m'inghiottisse il suolo,
   Deh, la procella mi sperdesse a volo!
   Deh, sopra il capo mio
   scoscendesse di Giove l'ardente folgorio!
CORIFEA:
   O amare di tue figlie
   nozze, o responsi amari
   che Apņlline ti die'.
   L'Erinni ognor vaga di pianto, i lari
   lasciņ d'Edķpo, e si rivolse a te.
(Entra Tesčo)
Tesčo:
   Interrogar, mentre lamenti alzavi
   per le schiere perdute, avrei bramato;
   ma freno posi alle parole; e interrogo
   adesso Adrąsto. Come mai costoro
   tanto per il coraggio insigni furono
   fra i mortali? Tu dillo a questi giovani
   atenļesi, ché tu ben lo sai,
   ché sei facondo. L'ardimento ond'essi
   prender Tebe credean, lo vidi, piś
   che non si dica, fu grande. Una sola
   cosa non chiederņ, per non far ridere
   a le mie spalle: contro chi ciascuno
   d'essi stie' nella pugna, e da che mano
   il colpo s'ebbe che l'uccise. Fatui
   sono tali discorsi, a farli, a intenderli;
   come di chi nella battaglia, quando
   fitte dinanzi a lui volano l'aste,
   dire vi sa precisamente chi
   si comportņ da valoroso. Simili
   particolari non saprei richiederli,
   né se qualcun narrarli ardisse, crederli.
   Chi sta di fronte agl'inimici, appena
   quello che giova a lui potrą distinguere.
Adrąsto:
   Ascolta allor: ché pronunciar m'č caro
   l'elogio che m'affidi; e il vero e il giusto
   m'udrai parlare degli amici miei.
   Vedi costui trafitto da un alato
   impetuoso dardo? č Capančo.
   Molto ricco egli fu; ma non mai gonfio
   di sue ricchezze, né superbo piś
   d'un poverello. Ed aborria chi troppo
   la mensa impingua, e sprezza il viver parco.
   Il ben, soleva dire ei, non consiste
   nell'impinzare l'epa; e il poco basta.
   Ed amico sincero era agli amici
   presenti ed agli assenti, e non ne trovi
   molti, fatti cosķ, senza menzogna.
   Labbro a benignitą pronto; e parola
   ai suoi concittadini, ai suoi famigli
   non diede mai, che poi non la compiesse.
   Or del secondo parlo, Etčocle. Furono
   altre le doti sue. Negli anni giovani
   visse in povero stato, e molti onori
   in Argo riscoteva. Ed oro spesso
   gli offrian gli amici; ed egli, in casa accoglierlo
   non volle mai, ché poi, costretto al giogo
   delle ricchezze, non rendesse schiavi
   i suoi costumi; e non Argo, ma quanti
   fallivano, odļava; e non ha colpa,
   diceva una cittą, per la tristizia
   di chi la regge; e pur n'ha mala fama.
   Ippomedonte č il terzo. Ei, da fanciullo,
   subito rinunciņ con fermo cuore
   delle Muse ai piaceri, al viver molle.
   E pei campi abitando, esercitandosi
   a dura disciplina, e compiacendosi
   d'ogni opera viril, cacciando fiere,
   agitando cavalli, archi tendendo,
   rendeva alla sua patria utile il corpo.
   č d'Atalanta cacciatrice il figlio
   l'altro, Partenopčo, che fu garzone
   bellissimo di membra. Era d'Arcadia;
   ma su l'Inaco venne, ed allevato
   in Argo fu. Qui fu nutrito, e mai,
   come s'addice agli ospiti, non fu
   oggetto d'ombra o di fastidio, mai
   le liti non amņ, che inviso rendono
   piś d'ogni cosa il cittadino e l'ospite.
   Parte facea di nostre schiere, come
   fosse un argivo, e difendea la patria.
   E, se fortuna ci arridea, gioiva,
   nei tristi eventi era crucciato. Molti
   per lui d'amore ardeano, e maschi e femmine:
   solo ei badava a non cadere in fallo.
   Con brevi motti di Tidčo farņ
   un grande elogio. Insigne egli non fu
   per l'eloquenza: la sua gran dottrina
   era nell'armi; e qui molte scoperte
   ingegnose faceva. A Meleagro
   fratello suo cedea per senno; ma
   nell'arte della lancia uguale nome
   s'era formato; ché sottile artefice
   era, ed era lo scudo la sua cétera.
   Cuore vago d'onor; ma la sua mira
   volgeva ai fatti, e non alle parole.
   Or che ho parlato, non meravigliare,
   Tesčo, se questi innanzi a Tebe ardirono
   affrontare la morte. Egregi sensi
   l'esser cresciuto a egregia scuola ispira.
   Chi crebbe a nobili opere, si pčrita
   di mostrarsi codardo: anche il coraggio
   s'insegna: ascolta il pargolo, ed apprende
   quello che ignora; e quanto allor s'apprende,
   poi si mantiene sino ai piś tardi anni.
   Dunque, bene educar conviene i figli.
CORO:
   Il vitale alimento,
   figlio, io t'ho dato, misera,
   in grembo io t'ho portato, io delle doglie
   ho patito il tormento.
   E adesso, l'Ade accoglie
   le mie fatiche, o povera
   me, né mi resta chi sostegno dia
   alla vecchiaia mia.
Tesčo:
   Il figlio d'Oļclčo prode, nei bąratri
   del suolo, vivo ancor gli Dei rapirono
   con la quadriga, e assai d'onor gli fecero.
   D'Edķpo il figlio, Polinķce, dico,
   esaltar lo potrei senza menzogna,
   ch'egli ospite mi fu, pria che partisse
   da Tebe, volontario esule, e ad Argo
   fuggisse. Or, sai che vo' far di costoro?
Adrąsto:
   Sola una cosa io so bene: ubbidirti.
Tesčo:
   Capančo, che colpito fu da Giove...
Adrąsto:
   Vuoi, come sacro, seppellirlo a parte?
Tesčo:
   Appunto. E gli altri tutti in un sol rogo.
Adrąsto:
   Dove porrai questo solingo tumulo?
Tesčo:
   Qui sorgerą, vicino a questo tempio.
Adrąsto:
   Tale fatica ai servi spetterą.
Tesčo:
   Ma questi a noi: s'appressino le salme.
Adrąsto:
   Presso ai figli venite, o madri misere.
Tesčo:
   Non sono, o Adrąsto, i tuoi detti opportuni.
Adrąsto:
   Vuoi che le madri i figli non abbraccino?
Tesčo:
   Sfigurati cosķ? Morte cadrebbero.
Adrąsto:
   Sķ: piaghe e sangue sono amara vista.
Tesčo:
   Perché vuoi dunque la lor doglia accrescere?
Adrąsto:
   Hai vinto. E a voi con pazļenza attendere
   conviene: ché Tesčo bene ha parlato.
   Quando li avrem posti sul rogo, allora
   l'ossa raccoglierete. O miseri uomini,
   perché l'armi impugnate, e gli uni agli altri
   morte infliggete? Or desistete, bastino
   questi travagli, e le cittą reggete
   in pace, e pace abbiano gli altri. Il termine
   di vita č breve, e meglio val trascorrerlo
   senza crucci, affrontarlo agevolmente.
CORO:                                  Strofe prima
   Madre felice piś non sono, figlio
   piś non ho: me tra le madri prolifiche
   Argo piś non addita;
   e Artčmide, parole
   non rivolge alle madri orbe di prole.
   č trista la mia vita,
   come errabonda nuvola, che investa
   di nembi una tempesta.

                                       Antistrofe prima
   Noi, sette madri, demmo vita, o misere,
   a sette figli, quei che celeberrimi
   erano fra gli Argivi.
   E senza figli adesso
   ai tristissimi giorni ultimi appresso.
   Nel numero dei vivi
   gią piś non sono; e dalle genti morte
   m'esclude la mia sorte.

                                       Epodo
   Mi restano le lagrime
   sole: del figlio mio sol nella casa
   restano le memorie:
   la chioma a lutto rasa,
   le libagioni dei defunti, e i cantici
   cui non gradisce Apņlline.
   Surta all'alba fra gli łluli,
   le pieghe del mio manto
   molli sovra il mio sen farņ di pianto.
(Il corteo esce, seguito da Adrąsto. Dei servi alzano la pira
di Capančo accanto al tempio, sotto la rupe)
CORO:
   Le stanze gią vedo che attendono
   Capančo, vedo il tumulo sacro,
   e, fuori del tempio,
   le pire che ai morti innalzņ
   Tesčo. Vedo pure la sposa
   dell'eroe sterminato dal fulmine,
   Evądne, che figlia fu d'Ifi
   sovrano. Perché su la roccia
   che eterea si leva sul tempio,
   salķ? Perché scelse quel tramite?
(Sulla sommitą della rupe appare Evądne, in abiti festivi)
Evądne:                                Strofe
   Che fulgore dal cocchio
   suo diffondea, che raggio,
   Elio quel dķ per l'čtere,
   e Selčne, che il lume nel rapido viaggio
   spingendo, fra le tenebre
   cavalcava, quel dķ che l'imenčo
   Argo intonava, e i fausti
   voti per me, pel celebre
   mio sposo Capančo
   insigne nel fulgor dell'armi bronzee!
   A te, come delira
   Mčnade, dalla mia casa or precipito,
   la fiamma della pira
   cercando, ed una fossa
   dove i dolor' miei cessino,
   dove finir la vita grama io possa.
   Perché, quando si muoia
   coi nostri cari, se tal sorte un Dčmone
   ha segnata per noi, la morte č gioia,
CORIFEA:
   La pira č questa, vedila, che sopra
   le muovi, a Giove sacra, ove il tuo sposo
   giace, abbattuto dal baglior dei folgori.
Evądne:                                Antistrofe
   Io vedo, io vedo il termine
   a cui mi trovo: il passo
   mio la fortuna vigila.
   Ora, per la mia gloria, giś da questo ermo sasso
   balzerņ con un lancio
   giś nella pira; nel baglior del rogo,
   il corpo al dilettissimo
   consorte unendo in cenere
   in un sol luogo,
   scenderņ nelle stanze di Persčfone.
   Fido l'animo mio
   ti sarą piś, nei regni sotterranei.
   O nozze, o luce, addio!
   Deh, simili giacigli
   di giuste nozze, possano
   trovare in Argo i figli!
   D'insolubili nodi
   cosķ confuso il padre a una magnanima
   consorte fu, con aure senza frodi.
CORIFEA:
   Ecco tuo padre, il vecchio Ifi, che appressa
   a udir le tue nuove parole. Ancora
   le ignora; e a udirle, lieto non sarą.
(Entra Ifi, senza accorgersi subito della figliuola)
IFI:
   O sciagurata, e sciagurato me
   vecchio, che giungo, un duplice recando
   lutto dei miei parenti: ché d'Etčocle
   spento dall'armi dei Cadmči, la salma
   in patria voglio ricondurre; e cerco
   la figlia mia, di Capančo la sposa,
   che sparķ d'improvviso, che fuggķ
   via dalla casa: ché morir bramava
   col suo consorte. E ben guardata in casa
   dapprima fu; ma poi che le sventure
   fecero sķ che meno io le badassi,
   fuggķ. Ma se c'č luogo ove trovarla,
   č questo, io penso. Or voi, l'avete vista?
Evądne:
   Lo chiedi a queste? O padre, a mo' d'augello,
   di Capančo sul rogo, ecco, io mi libro
   da questa rupe, con infausto volo.
IFI:
   Quale aura mai, qual tramite, qual causa,
   dalla tua patria a questo suol t'addusse?
Evądne:
   Ira concepiresti, udendo, o padre,
   i miei disegni; e vo' che tu l'ignori.
IFI:
   Devo ignorarli, e son tuo padre? č giusto?
Evądne:
   Farne tu non potresti equo giudizio.
IFI:
   Perché son tanto le tue vesti adorne?
Evądne:
   A gloria aspira questo adornamento.
IFI:
   Non sembri in lutto pel tuo sposo, no!
Evądne:
   Perché sono disposta a nuova impresa.
IFI:
   E alla fossa e alla pira allor t'appressi?
Evądne:
   Sķ, ché la mia vittoria ivi otterrņ.
IFI:
   Chi vincerai? Lo vorrei pur sapere.
Evądne:
   Le donne tutte, quante il sol ne vede.
IFI:
   Nell'opere d'Atčna? O per saggezza?
Evądne:
   Per valor: ch'io morrņ col mio consorte.
IFI:
   Che dici? Quale esprimi orrido enigma?
Evądne:
   Di Capančo mi lancerņ nel rogo.
IFI:
   Figlia, non dir tal motto, innanzi a tanti!
Evądne:
   Questo io vo', che gli Argivi tutti l'odano.
IFI:
   Ma non io patirņ che tu l'effettui.
Evądne:
   Non val: ché sopra me la mano stendere,
   cogliermi non potrai: vedi ch'io gią
   piombo; e non tu, ma io, lo sposo mio,
   ch'arso meco sarą, gioia ne avremo.
(Si precipita)
CORO:
   Orrendo l'atto, ch'hai, donna, ardito!
IFI:
   Figliuole d'Argo, ahimč, sono finito!
CORO:
   Ahi le tue pene sono terribili!
   Lo scempio piś d'ogni altro orrido hai visto.
IFI:
   Trovar non ne potresti uno piś tristo.
CORO:
   Ahimč tapino!
   tu stesso, o vecchio, e la mia patria misera
   partecipaste d'Edipo il destino.
IFI:
   Ahimč, perché non č concesso agli uomini
   esser due volte giovani, e due volte
   vecchi? Se cosa v'č che nelle leggi
   proceda male, noi possiam correggerla
   con riforme novelle; ma correggere
   l'etą, non č concesso. Ove potessimo
   due volte essere giovani, e due vecchi,
   se un uom fallisse, ov'egli avesse duplice
   la vita, riparar potrebbe al fallo.
   Io, cosķ, nel veder gli altri che avevano
   figli, figli bramavo, e mi struggevo
   nel desiderio. Ov'io gią fatto avessi
   prova, che cosa per un padre sia,
   esser privo dei figli, al male d'ora
   non sarei giunto, che al miglior dei figli
   diedi spirito e vita, ed or l'ho perso.
   Ed ora, che potrņ fare, me misero?
   Alla mia casa ritornar? Non veggo
   altro colą che immensa solitudine,
   desolato cordoglio. Oppure ai tetti
   di Capančo? Dolcissimo soggiorno
   eran per me, quando vivea la figlia.
   Ma viva or non č piś, lei che le labbra
   sempre accostava alla mia gota, e il capo
   mi stringea fra le palme. A un vecchio padre
   nulla č piś dolce d'una figlia. L'anime
   dei figli, grandi sono piś; ma dolci
   meno, ed han meno di lusinga. Orsś,
   quanto sia prima, a casa conducetemi,
   rinchiudetemi al buio; e nel digiuno
   il corpo mio quivi io distrugga e spenga.
   Prender l'ossa del figlio, a che mi giova?
   Come t'odio, o vecchiaia ineluttabile,
   come odio quei che prolungare bramano
   la vita, e con pozioni e droghe e incanti
   svļan, per non morir, di sorte il tramite!
   E invece, quando alla lor patria inutili
   sono, morire, andare alla malora
   dovrebbero, e sgombrar la strada ai giovani.
(Parte)

(Rientrano in scena Tesčo, Adrąsto e i figli degli eroi, che
portano ciascuno l'urna con le ceneri del padre)
CORO:
   Ahimč!
   Ecco i lugubri resti, ecco l'ossa
   dei figliuoli defunti. O ministre
   dell'affranta vegliarda, prendeteli!
   Non ha forza ella piś, pel cordoglio
   dei figliuoli. Assai tempo ha vissuto,
   s'č distrutta fra i crucci e le lagrime.
   Qual tormento piś acerbo potresti
   trovar fra i mortali,
   che vedere dei figli la morte?
FANCIULLI:                             Strofe prima
   O madre, o madre misera,
   del genitore io reco il corpo esanime;
   piś grave il peso i crucci miei ne rendono:
   in breve spazio io reco ogni mio bene.
CORO:
   Ahimč, ahimč!
   Figlio, tu rechi lagrime
   alle madri dei miseri!
   Conversi in poca cenere
   i corpi degli eroi rechi a Micene.
FANCIULLI:                             Antistrofe prima
   Non hai, non hai piś figlio.
   Ed io, lungi da te, padre, che il vivere
   mi desti, nella casa deserta, orfano
   viver dovrņ: ché tu, misero, giaci.
CORO:
   Ahimč, ahimč!
   Dove sono gli spasimi
   dei parti, e di mie viscere
   il frutto, e le vigilie,
   e le cure materne, e i dolci baci?
FANCIULLI:                             Strofe seconda
   Vaniti sono, piś non sono, o misero
   padre, vaniti!
CORO:
   Sono in grembo all'čtere,
   sul rogo il fuoco li ha disfatti in cenere,
   verso l'Averno s'affrettano a volo.
FANCIULLI:
   Padre, dei figli tuoi non odi i gemiti?
   Deh, possa un dķ, lo scudo al braccio, accorrere...
CORO:
   A vendicarlo? Deh, fosse, o figliuolo!
FANCIULLI:                             Antistrofe seconda
   Se vuole un Dio, potrą vendetta giungere.
CORO:
   Non č sopito ancora, questo scempio.
   Bastano le sciagure, bastan gli łluli,
   bastano i crucci ond'č il mio cuore afflitto.
FANCIULLI:
   Deh, possa un dķ, sul luccicchķo dell'ąsopo,
   chiuso nell'armi, a capo dei Danąidi...
CORO:
   vendetta far del padre mio trafitto.
FANCIULLI:
   O padre mio, sempre te vede il ciglio...
CORO:
   quando soave ti baciava, o figlio.
FANCIULLI:
   Il caro ammonimento
   della tua voce, lo rapisce il vento.
CORO:
   č doppio il cruccio: ambasci la materna
   anima: e in te sarą la doglia eterna.
FANCIULLI:
   č tanto il peso, ch'io gią vengo meno.
CORO:
   Dammi il cenere, ch'io lo stringa al seno.
FANCIULLI:
   Odo le tue parole
   amarissime, e piango, e il cuor mi duole.
CORO:
   Piś non ti rivedrņ, caro ornamento
   della tua madre: figlio mio, sei spento.
Tesčo:
   Vedete, o Adrąsto e argive donne, i figli
   che nelle mani recano le salme
   dei padri lor, da noi recuperate.
   Dono a voi ne facciamo Atene ed io;
   e voi memori sempre esser dovete,
   del favor che impčtraste, esserne grati,
   e ciņ ch'io dico a voi, ridire ai figli:
   che venerino Atene, e la memoria
   trasmettano del ben che qui trovaste,
   di figlio in figlio. E Giove consapevole
   e tutti i Numi dell'Olimpo sono
   dei benefici onde l'onor qui aveste.
Adrąsto:
   Consci siamo, Tesčo, di tutto il bene
   ch'ebbe da te, quando bisogno piś
   ne avea, l'argiva terra. Eternamente
   grati saremo a te: voi generosi
   foste: e rimeritarvi, obbligo č nostro.
Tesčo:
   Altro ufficio da me v'occorre ancora?
Adrąsto:
   Salute! Atene e tu degni ne siete.
Tesčo:
   Grazie: e l'augurio stesso a te rivolgo.
(Appare Atčna)
Atčna:
   Quello che tu per l'utile d'Atene
   or devi fare, odi, o Tesčo, da Pallade.
   Non consegnar, non cedere quest'ossa
   sķ di leggeri ai figli, che le rechino
   al suolo d'Argo. Dei travagli in cambio
   che tu, che Atene sopportaste, prima
   un giuramento esigi. E Adrąsto deve
   prestarlo; egli č sovrano, e per la terra
   tutta dei Dąnai puņ giurare. E il giuro
   tale sarą: che mai su questa terra
   non porteranno infeste armi gli Argivi;
   e quando altri la invada, impugneranno
   contro esso l'asta. E dove il giuro obliino,
   e contro la cittą muovano, impreca
   la mala fine su la terra argiva.
   E ascolta adesso dove a te conviene
   le vittime sgozzare. Esiste un tripode
   dal bronzeo pie', nella tua casa: un giorno
   Ercole a te lo die', che a nuova impresa
   moveva, poi che Troia ebbe distrutta,
   e t'ingiunse che presso all'ara pķtica
   tu lo ponessi. Taglia qui tre gole
   di tre pecore, e incidi i giuramenti
   del tripode nel grembo; e poi consegnalo,
   ché lo conservi, al Dio signor di Delfo,
   monumento dei giuri, e testimonio
   per gli Ellčni. E la spada onde recise
   avrai le gole, e sparso il sangue, presso
   ai sette roghi degli eroi defunti
   nascondila sotterra. Essa, ove mai
   movano contro Atene, al sol mostrarla,
   terrore in essi infonderą, ben tristo
   ritorno ad essi appresterą. - Ciņ fatto,
   consenti pur che via le salme rechino.
   E questo luogo, ove le salme furono
   purificate nelle fiamme, presso
   il trivio della Dea, su l'Istmo, lascialo
   deserto. A te ciņ dico. E dico ai figli
   degli Argivi: poiché giunti sarete
   a pubertą, per vendicar la morte
   dei padri spenti, a sacco la cittą
   dell'Ismeno porrete. E tu sarai,
   invece di tuo padre, Egļalčo,
   giovin duce alle schiere; e dall'Etolia
   il figlio di Tidčo verrą, che il padre
   chiamar soleva Dļomede. E attendere
   non dovete che il mento a voi s'imbruni,
   ma pria muover le schiere dei Danąidi
   gravi di bronzo contro la turrita
   cittą di Tebe dalle sette porte.
   Feroci come di leoni cuccioli
   gią fatti adulti, contro lor sarete,
   espugnerete Tebe: č tale il fato.
   Detti sarete tra gli Ellčni epķgoni,
   vi canteranno i vati: una tal gesta
   compiuta avrete col favor dei Numi.
Tesčo:
   Signora Atčna, ai tuoi detti obbedisco.
   Sopra il giusto sentier, perché non erri,
   tu mi dirigi. Stringerņ costui
   coi giuri; e tu su la via dritta guidami.
   Ché in Atene, se tu ci sei benevola,
   potremo, d'ora in poi, sicuri vivere.
CORO:
   Adrąsto, or moviamo, prestiamo
   il giuro a quest'uomo e ad Atene:
   per noi tali gesta compierono
   che a noi venerarli conviene.
(Escono tutti)



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