FETICISMO DELLE MERCI

Isaak Rubin, nel 1928, disse che “la teoria del feticismo della merce di Marx non è mai stata valutata adeguatamente nell'ambito dell'economia marxista”(Saggi sulla teoria del valore di Marx, ed. Feltrinelli, Milano 1976, p.5). Ebbene, da allora non sono stati fatti molti progressi. Il motivo è semplice: è impossibile formulare un'ipotesi alternativa al sistema capitalistico senza recuperare il meglio della società agricola feudale.

Marx si rese conto che un valore di scambio staccato dal suo valore d'uso è il sintomo di una società divisa in classi antagonistiche. E si rese anche conto che se avesse puntato la sua attenzione sul recupero, mutatis mutandis, del valore d'uso, non sarebbe uscito dall'empasse in cui era finito il socialismo utopistico, il quale s'illudeva di poter conservare, nel particolare, il valore d'uso, mentre a livello di società generale dominava quello di scambio.

Tuttavia, piuttosto che uscire dall'ambito dell'economia politica ed entrare in quello dell'organizzazione politico-rivoluzionaria del passaggio al socialismo, Marx ha preferito analizzare in profondità i meccanismi del valore di scambio e le sue interne contraddizioni. Questa scelta di campo lo ha portato a credere, da un lato, che nel sistema capitalistico esistono delle leggi obiettive che lo portano al crollo (cosa insostenibile sul piano logico e che non si è verificata storicamente); e, dall'altro, che, in ultima istanza, il valore di scambio non deve sottostare a quello d'uso, ma solo a una programmazione razionale di tutte le risorse, resa possibile dalla socializzazione dei mezzi produttivi.

Il feticismo delle merci, in tal senso, è sì una conseguenza del primato del valore di scambio, ma se questo primato esistesse in una società socialista -sembra dire Marx- non si avrebbe alcun feticismo. A riprova di ciò si deve sottolineare che quando Marx parla di feticismo delle merci, i protagonisti in gioco sono sempre dei produttori privati indipendenti, i quali sono, a loro volta, reciprocamente consumatori del prodotto altrui. Il feticismo è sì una conseguenza dell'indipendenza dei produttori privati, ma in ciò Marx non considera la contemporanea espropriazione del produttore diretto dalla proprietà dei mezzi produttivi. Questo aspetto verrà analizzato in un secondo momento.

Il primato del valore di scambio, in sostanza, va superato semplicemente perché esso presuppone un tipo di rapporto sociale alienato (che trova un riflesso nel feticismo); non va superato recuperando, senza il servaggio, il primato del valore d'uso della società agricola feudale. Marx era così contrario a questa società che preferì piuttosto pensare a un socialismo quale ripetizione “socializzata” del modo di vivere “individualistico” di Robinson.

L'economista sovietico Rubin era convinto che il capitolo sulla merce non lo si poteva comprendere se prima non si leggeva l'ultimo § dedicato al feticismo. Solo in questo § infatti si elabora una soluzione alternativa al capitalismo. Tuttavia Rubin non capì che Marx non potè elaborare un'alternativa al valore di scambio proprio perché rifiutava il primato del valore d'uso. Il capitolo sul feticismo, in tal senso, offre un'alternativa al capitalismo, ma, conservando i pregiudizi nei confronti del mondo contadino, finisce anche coll'aprire le porte alla trasformazione del feticismo da economico a politico-ideologico.

La possibilità di conservare il primato del valore di scambio in una società socialista, in virtù della pianificazione generale (statale) di tutte le risorse, può dipendere, in effetti, soltanto dal consenso che le masse manifestano nei confronti di un ideale politico. In tal modo però si finisce col sostituire al feticismo delle merci quello del “piano”.

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“Il carattere mistico della merce [ovvero la sua natura “sensibilmente soprasensibile”] -dice Marx- non deriva dal suo valore d'uso”(p.70). Finché una merce soddisfa dei bisogni umani o è semplicemente il prodotto di un lavoro umano, non c'è nessun mistero da svelare.

L'enigma “non deriva neanche dal contenuto delle determinazioni di valore”(ib.), cioè “sostanza” e “grandezza” di valore, poiché da sempre gli uomini si sono interessati a distinguere la quantità di lavoro occorsa per produrre una merce dalla sua qualità.

Il prodotto di lavoro diventa “una cosa intricatissima” quando assume “forma di merce”. Per quale ragione? “Il segreto della forma di una merce -spiega Marx- sta nel fatto che tale forma ridà agli uomini [dopo avergliela tolta], come uno specchio, l'immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose [cioè nascondendo il lato antagonistico, “innaturale”, di quelle proprietà: quel lato che l'economia politica classica non è mai riuscita a individuare], e perciò ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esiste al di fuori dei produttori”, cioè al quale essi sono soggetti (p.71). Nell'economia mercantile è “il processo di produzione che regola gli uomini”(p.82).

Ma perché avviene questo “qui pro quo”? Perché da un lato i produttori eseguono dei lavori privati “gli uni indipendentemente dagli altri”(p.72); dall'altro “solo tramite lo scambio dei prodotti del loro lavoro stabiliscono un contatto sociale”(ib.). In altre parole, le relazioni sociali dei loro lavori privati non sono “rapporti direttamente sociali tra persone nei loro stessi lavori, ma rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose”(ib.).

Là dove gli uomini credono di avere, tra loro, un rapporto sociale, in realtà hanno solo un rapporto “reificato”, nel senso che il rapporto sociale è mediato anzitutto dalla compravendita di una merce; viceversa, là dove credono di avere un rapporto naturale con le cose, in realtà hanno un rapporto “artificiale”, poiché le merci, in un certo senso, si “personificano”, permettendo agli uomini d'incontrarsi solo in una determinata maniera: quella fra produttore e consumatore. Questo tipo di relazione, essendo l'unico dominante a livello sociale, è in grado d'influenzare ogni aspetto della vita pubblica e privata, sociale e personale, anche gli aspetti non direttamente legati al luogo fisico del mercato o del negozio.

In sintesi dunque la merce nasce da un rapporto sociale alienato ed essa stessa, a sua volta, riproduce questo rapporto. La merce esiste anzitutto non per l'uso ma per essere venduta e comprata, esiste non per le sue intrinseche qualità, che aiutano a rendere migliore l'esistenza, ma per la quantità di denaro che permette di guadagnare. Essa domina incontrastata, nella società mercantile, non solo perché è frutto di una separazione tra produttore e proprietà dei mezzi lavorativi, ma anche perché il consumatore s'illude, comprandola, d'aver acquistato un bene utile, indispensabile.

Il rapporto sociale che trasforma un oggetto d'uso in merce è già di per sé un rapporto alienato, diviso, antagonistico. La merce è un modo per giustificare la propria alienazione. L'illusione del produttore alienato è quella di superare la propria alienazione nella misura in cui produce quante più merci può. L'illusione sta nel credere che un processo meramente economico e quantitativo possa superare una forma di alienazione sociale di tipo qualitativo (cioè ontologica).

Marx constata che questa illusione si verifica anche nel mondo religioso, allorché “i prodotti della mente umana [ad es. gli dèi] sembrano essere dotati di una propria vita”(p.71). La merce dà l'illusione di un rapporto sociale diretto tra gli uomini, così come i sacramenti danno l'illusione di un rapporto mistico, non meno diretto, tra gli uomini e la divinità. Essendo i rapporti sociali della borghesia basati sull'antagonismo di classe (in una maniera ancora più accentuata che nel Medioevo, poiché ora l'accumulazione e il profitto non conoscono limiti naturali), l'alienazione viene semplicemente trasferita dal rapporto dell'uomo col “cielo” al suo rapporto con la “terra”. La borghesia non ha fatto che secolarizzare una mentalità e un comportamento che nel Medioevo erano religiosi.

Tuttavia Marx non arriva a concludere che il feticismo delle merci sia la conseguenza di un certo modo di vivere l'ideologia religiosa. Nella sua analisi, al massimo, i due “feticismi” procedono parallelamente, influenzandosi a vicenda, ma la ragione ultima di quello religioso sta sempre in quello economico. E' il cristianesimo che “corrisponde” al capitalismo. A tale proposito viene detto in una nota a p.85: “il Medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. Al contrario, la maniera di guadagnare la vita rende chiaro perché la parte più importante era rappresentata là dalla politica, qua dal cattolicesimo”. Col che Marx considera la sovrastruttura in un rapporto solo passivo, di mero rispecchiamento, rispetto alla struttura correlata, e si è lasciato così sfuggire l'occasione di conoscere il modo come questa sia influenzata da quella.

D'altra parte Marx non va a cercare il motivo del feticismo nella sfera dell'ideologia ma in quella dell'economia: “gli uomini equiparano gli uni con gli altri i loro diversi lavori come lavoro umano, equiparando nello scambio gli uni con gli altri, come valori, i loro eterogenei prodotti. Ignorano di fare questo, ma lo fanno”(p.73).

Detto altrimenti: il feticismo dipende dal fatto che l'uguaglianza dei lavori e quindi dei produttori viene fatta risalire, magicamente, all'uguaglianza delle merci sul mercato. E tale uguaglianza, a sua volta, parte dal presupposto che i lavori tra loro siano socialmente uguali, in quanto tutti riconducibili all'astratto lavoro umano (quello che l'economia classica non riuscì a capire).

L'illusione quindi si pone a un duplice livello: da un lato si deduce l'uguaglianza sociale dall'equivalenza delle merci sul mercato; dall'altro si deduce che l'indipendenza dei produttori privati, ovvero la loro uguaglianza, possa riflettersi nell'equivalenza delle merci. La “socializzazione” del lavoro non si verifica “a monte”, cioè sul luogo produttivo, che resta individuale, ma “a valle”, cioè sul mercato, e si verifica solo in rapporto alla compravendita delle merci.

Nel capitalismo l'oggettività di valore socialmente uguale dei prodotti avviene solo nello scambio, senza che vi sia necessità -come nel valore d'uso- di paragonare, fra loro, tempo di lavoro, dispendio d'energia psico-fisica e senso sociale dell'uso. Una cosa ha valore non perché anzitutto serve alla propria “sussistenza”, ma se è scambiabile con altre cose, cioè se può essere acquistata sul mercato, se di essa esiste un equivalente in denaro. Gli altri significati della merce sono conseguenti a questo.

L'uguaglianza dei produttori -come si può notare- non è di tipo sociale ma giuridico. Il produttore “finge” di sentirsi uguale al consumatore, il proprietario dei mezzi produttivi “finge” di sentirsi uguale al lavoratore, semplicemente per indurlo ad acquistare sul mercato ciò che permette a tale uguaglianza formale di riprodursi. Nel momento in cui “acquista”, il consumatore, cioè il lavoratore senza proprietà, avverte, per un attimo, che la merce lo rende uguale al produttore: è questa l'illusione dell'uguaglianza sociale che crea il feticismo delle merci.

Naturalmente sarebbe impossibile per un produttore realizzare ingenti profitti senza dimostrare che la merce serve a qualcosa. Il problema tuttavia è un altro. Se il produttore ha la facoltà d'imporsi sul mercato, egli ha anche la capacità d'indurre il consumatore a considerare “utile” (anche se veramente utile non è) una determinata merce. Il valore d'uso infatti non è più determinato da un rapporto sociale a misura d'uomo, in cui i soggetti si controllano a vicenda e sanno in anticipo quello di cui hanno bisogno, ma dalla disgregazione di questo rapporto.

Per cui il vero valore d'uso, sotto il capitalismo, non esiste più, né potrebbe esistere, essendo tutto assorbito nel valore di scambio. Un valore d'uso (minimo) può esistere quando il capitalismo è emergente, quando esso cioè ha bisogno di spazzare via le forme sociali pre-capitalistiche con la forza qualitativa e quantitativa delle proprie merci. Ma appena il capitalismo s'è imposto su queste forme il valore d'uso tenderà progressivamente a scemare: le merci saranno sempre meno valide sul piano qualitativo, proprio perché l'esigenza sarà quella di venderne il più possibile. La qualità sussiste quando permane la concorrenza tra i monopoli di uno stesso settore, ma anche qui intervengono facilmente altri fattori (tecnologici soprattutto) per rendere precaria la qualità dei prodotti. Le merci non sono fatte per durare ma per deperire ed essere riacquistate.

Dunque un oggetto è utile nella misura in cui è scambiabile contro il denaro, vendibile sul mercato. In teoria è il mercato che stabilisce se una cosa è utile o no. In pratica sono i capitalisti che si servono del mercato solo come un indicatore di massima e che ritengono di poterlo strumentalizzare come meglio credono (ad es. attraverso la pubblicità). L'utilità è un sofisma, un pretesto per accumulare profitti e capitali privatamente. Nel mercato infatti non agiscono persone socialmente equivalenti, ma produttori di merci e meri consumatori. Se la produzione resta in mano a singoli privati, e non è soggetta al controllo popolare della comunità locale, i consumatori non potranno che subire forti discriminazioni.

Nello scambio si ha solo l'illusione dell'equivalenza dei lavori, delle merci, dei soggetti che vendono e comprano. Il capitalismo ha preteso di eguagliare tutto allo scopo di subordinare la qualità alla quantità, la diversità all'uniformità, l'utilità all'effimero... I rapporti sociali borghesi sono, in definitiva, dei rapporti matematici fra grandezze ritenute, a torto, omogenee.

Il borghese non vuole determinare il valore di un oggetto sulla base delle caratteristiche del rapporto sociale ch'egli ha rigettato. Egli vuole realizzare sul mercato l'equivalenza delle merci per togliere al lavoro pre-borghese la sua pretesa alternatività. Ma così facendo, non si riesce più a determinare un valore oggettivo delle cose, un valore cioè basato su fattori o elementi oggettivi (come il tempo di lavoro, il dispendio di energie psico-fisiche, il senso sociale dell'uso). Le merci mutano continuamente di valore nel mercato, sfuggendo al controllo non solo dei consumatori ma degli stessi produttori. Un capo firmato, equivalente, nella sostanza, a un altro non firmato, costa dieci volte di più. Un capo firmato, acquistato l'anno dopo in cui è stato prodotto, costa cinque volte di meno. Un prodotto reclamizzato costa sempre di più di un prodotto equivalente, o anche superiore, non reclamizzato.

Ovviamente Marx, nel momento in cui scriveva il Capitale, non poteva ancora sapere che il monopolio tende a superare i limiti della concorrenza, anche se aveva intuito che la concorrenza era destinata ad essere superata. Egli in realtà avrebbe voluto che dalla intrinseca contraddizione della concorrenza si sviluppasse la coscienza proletaria della necessità di una rivoluzione politica. Invece nascerà la coscienza borghese della necessità del monopolio (cui lo stesso Capitale, indirettamente, contribuirà), cioè la necessità di sottomettere la concorrenza a delle regole di mercato. Come noto, questo monopolio, dopo la IIa guerra mondiale, si avvarrà anche del sostegno statale. Oggi infatti si parla di capitalismo monopolistico di Stato.

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In ogni caso questo modo d'impostare l'attività produttiva è tipico solo della società mercantile, non essendo riscontrabile in alcun'altra formazione sociale, poiché, anche se altre società hanno conosciuto la trasformazione del prodotto in merce, mai però l'hanno considerato come parte fondamentale della vita sociale: il rapporto di schiavitù o di servaggio (cioè di dipendenza personale) era sicuramente più importante di qualunque altro prodotto naturale o manufatto.

A tale proposito Marx delinea, per sommi capi, le caratteristiche di altre tre formazioni: primitiva e medievale, relativamente al passato, e socialista, relativamente al futuro.

Sulla formazione sociale primitiva -che qui Marx s'immagina sulla scia dell'esperienza romanzata di Robinson Crusoe- il giudizio è nettamente favorevole: “tutti i rapporti tra Robinson e gli oggetti che formano la ricchezza da lui stesso creata sono qui semplici e chiari...vi sono racchiuse tutte le fondamentali determinazioni del valore”(p.77).

Sembrerebbe che Marx continui qui a considerare l'individualismo del modo di produzione primitivo col metro di misura della società borghese, ripetendo, in pratica, l'errore di Rousseau, se non si fosse smentiti da una nota acclusa nella seconda edizione del Capitale, che riporterà un passo di Per la critica dell'economia politica, ove Marx dirà che “la forma della proprietà comune [naturale e spontanea] è la forma originaria” dalla cui dissoluzione sono nate le diverse forme di proprietà privata.

Esiste tuttavia un paradosso. Fintantoché si tratta di parlare dell'individuo singolo (alla Robinson) -in riferimento al comunismo primitivo-, Marx ha sempre parole di apprezzamento. Allorché invece sono in gioco “organismi sociali di produzione”, il giudizio si fa più critico, non tanto in rapporto a una presunta superiorità del sistema capitalistico, ché, anzi, quegli organismi -dice Marx- “sono di gran lunga più semplici e più chiari”(p.80), appunto come dovrebbero essere i rapporti in cui l'uomo controlla la produzione, quanto piuttosto in rapporto alla futura società socialista, che, nella mente di Marx, dovrà essere qualcosa di assolutamente inedito sul piano storico.

Quegli “antichi organismi sociali di produzione”, infatti, si basavano “o sull'immaturità dell'uomo individuale, che ancora non ha staccato da sé il cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini” [per cui “Robinson” rappresenta l'unica vera alternativa al comunismo primitivo], oppure si basavano “su diretti rapporti tra dispotismo e schiavitù”(ib.), come appunto nello schiavismo o nel feudalesimo, la diversità dei quali, per Marx, è alquanto relativa.

In sostanza, avendo attribuito un'eccessiva importanza al ruolo dell'economia, ai fini dell'emancipazione umana, Marx si sente qui indotto ad affermare che il comunismo primitivo -che per il momento egli ancora non distingue dal modo di produzione asiatico- era arretrato a causa del “basso livello di sviluppo delle forze produttive del lavoro”(ib.); ciò che -secondo Marx- rendeva i rapporti sociali e naturali “primitivi e chiusi nei limiti del processo materiale di generazione della vita”(ib.). Al punto che l'uomo primitivo, non molto diverso dall'animale, cominciò a definirsi come “uomo”, per Marx, nel momento stesso in cui sviluppò la sua individualità.

Nelle Forme economiche precapitalistiche verrà detto che nella comunità primitiva c'era sì “trasparenza”, ma solo in quanto “ingenuamente” si credeva che certi rapporti di parentela e certe forme di organizzazione sociale fossero di origine “naturale” o addirittura “divina”, e non inerenti a un modo particolare di produzione.

Per quanto riguarda il “tetro” Medioevo, il giudizio è più severo che nei confronti di Robinson. “Qui, al posto dell'uomo indipendente, vediamo che tutti sono dipendenti”(p.77). Ciononostante, Marx riconosce al feudalesimo l'impossibilità di creare il fenomeno del feticismo delle merci, in quanto “lavori e prodotti non debbono prendere una fantasiosa figurazione diversa dalla loro realtà: si riducono nel meccanismo sociale a servizi e prestazioni in natura”(ib.).

In effetti, nel feudalesimo l'alienazione non era avvertita nelle cose che si usavano (per quanto la rendita feudale costituisse, per il contadino, una continua fonte di espropriazione). L'alienazione era dovuta al fatto che l'ideologia dominante permetteva di credere possibile il benessere solo “nel regno dei cieli”. A parte questo però, la contraddizione del servaggio -lo stesso Marx lo lascia qui intendere, forse anche senza volerlo- risultava meno ipocrita a confronto di quella del lavoro salariato. Non c'era l'illusione della “libertà personale”.

Purtroppo Marx ha sempre escluso il carattere di “vera socialità” nell'ambito produttivo medievale. Il produttore borghese -nell'analisi del Capitale- ha interesse a emanciparsi non tanto dalla vita sociale del mondo agricolo, quanto piuttosto dalla dipendenza personale dei rapporti sociali. Nella società feudale non esiste -secondo Marx- forma “sociale” del lavoro, ma solo forma “naturale”. Il lavoro quindi non può essere “generalizzato”, come nell'economia mercantile, e i suoi prodotti hanno solo un valore d'uso.

I diversi lavori che danno origine ai prodotti dell'agricoltura, dell'allevamento, della filatura ecc. al massimo sono “funzioni sociali” di una famiglia patriarcale, al cui interno si ha una divisione del lavoro naturale e spontanea, basata ad es. sulle differenze di sesso e di età. Marx non vede la comunità di villaggio aldilà della singola famiglia patriarcale.

Poste le cose in questi termini, uno storico non sarebbe assolutamente in grado di spiegare la presenza del feticismo religioso nella società feudale. E sarebbe altresì costretto ad ammettere che lo sfruttamento del lavoro era nel Medioevo accettato come un fenomeno “naturale”. Per Marx, infatti, la società feudale era statica, e i soggetti delle semplici “maschere” che recitavano la loro parte (tradizionale) in un “teatro”. Egli non trae nessuna conseguenza rilevante dalla considerazione, pur giusta, che “i rapporti sociali tra le persone nei loro lavori si manifestano comunque [nel Medioevo] come loro rapporti personali”(p.78).

Ecco perché Marx non è riuscito a cogliere l'importanza del fatto che nello scambio sul mercato il contadino non aveva la pretesa di realizzare un rapporto sociale che ovviasse all'alienazione della vita lavorativa. Lo scambio era una conseguenza naturale del lavoro agricolo (non particolarmente significativa ai fini dell'attività produttiva e comunque non obbligata). Nel contadino la “realizzazione di sé” non dipendeva dallo scambio. Egli non aveva la pretesa (o l'illusione) di poter costruire nel mercato quanto non riusciva a vivere nel lavoro agricolo.

Questa pretesa, semmai, l'aveva il borghese, che in un certo senso rappresenta l'alienazione del contadino che vuol trovare non nella lotta di classe, ma in un'attività economica redditizia (priva di eticità) una forma di compensazione individuale. Già la separazione professionale dell'artigiano dal contadino rifletteva questa forma di revanche individuale. L'artigiano nasce come colui che in nome della specializzazione di una mansione tradizionale ritiene di potersi emancipare economicamente da quella professionalità onnilaterale o polivalente del contadino che non garantiva un tenore di vita sufficientemente agiato. Tuttavia, tale emancipazione non comportò affatto la transizione al capitalismo, poiché la realtà sociale dominante continuava a restare quella della comunità agricola autarchica.

Se non ci fosse stato il servaggio, la forma naturale del lavoro nel Medioevo sarebbe stata una forma sociale libera, molto più libera di qualunque altra formazione sociale. L'uomo, il lavoratore, il cittadino si sarebbe sentito valorizzato per il lavoro che faceva, senza aver bisogno di ritagliarsi uno spazio di tempo per sé, lottando con tutte le sue forze per sentirsi emancipato.

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L'ultima formazione sociale che Marx descrive, supponendola, è quella socialista, ovvero “un'associazione di uomini liberi [non individualisti né forzatamente dipendenti] che lavorino con mezzi di produzione comuni e che impieghino con coscienza le loro molte forze lavorative individuali come un'unica forza lavorativa sociale. Qui si ripetono tutte le particolarità del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente”(p.79).

Marx non s'accorge d'ipotizzare una cosa che prima della nascita dello schiavismo, era sempre esistita. Egli è convinto di aver trovato, per la prima volta, il passepartout per superare l'ostacolo dell'individualismo borghese, senza dover ricadere nel collettivismo forzato del Medioevo. Ed è convinto di questo semplicemente perché non sa di aver guardato le formazioni sociali pre-capitalistiche con un pregiudizio che gli derivava dall'ideologia individualistica borghese.

Occorre senza dubbio riconoscere a Marx lo sforzo di aver voluto superare ad ogni costo tale ideologia, proponendo come alternativa l'idea di un collettivismo libero, in cui la distribuzione del tempo di lavoro, “fatta socialmente secondo un programma, regola l'esatta proporzione delle diverse funzioni lavorative con i diversi bisogni”(ib.).

Tuttavia anche su questo aspetto c'è qualcosa che non convince. L'idea che “il tempo di lavoro sia preso contemporaneamente come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro comune, e perciò anche alla porzione del prodotto comune che può essere consumata individualmente”(ib.) - è un'idea che potrebbe essere accettata solo in una fase molto transitoria.

In effetti, il tempo di lavoro, in una comunità socialista, non può più essere misurato sulla base delle capacità produttive del singolo, altrimenti si finirà col privilegiare, nella distribuzione dei prodotti, quelli che saranno stati dotati dalla natura di maggiori capacità psico-fisiche o intellettuali.

In realtà, ciò che più deve contare, in una comunità socialista, è la ricerca del benessere collettivo, che non significa anzitutto l'uguaglianza delle condizioni sociali, quanto che nella ricerca del benessere individuale tutti abbiano la possibilità di raggiungere il proprio. Se s'impone a priori l'uguaglianza sociale, si mortifica la libertà della ricerca individuale, ma se si vuole premiare questa libertà, senza tener conto delle difficoltà altrui, si finirà col distruggere l'idea stessa di una uguaglianza nella diversità.

Usare il tempo di lavoro individuale per decidere la distribuzione dei prodotti non è quindi un criterio particolarmente democratico per garantire il benessere di tutta la collettività. Gli uomini devono poter rinunciare spontaneamente a una parte dei loro prodotti, se questo può servire a salvaguardare un interesse collettivo. Naturalmente questo è possibile solo all'interno di una comunità i cui componenti si conoscano gli uni gli altri, e i risultati dei sacrifici siano tangibili nel breve periodo.

Il motivo per cui l'economia politica classica non era riuscita a comprendere la duplicità del lavoro dipendeva anche dal fatto che per la borghesia l'indipendenza dei produttori privati garantiva un'uguaglianza sociale reale, valida per tutti. Essa non avrebbe mai accettato l'idea che tale uguaglianza si fondava, in realtà, sullo sfruttamento di chi non possedeva mezzi produttivi. Anzi, essa era convinta che proprio quella forma di uguaglianza avrebbe permesso anche all'operaio salariato di diventare un proprietario.

Marx, in tal senso, non ha fatto altro che dimostrare il carattere assolutamente “formale” dell'uguaglianza borghese, che si pone anzitutto non a un livello sociale ma a un livello giuridico. L'uguaglianza giuridica non è un riflesso di quella sociale ma la sua negazione. La proprietà privata infatti può garantire la libertà sociale solo se è di tutti. Se non si parte da questo presupposto -che va realizzato praticamente- si finisce per concentrare la proprietà nelle mani di poche persone.

Marx ha detto che l'economia classica operava sì una distinzione tra valore d'uso e valore di scambio, ma solo perché nel primo caso considerava il lavoro dal punto di vista qualitativo e nel secondo dal punto di vista quantitativo. Essa cioè “non teneva presente che la distinzione dei lavori semplicemente quantitativa presuppone la loro unità qualitativa, cioè la loro uguaglianza, e quindi la loro riduzione ad astratto lavoro umano”(nota a p.81).

Naturalmente se la borghesia fosse arrivata ad accettare l'idea di un astratto lavoro umano, avrebbe dovuto negarsi come classe che sfrutta il lavoro altrui. Se è vero infatti -come dice Marx- che “l'uguaglianza di lavori del tutto diversi può esistere solo quando non si tenga conto della loro effettiva disuguaglianza”(p.72), è anche vero che tale principio la borghesia non è mai riuscita a realizzarlo compiutamente, poiché, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto scomparire come “classe” specifica.

Nel capitalismo non si tiene conto della diversità dei lavori perché in tal modo si può meglio affermare la superiorità di un lavoro su un altro. L'equivalenza delle merci è un sofisma che permette al produttore più forte d'imporsi su quello più debole. L'uguaglianza astratta dei lavori per la borghesia è un modo subdolo per imporre il dominio della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi per riaffermare la disuguaglianza dei lavori. Il lavoro astratto dalla borghesia viene accettato solo nello scambio perché di fatto viene negato nella produzione. Solo il proletariato, che non è una classe particolare, potrà accettare consapevolmente il lavoro astratto nello scambio dopo averlo affermato nella produzione. L'equivalenza delle merci potrà effettivamente esistere soltanto quando la società considererà uguali i diversi lavori individuali, cioè ugualmente importanti ai fini del benessere collettivo.

Il concetto di “lavoro astratto”, in questo senso, appare come un'arma a doppio taglio. Nell'ambito del socialismo si potrà non tener conto della diversità dei lavori individuali solo quando esisterà già affermato il principio dell'uguaglianza sociale, o se comunque esisterà una tensione collettiva verso il bene comune. Ma questo implica che nella società l'ideale sia molto forte.

L'altro aspetto che del marxismo qui non convince è più noto e il leninismo l'ha già superato. Quello secondo cui per costruire il socialismo democratico “è necessario un fondamento materiale della società, cioè un insieme di condizioni materiali d'esistenza che sono, a loro volta, l'originario prodotto naturale della storia di uno svolgimento lungo e doloroso”(pp. 80-1).

L'importanza attribuita, nel processo storico di emancipazione umana, alla struttura economica è stata, nei classici del marxismo, inversamente proporzionale alla sottovalutazione dell'importanza della sovrastruttura culturale. E' stato appunto il leninismo a dimostrare che il socialismo può essere costruito là dove se ne avverte il bisogno, anche perché, mentre il capitalismo si sviluppa, nessuno sarebbe in grado di fissare un limite massimo a tale sviluppo, il quale, tra l'altro, non può mai corrispondere, ipso facto, a una particolare “crisi”, poiché a questa, di regola, segue una ripresa della produzione.

Peraltro, la formazione delle basi materiali non garantisce di per sé una possibilità più favorevole alla transizione socialista, anche perché, mentre si formano queste basi, l'ideologia borghese penetra nelle coscienze dei lavoratori e le “corrompe”. Ecco perché la coscienza proletaria non ha bisogno di attendere “uno svolgimento lungo e doloroso” della propria soggezione al capitale, per organizzare il rovesciamento del sistema. E' stata proprio la storia del movimento operaio a dimostrare che quanto più la coscienza proletaria tarda a costruire il socialismo, tanto più le sarà difficile farlo.

Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/


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