LA FILOSOFIA INDUISTA

A cura di Ernesto Riva

Caratteristiche generali del pensiero induista

Il pensiero filosofico indiano mostra una ricchezza, una sottigliezza e una varietà tali che non ha nulla da invidiare al pensiero occidentale. L'aspetto più importante del pensiero filosofico indiano è il suo carattere pratico. Fin dal primo inizio, 4000 anni prima di Cristo, le speculazioni dei saggi indiani erano rivolte alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita. La loro filosofia nasce dai loro tentativi di rendere migliore la vita. Dalla vita pratica veniva l'esperienza delle forme di dolore e sofferenza più comuni - malattia, povertà, fame, morte. Agiva poi l'innata curiosità umana di comprensione e conoscenza. La comprensione e la conoscenza, frutto della curiosità speculativa, furono utilizzate nel tentativo di sconfiggere la sofferenza. In che modo? La risposta dell'India fu quella di mettere in primo piano il controllo dei desideri. Ne risulta che i filosofi indiani tendono ad insistere sull'auto-disciplina e sull'auto-controllo come pre-requisiti per raggiungere una vita felice. Questo bisogno di regolare e controllare i desideri annette un'importanza fondamentale alla conoscenza di sé. La stessa parola che indica la filosofia, è il termine darshana, che in realtà significa visione, nel senso di ciò che si riesce a vedere dopo che si è indagata la realtà suprema. Naturalmente è possibile che una visione contenga degli errori e le cose possono non essere viste come sono in effetti. Di conseguenza, il filosofo deve giustificare la sua visione fornendo le prove della sua veridicità. Ebbene, i filosofi indiani hanno sempre insistito che la pratica è la vera prova della verità. Le visioni filosofiche devono essere messe in pratica e e la vita deve essere vissuta in conformità con gli ideali di quella particolare concezione. La qualità della vita che è vissuta in conformità con questi ideali costituisce la prova finale di qualsiasi concezione. Migliore diventa la vita, più prossima alla verità totale è la visione. La visione che rende possibile una vita liberata dalla sofferenza, è giustamente chiamata una vera filosofia. Per cui non ha senso, nel pensiero indiano, dire ad es. "Buona in teoria,ma non in pratica". Buona in teoria, significa, necessariamente, per il pensiero indiano, anche buona in pratica. Se una teoria non può essere messa in pratica in essa c'è qualcosa di sbagliato. L'identificazione della via verso la vita felice con la visione della vita felice stessa, in India, è il fattore di integrazione tra la filosofia e la religione. Filosofia e religione non sono considerate due attività separate. L'insistenza indiana sulla pratica come banco di prova della verità filosofica ebbe anche un altro effetto, quello di porre l'accento sull'approccio introspettivo. Per vincere la sofferenza il filosofo deve guardare dentro se stesso, nella propria vita, e valutare ciò che vi andava accadendo. Era necessario osservarne i cambiamenti e darne una valutazione affinché l'individuo potesse proseguire nella propria auto-analisi. In filosofia la verità dipende dal soggetto umano, e l'esperienza di un altro può essere conosciuta soltanto come un oggetto. Di conseguenza non si può rifiutare l'esperienza altrui come insoddisfacente o inadeguata. Il riconoscimento di ciò ha portato ad un atteggiamento tollerante e sintetico che viene comunemente espresso dicendo che, sebbene non ci possa essere una visione, in se stessa, assolutamente vera e completa, nondimeno ogni visione contiene almeno dei barlumi di verità, e tenendo conto dei punti di vista e dell'esperienza delle varie visioni, si arriva ad ottenere la verità assoluta ed una visione totale.

Oltre a questi aspetti che sono frutto del suo orientamento pratico, nel pensiero indiano c'è una diffusa tendenza a presupporre una giustizia morale universale. Il mondo è visto come una grande rappresentazione morale governata dalla giustizia. Qualsiasi cosa, buona o cattiva o indifferente, è guadagnata e meritata. L'effetto di questo atteggiamento è quello di rendere l'uomo stesso direttamente responsabile della sua condizione umana. In quanto individuo, è responsabile di ciò che è e di quello che diventa. Ne pensiero filosofico indiano c'è anche un consenso piuttosto esteso nei riguardi del non-attaccamento. La sofferenza proviene dall'attaccarsi a ciò che non si ha, o anche a ciò che non si può avere. Così il non-attaccamento è riconosciuto come il mezzo essenziale per la realizzazione della vita felice.

L'induismo in generale

Nell'Induismo l'intuizione fondamentale è che la realtà è Una. Il mondo, l'uomo, gli dèi, le cose che sono state, sono e saranno. Tutto questo è l'unica e medesima Realtà: "Tutto è Brahman" (Chandogya Upanisad). E quando la persona ha attinto una conoscenza illuminata, anche lei può dire: "Io sono Brahman" (Brhadaranyaka Upanisad).Il Brahman è l'"Uno, senza secondo" (Chandogya Upanisad).L'io profondo dell'uomo, l'Atman, è anch'esso identico al Brahman. "Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Atman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo…Questo Atman dentro il mio cuore è il Brahman stesso" (Chandogya Upanisad). E per quanto riguarda l'uomo, l'Induismo ripete da secoli la frase di Uddalaka a suo figlio Svetaketu: "Tu sei Quello" (Tat tvam asi) (cfr. Chandogya Upanisad). Viene così riconosciuto che il Brahman-Atman è l'unico Assoluto, la radice e il fondamento di tutto, il Signore che regge e sostiene ogni cosa, la guida interiore e il fine di ogni vivente. In questo senso, il mondo non è creato e non ha consistenza in se stesso. Sia che esso venga concepito come Maya (illusione) presso il saggio Sankara (788-820 d.C.), o venga piuttosto descritto come il gioco di Dio, lila, presso i Visnuiti, esso è l'eterna manifestazione dell'eterno esistente, il volto fenomenico dell'Eterna Persona, la dimora mutevole del Permanente Inabitante. Quando si parla di inizio o di fine, di creazione e di distruzione, le parole si riferiscono ai processi ciclici di apparizione e di sparizione delle cose, di uscita e di rientro delle medesime nella loro eterna Origine.

Tutto ciò che appare è lo stesso Brahman, che si manifesta attraverso ogni cosa. Egli è la Realtà vera di ogni manifestazione. Solo se si considera un fenomeno a sé stante, si può parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in seno al Brahman, e sarà in lui eternamente custodito. Allora l'uomo non muore con la sua morte fisica? Non solo l'uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato. La risposta che Krsna dà ad Arjuna nella Bhagavad Gita è la seguente: "Non ci fu mai un tempo in cui non ero, io, tu, e questi prìncipi tutti, né ci sarà mai un tempo in cui non saremo, noi tutti, dopo questa esistenza. A quel modo che in questo corpo il sé incorporato passa attraverso l'infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, così, alla morte, egli assume un altro corpo. Il forte non è su ciò mai perplesso" (2,13-14). In altre parole, l'io profondo di ogni uomo, la verità della sua persona, è l'Atman, ed esso è identico al Brahman. "Egli non nasce e non muore mai, né, essendo stato, v'è tempo in cui non sarà ancora. Innato, eterno, permanente, antico, egli non muore, quando muore il corpo…A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il suo sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi"(Bhagavad Gita, 2, 21-23).

Com'è possibile che un uomo assuma diversi corpi? Per rispondere dobbiamo ricordare che l'induista è un uomo di fede e perciò dà fiducia a quello che i Rsi (i saggi ispirati che hanno veduto gli inni vedici e conoscono la verità) gli hanno tramandato. In base a questo, il singolo uomo che viene al mondo, era in cammino fin dall'eternità, per quel giorno, e l'eternità è di nuovo il resto del cammino che deve percorrere. Egli è sempre stato e sempre sarà. E come egli è emerso dal seno del Brahman alla superficie della storia, così pure - a livelli più o meno elevati - egli ha sempre fluttuato tra le onde di quell'oceano, che è il fenomeno cosmico, e ancora fluttuerà, se la Grazia della Liberazione(Moksha o Mukti) non lo riporterà di nuovo in seno al Brahman. Come poi questo avvenga, che cosa significhi assumere diversi corpi, e come sia possibile per l'uomo conservare la propria identità attraverso tutto questo, è una risposta che richiede una conoscenza che non necessariamente coincide con quella che l'uomo ha ora. E qui l'Induismo da interrogato diventa interrogante e chiede: "tu che non ti ricordi neppure che cos'eri durante la tua infanzia, che non sai nulla di quello che eri nel seno di tua madre, che cosa puoi sapere di quello che eri prima di essere concepito, e di quello che sei in seno a Dio?". Gettato nel mondo, l'uomo rimane in balia del ciclo delle nascite e delle rinascite (samsara). L'uomo non potrà uscire dal samsara finché non attingerà l'Assoluto. Questo è il problema della Liberazione. Per l'Induismo si tratta allora non di fuggire dal mondo quanto piuttosto di rientrare in seno al Brahman. Ciò che lega l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite è il karma (azione). L'uomo è normalmente spinto all'azione dal desiderio (kama) dei suoi frutti, dei suoi esiti. Ora, il desiderio dell'uomo nasce dal contatto con la realtà fenomenica e rimane chiuso entro i suoi confini. Per cui l'azione umana piuttosto che essere un fattore di liberazione, è la causa che vincola l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite. Anche se l'uomo osservasse perfettamente tutta la Legge (Dharma), potrà ottenere una rinascita nobile, ma mai la liberazione. La Bhagavad Gita dice chiaramente che l'uomo non può essere liberato grazie alle azioni compiute secondo la Legge, mentre la liberazione è il perfetto congiungimento con l'Origine ultima di tutte le cose. Questo presuppone che si faccia pieno spazio alla sua presenza e alla sua azione. Essa è opera del supremo Signore; a Lui l'uomo deve affidarsi. Krsna dirà ad Arjuna: "Abbandonando tutte le idee di Dharma, prendi rifugio in me soltanto. Io ti libererò da ogni peccato. Non ti addolorare" (Bhagavad Gita, 18,66).

Ma allora Dio è per l'Induismo è personale o impersonale? Il Brahman-Atman delle Upanisad è un Assoluto impersonale, mentre la Bhagavad Gita introduce una concezione personale di Dio. Egli è la Persona suprema, che salva il suo fedele. Tale concezione è fondamentale per capire il tipo di Yoga che la Bhagavad Gita presenta come strumento di liberazione.

Yoga significa anzitutto unione e, in riferimento al diverso modo di concepire il termine di questa unione ed i metodi per realizzarla, si danno diversi tipi di Yoga. Lo Yoga classico comprende un insieme di tecniche che mirano al completo possesso di sé. La Gita accetta le tecniche dello Yoga, ma sostiene che, dopo tutti gli sforzi umani, è comunque Dio che viene incontro al suo devoto, ed in questo incontro si realizza la liberazione. Vi è una triplice via per la liberazione (trimarga): l'azione (karma yoga), la conoscenza (jnana yoga) e la devozione (bhakti yoga).

la via dell'azione è la via di colui che, sapendo che è Dio che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutti;
la via della conoscenza non è la conoscenza che tutto è Brahman, ma è piuttosto la Grazia di una Rivelazione, manifestazione della Forma suprema di Krsna;
la via della devozione è la vera e propria essenza dell'Induismo, quella che permette di raggiungere la liberazione, ed è opera solo del Signore stesso. "Non per Veda, per i sacrifici e gli studi, non per le elemosine, non per i riti, non per le dure penitenze, posso io esser visto in tale forma qui nel mondo degli uomini: a te soltanto io l'ho rivelata, o campione dei Kuru…ma per la devozione diretta a me solo, o Arjuna: per essa io posso essere così conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o Arjuna. Colui le cui azioni sono fatte per me, il cui supremo bene son io, colui che è a me devoto, privo di attaccamento, privo di odio verso i vari esseri, costui entra in me, Arjuna" (Bhagavad Gita, 11, 53,59-60).

Dopo il superamento di ogni concezione politeistica, l'Induismo ha tranquillamente rimesso in luce figure di dèi del pantheon vedico, quali Vishnu, Shiva e le Shakti, sapendo perfettamente che questi non erano degli dèi, bensì aspetti manifestativi dell'unico Dio personale. Dobbiamo anche precisare qui, perché molto nota in Occidente, che la celebre Trimurti (Brahma come creatore, Visnu come conservatore e Shiva come distruttore) è una elaborazione teologica posteriore che non riproduce reali movimenti devozionali all'interno dell'Induismo. Non esistono movimenti devozionali rivolti alla Trimurti. Inoltre essa non ha nulla a che vedere con la Trinità cristiana: non sono tre distinte persone, ma è il triplice modo di manifestarsi dell'unica sostanza divina. Insomma, quando l'Induismo parla di dèi, è solo per esprimere, attraverso essi e alle relative mitologie, i vari aspetti dell'unico ed identico Dio. Fatta questa premessa, si può parlare degli dèi dell'Induismo, che sono molti. Shiva rappresenta l'aspetto paterno di Dio, ma è anche distruttore e ricreatore di tutte le cose. La sua shakti (l'energia eterna di Dio) è anche vista come Kali, dea della distruzione (ma poiché distrugge anche i demoni, è anche dea della protezione). Vishnu è l'immagine di Dio che ha forse il culto maggiore perché è legata alla sue numerose incarnazioni o discese (avatar), alcune delle quali, come Krsna e Rama, sono universalmente popolari. E poi vi è Ganesha, col corpo umano e la testa di elefante, figlio di Shiva, dio della conoscenza e della liberazione; Karttikeya, anche lui figlio di Shiva, dio del coraggio e della potenza; Hanuman, in forma di scimmia, personificazione della fedeltà, alleato di Rama; Agni, dio del fuoco, invocato nei sacrifici. Manasha, regina dei serpenti (naga) ecc.

I testi sacri. Sono divisi in due categorie: i testi uditi o della rivelazione (srti), e i testi appresi o testi della tradizione (smrti).Ai primi appartengono i Veda e le Upanishad, chiamate anche Vedanta, ovvero fine dei Veda. Le smrti più note sono invece le due epiche: il Mahabharata (o grande India), che contiene nel sesto libro la Bhagavad Gita; e il Ramayana, in cui appaiono rispettivamente le due più popolari incarnazioni di Visnu, e cioè Krsna (nella Bahagavad Gita) e appunto Rama.

Le cerimonie. Anche nell'Induismo moderno rimane il rito del sacrificio (Yajna), che consiste nell'offerta alla divinità di burro fuso, cereali, talvolta anche animali e del soma (liquore estratto da un vitigno, che è una sorta di bevanda dell'immortalità, offerta in libagione agli dèi; è anche sinonimo della Luna, per la somiglianza del colore; è estratto dalla asclepias acida). Normalmente queste offerte sono consumate nel fuoco e il sacerdote prega Agni di portarele offerte al cospetto divino. Il rito post-vedico più comune è la puja, la cerimonia di venerazione della divinità, durante la quale una statua del dio viene unta, vestita, ornata e profumata; vengono offerti cibo e bevande che però non sono consumati nel fuoco ma ridati ai fedeli; in particolari occasioni l'immagine del dio è portata in processione fuori del tempio. La forma normale della preghiera è la japa, che consiste nella recitazione e ripetizione di mantra, ossia parole e formule sacre. Il mantra più importante è la ripetizione del suono Om o Aum, che indica il Brahman. Ci sono poi ovviamente riti particolari per i diversi stadi della vita: nascita, ammissione ai doveri della propria casta, matrimonio, malati, defunti ecc.

Le feste. In primavera si celebra Holi: la festa coincide con la luna piena del mese di Phalguna (febbraio-marzo). È appunto celebrata con la holi, una mistura di acqua, calce e altro che i fedeli si spruzzano reciprocamente. Oggi è connessa con la venerazione soprattutto di Krsna. In autunno c'è la festa di Dashara, nei primi dieci giorni del mese di Ashvina (settembre-ottobre). In essa viene onorata la shakti di Shiva (cioè Durga o Kali), ed è cara ai Shivaiti. Ma al decimo giorno si uniscono anche i Visnuiti perché si celebra la vittoria di Rama sul demone Ravana e la liberazione di Sita, sposa di Rama. A Shiva è consacrato ogni 14° giorno del mese lunare, ed in particolare è celebrato il 14 del mese di Magha (gennaio-febbraio), detto la notte di Shiva.

L'etica induista in generale

Nell'Induismo in generale la morale mantiene il suo carattere distaccato di mezzo e di purificazione (non è, come vedremo, come quella buddhista, in cui conta anche la partecipazione, la compassione, l'amore). Propedeutica della vera conoscenza, trascura le esigenze della vita associata o non vi insiste; ha di mira non i rapporti dell'uomo con la comunità ma dell'uomo con l'assoluto, è pertanto ascetica piuttosto che morale. La morale si riduce ad un conflitto tra i desiderio, cioè il richiamo della vita, e la saggezza, cioè il superamento della vita. Quindi le proibizioni prevalgono sulle ingiunzioni; il peccato interessa più della virtù, e per peccato si intende il prevalere dell'istinto e dell'ignoranza. Nella Bhagavad Gita precetti morali e ingiunzioni religiose sono ancora congiunti.

La vita viene considerata dagli indiani duplice, come sotto una doppia luce. Da un punto di vista relativo, conmvenzionale, la società è divisa in caste e l'uomo è sottomesso a regole e doveri diversi a seconda dell'età. Ogni uomo passa per quattro momenti: la giovinezza, quando la continenza dei sensi è d'obbligo; l'età matura, quando col matrimonio e l'operosità attiva si assicura la continuità della famiglia e si assolve il dovere verso gli antenati; la rinuncia, quando giunge la vecchiaia; in ultimo lo stato di vanaprastha,il ritiro nella selva, in un completo distacco nell'attesa della morte.

Ma oltre questa vita, vi è l'altro piano, il piamo al di là del samsara, lo stato del Brahman, l'isolamento definitivo dell'anima da ogni contatto o suggestione dai vincoli della materia. Questo stato si consegue non con l'azione ma con la cessazione dell'azione. Ogni nostra attività deve quindi essere volta al supremo bene(naihsreyas), che coincide con l'arresto e il superamento del samsara. Perciò l'attenzione è tutta portata non tanto sui doveri umani quanto sulla ricerca della conoscenza che conduce all'arresto definitivo della vita. Il bene compiuto e io rispetto delle regole religiose sono certo preferibili al male, ma ci legano comunque all'esistenza, il loro frutto è perituro, limitato nel tempo. Non l'azione dunque, ma lo yoga, l'ascesi, agevolata e preparata dallo yoga, la gnosi, la conoscenza, il superamento del bene e del male. Ecco perché anche l'azione meritoria dev'essere disinteressata, non la deve accompagnare nessun pensiero di ricompensa futura.

Ma come si fa a predicare la rinuncia quando la vita stessa con le sue richieste implacabili ci getta in braccio al peccato? Non c'è dunque conflitto tra le ingiunzioni della religione e della mistica ed i doveri sociali? Fu il problema che si pose e cercò di risolvere il Bhagavad Gita. La risposta di Krna ad Arjuna è: l'atman che abita in fondo a ciascun uomo, amico o nemico che sia, è uguale in tutti. Colpendo i corpi, privando della vita i propri nemici, Arjuna non commette peccato perché egli è un guerriero e ciascuno deve assolvere i propri doveri, fissati dalla nascita. Peccherebbe invece non già uccidendo i nemici ma abbandonando il campo, perché questo sarebbe viltà e coprirebbe di vergogna sé e la sua famiglia. Ciò che occorre è compiere il proprio dovere. L'azione non si può evitare, visto che la vita stessa è incessante azione, ma bisogna stare attenti ad agire senza desiderio od odio, senza che le passioni ne siano il nascosto movente.

Scuole filosofiche classiche

GIAINISMO (o JAINISMO)

Il Giainismo deriva il nome dal suo fondatore, Mahavira (morto nel 476 a.C.), che fu chiamato Jina, (il vittorioso), con un appellativo che non è proprio solo di lui ma di tutti quelli che hanno superato il mondo e vinto le passioni, come ad es. Buddha.

La filosofia giainista è una sorta di pluralismo dualista. Da un lato c'è l'anima, dall'altro la materia. Le anime, le forze vitali (jiva) sono infinite e pervadono la materia ed i corpi. In noi è presente una tendenza innata alla perfezione, anche se è offuscata dalla materia. Per cui vi sono due tipi di anime: quelle legate al samsara, e quelle libere (kevalin), che sono diventate pura coscienza e pura luce.

LE SCUOLE MATERIALISTICHE

Le scuole materialistiche sono chiamate con vari nomi: Charvaka, Lokayatika, Nastika. Esse negano il karma, la responsabilità morale come causa della ricompensa o dell'espiazione in un'altra esistenza. Molti indirizzi erano arrivati alla conclusione che il karma non esiste, che l'azione buona o cattiva non porta frutto di cui poi l'uomo debba godere o soffrire. Alcuni affermavano che la vita è retta dal destino. Gli ajivika, per esempio, che riconoscevano come loro maestro Makhali Gosala, ammettevano l'esistenza dell'anima, ed erano dell'opinione che il ciclo del samsara si svolgesse per 84 milioni di eoni, dopo di che la liberazione poteva essere raggiunta indipendentemente dal karma, perché tutto ciò che avviene si svolge per opera del destino (niyati).

Altri affermavano che ogni avvenimento è dovuto all'impulso della natura propria delle cose in virtù di un automatismo del loro essere stesso o alla maturazione del tempo. Altri, infine, negavano l'esistenza del bene e del male, e non ammettevano che un cieco impulso vitale: alcune correnti si riducevano ad un semplice edonismo senza pretese speculative. Il che indica quanto complessi e vari fossero gli indirizzi della speculazione induista.

IL SANKHYA E LO YOGA

I due sistemi sono in genere considerati insieme perché hanno molte dottrine comuni, tranne il fatto che alcune correnti del Sankhya non ammettono l'esistenza di Dio mentre lo Yoga la postula. L'esposizione più antica del Sankhya è l'opera di Isvarakrsna intitolata Sankhyakarika(4°-5° secolo d.C.) in 72 versi. Invece la letteratura yoga si incentra intorno agli Yogasutra di Patanjali (2° sec. a.C.).

Sia il Sankhya che lo Yoga ammettono due sostanze opposte ma ugualmente eterne: da un lato le anime (purusha), che sono infinite e semplici, e dall'altro la prakrti,che sarebbe un po' la nostra natura o materia, unica, dinamica, complessa. Il processo cosmico o, come diremmo noi, l'evoluzione della natura o della materia è ciclico (teoria accettata da tutte o quasi le scuole dell'India) e può avvenire ovviamente in due sensi: o dall'alto verso il basso, dalla natura evoluta alle sue forme più semplici, o dal basso verso l'alto, prendendo in considerazione le forme più semplici fino ad arrivare a quelle più evolute. Le anime sono luminose, pura intelligenza, ma inattive, impassibili, non soggette né a gioia né a dolore: sono all'incirca l'io della coscienza. Le anime devono conquistarsi la liberazione definitiva attraverso l'esperienza della vita: occorre che avvenga il contatto con la materia, e quindi la conquista della consapevolezza attraverso la sofferenza vissuta, perché sia per sempre rotto l'incanto e la materia non possa più avere presa sull'anima. Fino a quanto ciò non avviene, l'anima è incatenata al fascino del materiale. Il ciclo samsarico avrà fine quando nascerà nella psiche, attraverso la conoscenza data dal Sankhya e dallo Yoga, la consapevolezza della distinzione tra l'anima (purusha) e la psiche stessa (buddhi). Essendo così eliminata l'ignoranza, la psiche (buddhi) ritorna allo stato di purezza originaria.

Lo Yoga, a differenza del Sankhya, ammette l'esistenza di un Dio come supremo regolatore del moto della natura, la quale, non essendo intelligente, non potrebbe svolgersi con la necessaria regolarità intesa alla liberazione delle anime. Dio non è creatore ma è un'anima somma, che con la sua perfezione stimola l'uomo a liberarsi dai vincoli materiali. Il concetto di Dio è così passato per diversi stadi: dalla primitiva, indifferente presenza, Dio è diventato a poco a poco il Supremo signore onnipotente, Isvara. Altra differenza notevole tra Yoga e Sankhya è il fatto che la liberazione, per lo Yoga, non deriva soltanto dalla conoscenza, quanto dalla rigida disciplina ascetica. Deve cioè compiersi un progressivo svuotamento dell'individuo: astensione dall'offesa ad ogni creatura vivente, rispetto della verità, desistenza dal furto sia pensato che eseguito, rifiuto di possedere ogni cosa che non serva al puro sostentamento, purezza di spirito e di corpo, indifferenza a tutto ciò che può succedere, ascetismo, studio dei testi sacri e devozione verso Dio. Si prescrive quindi l'uso di posture convenienti alla meditazione, il controllo del respiro (pranayama),che è premessa essenziale per il controllo del pensiero e la sottrazione dei sensi da ogni influsso dei propri oggetti, in modo che la loro funzione sia ridotta a semplice percezione senza partecipazione dell'io (pratyahara). Alla fine vi sarà lo stato supremo in cui è raggiunto l'arresto delle funzioni mentali (nirodha-samadi o asamprajnata).

NYAYA E VAISESIKA

Anche questi due sistemi sono stati tradizionalmente abbinati, anche se hanno fondamenti diversi. Il Nyaya è, almeno alle origini, prevalentemente un sistema di logica che aiuta a motivare le proprie opinioni; solo in seguito diventerà un sistema metafisico. Il Vaisesika si occupa di classificare i dati dell'esperienza e di ridurli ad alcune categorie fondamentali, e quindi propone una teoria atomica che indaga la natura degli atomi, della loro combinazione e degli elementi che ne derivano. I testi canonici sono i Vaisesikasutra attribuiti ad un brahmano chiamato Kanada, redatti verso il 1° o 2° secolo d.C; i Nyayasutra, attribuiti ad Aksapada, nel 3° secolo.

Secondo il Vaisesika, tutto ciò che si percepisce è reale. Le cose esistono indipendentemente dal fatto che noi le percepiamo. Il mondo è eterno ed è il risultato di una combinazione di atomi in continuo movimento. Dio non è creatore ma è la causa efficiente dell'universo e il regolatore del karma. Quando avviene la liberazione, l'anima tornerà nella sua essenziale immobilità, inattività e inconsapevolezza, distaccata dal mutevole mondo terreno.

Lo scopo del Nyaya è la conoscenza della realtà conoscibile attraverso quattro mezzi appropriati: percezione, inferenza, analogia o comparazione, testimonianza autorevole. Per cui conoscenza vera è quella che non sarà mai soggetta a contraddizione o dubbio, che riproduce l'oggetto come realmente è, e ci presenta insomma in maniera fedele un oggetto qualunque. Questa soltanto è conoscenza, ed è da distinguere dal ricordo, dal dubbio, dal ragionamento puramente ipotetico.

LA MIMAMSA

Questo sistema si riallaccia ai Veda. I primi Mimansasutra sono stati redatti tra il 200 a.C. e il 200 d.C. Pensatori famosi di questa corrente furono Kumarila e Prabhakara (entrambi del 7°-8° sec. d.C.) e Khandanadevamisra( 16°-17° sec.). Il karma domina sovrano, inteso non solo come atto morale, ma soprattutto in senso rituale, come atto liturgico: l'universo e l'uomo sono retti dal sacrificio. Da ciascun momento del rito, quando esso sia compiuto secondo le regola, si sprigiona un risultato parziale, che sommandosi con gli altri risultati parziali dell'atto sacrificale, si trasforma in un risultato complessivo e globale. Il rito conduce al proprio fine in maniera puramente meccanica. Tale sistema non ammette nell'ordinamento dell'universo nessun intervento divino, per il fatto stesso che un Dio creatore e distruttore dell'universo non esiste. La Mimamsa accetta una concezione realistica dell'universo: le cose che cadono sotto i nostri sensi sono reali. Al di là della materia, esistono innumerevoli anime, che sono eterne, le quali trasmigrano di corpo in corpo per scontare i risultati delle azioni compiute, fino a quando l'atto sacrificale non abbia eliminato del tutto il residuo karmico. Rinuncia e devozione non servono a nulla: soltanto il rito cancella il karma e separa l'anima dal corpo, interrompendo il ciclo samsarico. La liberazione consiste nella interruzione del processo karmico volto sia al male che al bene, perché anche il bene fatto con la speranza di ricompense, in questa o nell'altra vita, mantiene sempre legati all'esistenza e al samsara. La Mimamsa resta dunque soprattutto una severa ed austera disciplina ed una teoria sacrificale precisa, minuta e cavillosa. Ma come si può essere certi che l'atto sacrificale abbia tanta infallibile efficacia? I mimansaka (seguaci del Mimansa) poggiano la loro certezza sui Veda, considerati come la massima inconfutabile autorità. I Veda sono eterni.

IL VEDANTA DI SHANKARA

Shankara (788-820) muove dall'assoluto e a quello contrappone lo stesso mondo dell'esperienza quotidiana come il non-essere illusione (maya), ignoranza (avidya). Nella rivelazione delle Upanishad, dice in sostanza Sankara, è contenuta intera la verità. La ragione non serve a scoprire la verità ma a dimostrare la legittimità di quella rivelazione e la coerenza logica delle sue osservazioni. Egli vuole così opporsi alle teorie del giainismo e del buddhismo.

Siccome l'io assoluto (Atman e Brahman) è l'unica realtà rivelata dalle Upanishad, tutto ciò che non è questo io è un non essere, è irreale. Il rapporto tra l'assoluto e l'apparenza è illustrato da Shankara con esempi: di notte vedo luccicare qualcosa e prendo per argento quella che è invece una semplice conchiglia. Così, in virtù della maya, l'Uno mi appare molteplice, riflesso in un numero infinito di io particolari; ma essi scompaiono quando si giunge alla consapevolezza dell'unico Io. La maya è dunque una libertà magica che è presente nel Brahman come il potere di bruciare è inerente al fuoco; in virtù della maya, il Brahman nasconde la propria essenza e si proietta in una molteplicità apparente che lo fa sembrare come diverso da quello che è, cioè come mondo o come io singolo.

Commisurate alle possibilità degli uomini, esistono due forme di verità: una assoluta, riservata a pochi eletti, e l'altra relativa. La maggior parte degli uomini è ottenebrata dall'ignoranza per cui vive nella convinzione della realtà del mondo fenomenico, retto da un Dio personale. Al contrario, per colui che è giunto alla percezione dell'unica autentica realtà né i riti, né le opere buone, né adorazione di una divinità particolare hanno più valore; però, questi atti, uniti all'osservanza dei precetti morali e sociali insegnati nei Veda, sono efficaci affinché coloro che sono ancora nell'errore possano risalire, nel corso delle esistenze, ad un grado tale di perfezione tale da raggiungere la verità assoluta e con essa la definitiva liberazione. Giustificando in tal modo da un lato le tradizioni antiche e ponendo dall'altro le basi per un misticismo religioso intellettualmente elevato, Shankara è stato in grado di soddisfare i bisogni religiosi tanto dell'uomo colto che dell'ignorante: di qui la straordinaria fortuna della sua dottrina e l'unanime stima goduta dalla sua persona.

RAMANUJA

Ramanuja (1017-1137, vissuto secondo la tradizione ben 120 anni), è il fondatore di un altro famoso indirizzo nella filosofia indiana, la scuola del Visistadvaita (monismo differenziato). Partendo anch'egli dalle Upanishad, elabora un sistema teistico: Dio ha creato il mondo lo crea traendolo da sé. Infatti in Lui c'è tutto, sia spirito che materia. Il mondo quindi è parte di Lui ed è dunque reale, non è solo un'apparenza (come diceva Shankara) e costituisce il corpo di Dio, il quale è immanente in tutto l'universo ma, nello stesso tempo, lo trascende. Tra Dio da una parte e le anime individuali ed il mondo dall'altra, c'è lo stesso rapporto che c'è tra l'anima e il corpo umano: come i difetti del corpo non sono i difetti dell'anima, così le nostre imperfezioni e quelle del mondo non sono le imperfezioni di Dio. La via che conduce alla liberazione è il bhakti-yoga, o via della devozione, che consiste nell'abbandono del fedele al Signore. Conseguendo la liberazione, l'anima del fedele si unisce a Dio (Vishnu), rimanendo però da Lui distinta e conservando la propria personalità.

Pensatori moderni

RADHAKRISHNAN (1888-1975)

Sarvepalli Radhakrishnan, che è stato anche presidente dell'India, è autore di moltissimi articoli e dozzine di libri di filosofia. IN primo luogo egli non ritiene contraddittorio che un filosofo partecipi attivamente agli affari politici e sociali, poiché questi sono apparenze del Brahman e sono quindi dei mezzi da utilizzarsi nello sforzo di raggiungere l'esperienza della realtà suprema. La filosofia di Radhakhrisnan è stata dunque un tentativo di elaborare una esauriente filosofia della religione. Il compito della filosofia della religione com'è intesa da lui è quello di sviluppare una teoria sulle natura delle cose nel mondo che possa rivelare le relazioni tra il mondo, l'anima e Dio. La teoria deve spiegare i fatti dell'esperienza religiosa e nello stesso tempo ammettere la ragione: in altre parole, ammessa la coerenza razionale, la teoria deve avere le sue basi nell'esperienza religiosa stessa. Per Radhakhrisnan la teologia, il dogma, il rituale, le altre varie istituzioni sono le eterne trappole della religione, non la sua essenza. L'essenza della religione è invece il tentativo di scoprire le possibilità ideali della vita umana. Questa ricerca è personale e coinvolge necessariamente l'intera persona. La religione include quindi la sensazione, la ragione, la volontà e va ancora oltre tutto questo verso il centro più profondo della persona, dov'è la vera sorgente dell'uomo e, integrando queste facoltà, le guida per trasformare la vita della persona in qualcosa di completo e di integro. Questo sé interiore è descritto come Spirito, e la sostanza e l'essenza della religione è l'esperienza della vita dello Spirito. Così come cambiano le forme della cultura e della civiltà, debbono mutare anche le forme di religione, in modo da poter manifestare adeguatamente l'esperienza dell'incontro spirituale. Se nell'esperienza religiosa viene coinvolta tutta la persona, essa è radicalmente da qualunque altra esperienza l'uomo possa fare. In questo senso, le distinzioni che normalmente si fanno tra soggetto e oggetto e tra una facoltà e l'altra, sono abbandonate per affermare che nell'esperienza religiosa il soggetto e l'oggetto si fondono divenendo un'unità. Ma quando è abbandonata la distinzione tra soggetto e oggetto sono abbandonate anche tutte le altre consuete distinzioni presupposte dal pensiero. Passato, presente e futuro diventano pure astrazioni, prive di realtà. C'è soltanto l'adesso, privo di dimensioni ed il qui, senza collocazione.

L'intento fondamentale della religione consiste nell'aiutare l'individuo a rendersi conto che può elevarsi oltre i limiti imposti dalla materia, dalla vita o dalla coscienza, fino a capire che nel suo essere più profondo egli è identico con lo Spirito Assoluto ed è in verità completamente libero dalle limitazioni inerenti all'identificazione con un particolare modo o funzione dello Spirito. Tutto ciò è possibile soltanto per mezzo di un'attività pratica, un'attività dell'essere piuttosto che della conoscenza. È la realizzazione spirituale dell'insegnamento di Uddalaka a suo figlio Shetaketu: "Tu sei quello".

AUROBINDO (1872-1950)

Per Sri Aurobindo il grande problema del giorno d'oggi è la trasformazione dell'uomo attuale nel grande essere spirituale che potenzialmente è. La vita divina è per Aurobindo la vita vissuta nella piena realizzazione del Brahman, e lo yoga è il mezzo per questa vita. Lo yoga dev'essere praticato come mezzo per cambiare la condizione attuale dell'umanità. Il Brahman ha dato origine all'universo senza alcuna ragione, traendolo semplicemente fuori dalla pura esuberanza del suo essere. L'universo esiste perciò come gioco di pura esistenza. Ma non è un gioco capriccioso, poiché è diretto dall'Assoluto. L'evoluzione dell'universo verso forme sempre più alte di vita e di coscienza è così un ritorno verso la fonte di ogni cosa, verso il Brahman. La tendenza dell'esistenza umana è quella di spingersi verso livelli superiori di esistenza: per fare ciò viene in aiuto lo yoga, che comprende però ogni cosa e non è riducibile a mera ascesi fisica. Per questo ci vogliono anche condizioni materiali e sociali che permetteranno all'uomo di arrivare oltre se stesso, elevando la sua esistenza fino alla vita divina. Perciò devono essere instaurate e garantite la giustizia e la libertà della società come condizioni necessarie per la superiore evoluzione dell'uomo.


INDIETRO