LA FISICA DEI GRECI

 

Un’ampia panoramica sulle dottrine fisiche dei Greci ci è fornita da quella sorta di manuale di storia della filosofia che è il libro primo della Metafisica di Aristotele: dopo essersi rapidamente richiamato alla dottrina delle quattro cause (materiale, formale, efficiente, finale) – la sola che, a suo avviso, possa rendere conto del reale in maniera esauriente - già ampiamente trattata nella Fisica, lo Stagirita guarda indietro ai suoi predecessori per vedere a quante e a quali cause essi siano pervenuti nel tentativo di render conto della realtà indagata. Questa ricognizione delle dottrine formulate da chi è venuto prima è un procedimento che Aristotele impiega con incredibile frequenza all’interno dei suoi scritti e affonda le sue radici nella convinzione che il sapere non nasca ex novo, come per magia, ma debba essere invece il frutto di un percorso comune e metatemporale, al quale contribuiscono anche i filosofi del passato. Ecco perché "dobbiamo prendere in esame anche coloro che prima di noi hanno affrontato lo studio degli esseri e hanno filosofato intorno alla realtà. E’ chiaro, infatti, che anch’essi parlano di certi principi e di certe cause. Ora, il rifarsi ad essi sarà certo di vantaggio alla presente trattazione: infatti, o troveremo qualche altro genere di causa, oppure acquisiremo più salda credenza nelle cause di cui ora s’è detto" (Metafisica, 983 b). In realtà, nessuno dei predecessori si è spinto ad individuare addirittura quattro cause – nota con orgoglio Aristotele -, ma anzi, nella maggior parte dei casi, si sono arrestati a una o due (in pochi ne hanno intraviste tre), dando di conseguenza una spiegazione parziale e non del tutto esauriente del reale. A questo proposito, Aristotele concentra la propria indagine innanzitutto sui filosofi che hanno individuato esclusivamente la causa materiale: ancor prima di fare nomi, egli introduce i caratteri comuni di questi autori che si sono arrestati alla causa materiale (intesa come "ciò di cui tutti gli enti sono costituiti"), senza scorgerne altre. Ad avviso di costoro, per conoscere le cose è sufficiente individuare la causa materiale, concepita come "elemento e principio degli enti" (dove "elemento" è l’ingrediente materiale componente le varie realtà, principio – in greco arch – è ciò che viene prima in senso cronologico e logico e dà origine alla realtà): sotto questo profilo, l’intera ricerca svolta dai primi filosofi è per Aristotele volta al rinvenimento dell’arch da cui tutte le cose sono venute ad essere. Nella veste di storico della filosofia, dunque, Aristotele proietta la propria indagine sulle coste dell’Asia Minore (attuale Turchia) e, più precisamente, nella città di Mileto, ove furono operativi Talete, Anassimandro e Anassimene, che lo Stagirita non esita a definire come "fisiologi" (fusiologoi), riservando a se stesso il più alto titolo di "fisico" (fusikoV). L’iniziatore della ricerca dell’ pare essere stato Talete, figura non priva di connotazioni leggendarie (ben presto sul suo conto fiorirono miriadi di aneddoti): egli muove dalla convinzione che l’arch, ovvero il principio da cui tutto deriva, sia l’acqua. Dalla convinzione secondo cui l’acqua sarebbe alla base di ogni realtà, Talete avrebbe addirittura fatto conseguire la tesi – che a noi non può strappare un sorriso – secondo cui la Terra stessa galleggerebbe sull’acqua e si troverebbe pertanto in un equilibrio precario. Aristotele, con la curiosità filosofica che lo contraddistingue, prova anche a domandarsi come possa essere la concezione propria di Talete dell’acqua come causa materiale: pur in assenza di certezze (il che è testimoniato dal "forse" che Aristotele premette alla propria constatazione), non si può escludere che Talete sia addivenuto alle sue note conclusioni partendo dall’osservazione che l’umido sta alla base di ogni cosa - perfino del caldo – e che i semi stessi, da cui nasce la vita, sono anch’essi umidi. Da ciò ben si evince come Talete si basasse, nel proprio procedere filosofico, soprattutto sull’osservazione diretta dei fenomeni. Aristotele sembra anche suggerire, in certa misura, che Talete, nella formulazione delle proprie tesi, tenesse conto di quella tradizione mitica – cantata nei poemi di Omero e di Esiodo – in cui Oceano e Teti non erano che i progenitori del mondo: in questo senso, Talete avrebbe sostenuto la stessa tesi dei poeti, ma da essi si sarebbe differenziato per aver dismesso la veste teologica e mitica e per aver indossato quella ipercritica della filosofia. Fare di Talete un razionalista nell’accezione moderna – affermatasi da Cartesio in poi – sarebbe però sbagliato, anche perché su di lui influiscono concezioni animistiche che lo inducono a ritenere vivo il magnete – perché capace di muoversi in presenza del ferro – o ad affermare enigmaticamente che "tutto è pieno di dei" (frase facilmente convertibile in: "tutto è pieno d’acqua"). Anche se Aristotele trascura questo aspetto, noi possiamo tentare di spiegare l’importanza da Talete concordata all’acqua facendo riferimento alla particolare zona in cui egli è vissuto: Mileto era una città marinara, in cui l’acqua era di fondamentale importanza per i traffici e, dunque, per la sopravvivenza dei suoi cittadini. Una domanda destinata a restare senza risposta è se Talete abbia avuto discepoli e, in tal caso, se Anassimandro rientrasse nella sua cerchia. Pare assai improbabile (anche se non escludibile) che ciò sia possibile, anche perché nel VII secolo a.C. non abbiamo testimonianze sull’esistenza del rapporto di discepolato: non è tuttavia da escludersi che Anassimandro abbia conosciuto e frequentato Talete. Anassimandro compie in sede filosofica un passo decisivo: accantona la poesia e scrive – primo nella storia – un’opera in prosa, tramandataci con l’usuale titolo di Sulla natura (Peri fusewV); ciò non toglie, tuttavia, che lo stile prosastico da lui impiegato non concedesse ampi margini ad un linguaggio immaginifico e poetico, volto ad accattivarsi l’attenzione dei lettori. Ma, oltre alle questioni di ordine stilistico, la grande innovazione apportata da Anassimandro risiede nell’aver individuato l’arch non già in un qualcosa di materiale ed empiricamente constatabile (al pari dell’acqua di Talete), bensì una realtà soprasensibile, forse in base al ragionamento che l’arch non può essere una sola delle entità visibili, ma piuttosto un qualcosa da cui tutte scaturiscano. Per questa via, Anassimandro passa dal visibile all’invisibile. Tale arch invisibile è da lui ravvisato nell’apeiron, ovvero – letteralmente – in "ciò che non ha limiti" (a + peraV). Questo "illimitato" trova una sua collocazione fisica alla periferia di un universo sferico al cui centro è posizionata la Terra, dotata di forma cilindrica ed equidistante dalla periferia (essa è dunque in perfetto equilibrio nella sua immobilità, senza bisogno di alcun sostegno, nemmeno dell’acqua supposta da Talete). Dall’apeiron si generano in primis le "qualità contrarie" (caldo/freddo, secco/umido, ecc), ossia gli elementi, giacchè alla natura di ciascun elemento corrisponde una data qualità (così al fuoco corrisponde il caldo, all’acqua il freddo, ecc). In questo senso, allora, l’apeiron manca, oltre che di limiti, anche di qualità: proprio da questo sostrato aqualitativo nascono i quattro elementi costituenti la realtà. Non è un caso che, nell’universo, ogni cosa sia dotata di limiti precisi: dalla realtà illimitata (apeiron) nascono tutte le cose e ciascuna di esse diventa col nascere il limite di tutte le altre (tant’è che nel definirla non facciamo che distinguerla dalle altre). Nell’unico frammento di Anassimandro conservatosi fino a noi il limite è descritto in termini di ubriV, ossia di violenza e di prevaricazione delle cose fra loro, una sorta di ingiustizia di cui le cose pagano il fio con la distruzione (al che provvede il processo del nascere e del perire): "principio delle cose che sono è l’illimitato… donde le cose che sono hanno la generazione, e là hanno anche il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo". Sulla scia di Talete, Anassimandro fa leva sul senso comune, spiegando l’ingiustizia cosmica attraverso le ingiustizie che patiamo quotidianamente. Con Anassimene (VI secolo a.C.), invece, la filosofia in terra di Ionia compie un passo indietro: anch’egli autore di un’opera in prosa intitolata Sulla natura (Peri fusewV), abbandona l’indagine "astratta" intrapresa da Anassimandro e torna alla ricerca di un unico principio materiale, che egli individua non già nell’acqua, bensì nell’aria. Quanto anche la sua sia una filosofia del senso comune lo si può facilmente arguire dall’importanza rivestita dall’aria per la nostra vita, in particolare per la respirazione: secondo Anassimene, l’aria opera a livello cosmico come a livello umano, cosicché essa dà origine e tiene in vita tanto gli uomini quanto l’universo nel suo insieme. Per spiegare il processo di derivazione degli elementi (terra, acqua, fuoco) dall’aria, egli fa riferimento a due processi contrari: la rarefazione e la condensazione. L’acqua riscaldata, infatti, si trasforma in aria, e così via. In questa maniera, le trasformazioni del mondo vengono spiegate come trasformazioni dell’aria, giacchè tutte le cose costituenti l’universo non sono che aria in un diverso grado di densità. I filosofi ionici, a rigore, non si esauriscono nella triade Talete/Anassimandro/Anassimene: anche Eraclito di Efeso rientra in certo modo nel loro novero. Vissuto ad Efeso a cavallo tra VI e V secolo a.C., egli è foriero, in ambito fisico, di una tesi assai originale. A suo avviso, il mondo non è il prodotto di una divinità o di un ordinamento di tipo umano, bensì risponde ad un unico ed eterno ordine universale (il LogoV) costituente e fondante l’essenza del cosmo: tale ordine universale viene da Eraclito identificato nel "fuoco sempre vivente", sicchè la sua può essere a ragione qualificata come una cosmologia del fuoco (pur). Si tratta, al pari dell’acqua di Talete e dell’aria di Anassimene, di un principio di natura materiale: è un fuoco sempre vivente, tale da non perire mai ma da andare tuttavia incontro ad una vicenda che consente ad Eraclito di spiegare il processo di generazione e corruzione. Aristotele – che pure non fa mistero della difficoltà di decifrare Eraclito – sbaglia interpretazione nel momento in cui classifica il filosofo di Efeso come mero ricercatore dell’unico arch, giacchè il fuoco (pur essendo materiale) non dev’essere qui inteso come un unico principio, ma piuttosto come un qualcosa a cui riferirsi per analogia; in altri termini, il fuoco è per Eraclito l’emblema di ciò che accade a livello cosmico, ove ogni cosa muta incessantemente, ora nascendo, ora perendo, proprio come il fuoco alternativamente si accende e si spegne. Il Sole stesso (contenente fuoco) – egli nota – brilla di giorno e si spegne di notte. Tale concezione si riverbera in maniera netta sulla visione che Eraclito ha del mondo: esso risulta essere una totalità ordinata (e "non un mucchio") la cui vicenda è scandita secondo momenti che si ripetono sempre uguali. Il divenire universale implica un passaggio tra opposti (nascere/perire) da cui traggono origine tutti gli altri (sonno/veglia, malattia/salute, ecc): sicchè ciascuno di esse deve perire affinché possa nascere il suo opposto; ciò significa, allora, che gli opposti non sono se non momenti tra loro in guerra. Quest’ultima è l’essenza intima della realtà o, per dirla con Eraclito, "è padre di tutte le cose": l’universo, così inteso, è un insieme di contrari in guerra reciproca, ma esso risulta non già dal caotico guerreggiare de medesimi, bensì dall’armonica unità dei contrari, compresenti in ogni cosa. La guerra tra gli opposti non esprime, allora, una prevaricazione di ciascuna cosa su tutte le altre (come credeva Anassimandro), ma è anzi la legge regolante il cosmo e che può essere compendiata nell’espressione scolastica di coincidentia oppositorum. In questo senso, sbaglia quella tradizione stereotipata che ci presenta Eraclito esclusivamente come il "filosofo del divenire" (tale etichetta meglio si attaglia al suo discepolo Cratilo): egli è sì il filosofo del divenire, ma ancora di più quello della coincidenza degli opposti. Pertanto, quando egli dice che "negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo" sta suggerendoci ancora una volta l’armonica unità dei contrari, per cui si è e insieme non si è immersi nelle acque. Dalle coste dell’Asia Minore saltiamo ora a quelle dell’Italia meridionale e, più precisamente, della Calabria: la scena si sposta in concomitanza con una figura anch’essa nativa della Ionia ma poi trasferitasi a Crotone per via dei dissensi col tiranno Policrate; questa figura ai confini con la leggenda è quella di Pitagora di Samo, fondatore della prima scuola filosofica che la storia ricordi. In realtà, più che di una scuola, si tratta di una comunità filosofica, religiosa e politica (in certo senso si può anche parlare di "setta" religiosa) i cui membri conducevano vita comune e venivano iniziati. Le vicende della comunità – il cui orientamento politico era decisamente aristocratico – e di Pitagora si concludono quando Crotone diviene sede di una rivolta democratica che porta alla distruzione della scuola e alla dispersione dei suoi membri. Tratto saliente dei Pitagorici è il marcato ascetismo a cui essi fanno capo: la pratica di non mangiare carni (la commedia greca ce li rappresenta ironicamente come dei morti di fame) e la credenza (di marca orfica) nella trasmigrazione delle anime e nelle loro espiazioni di colpe sono i pilastri della vita pitagorica; con loro prende via la tradizione del corpo come tomba dell’anima destinata – attraverso Platone prima e attraverso il cristianesimo dopo – a segnare in maniera indelebile la cultura occidentale. La cosa curiosa è che Pitagora ci è presentato come politico, come etico, come fisico e come matematico: insomma, come una figura a trecentosessanta gradi. Nel primo libro della Metafisica, Aristotele attribuisce ai Pitagorici la dottrina per cui i numeri costituiscono l’essenza di tutte le cose, tant’è che per lo Stagirita essi rientrano tra i primi indagatori della natura, sebbene non rinvengano l’arch in un unico principio, ma in una miriade di principi (i numeri); il che fa di loro non già dei monisti, bensì dei pluralisti. Tuttavia non è chiaro a quali Pitagorici faccia riferimento Aristotele (a quelli originari o a quelli a lui contemporanei?): pare difficile che egli alluda ai primi, anche perché la tradizione attesta che il nucleo originario dei loro insegnamenti fosse rigorosamente impartito per via orale e, come se ciò non bastasse, i destinatari erano tenuti al silenzio; solo più tardi, con Filolao di Crotone e Archita (IV secolo a.C. quasi), i Pitagorici mettono per iscritto le loro dottrine ed è dunque presumibile che ad essi alluda Aristotele. Dire che i numeri costituiscono l’essenza delle cose equivale a dire che ne sono la forma: essi sono cioè quel che fa sì che le cose siano quel che sono. Per effettuare i calcolo, i Pitagorici ricorrevano a pietruzze tramite le quali rappresentavano visivamente i numeri (una pietra rappresentava l’uno, due pietre il due, e così via), con l’inevitabile conseguenza che mancava lo zero; in virtù di questa concezione figurata dei numeri, essi erano inoltre in grado di rappresentare le cose: ad esempio, quattro pietruzze rappresentavano il quadrato, tre il triangolo, e così via. Da ciò segue che la forma delle cose può essere espressa in rapporti numerici, cosicché la forma non è mai casuale, ma sempre ordinata: ne risulta un universo matematizzato, ove i rapporti tra le parti sono esprimibili numericamente, con la conseguenza che il mondo stesso è perfettamente conoscibile in forza del fatto che "i numeri non mentono mai" (Filolao). Avvalendosi dei numeri, i Pitagorici spiegavano perfino i concetti astratti: così la giustizia è espressa dal 4 e dal 9, che sono i quadrati del primo numero pari e del primo dispari (l’1 non è né pari né dispari: è il parimpari, nel senso che, aggiunto ad un pari, lo rende dispari, e viceversa), il 5 esprime il matrimonio (3+2, dove 3 è il sesso maschile, 2 il femminile). Naturalmente questa mistica dei numeri esula completamente dalla scienza impiegata per investigare numericamente il cosmo. Stando ad Aristotele, i Pitagorici avrebbero spiegato col loro impianto numerico anche l’organizzazione del cielo: il 10 è, per loro, il numero sacro su cui giurare, poiché è la "tetrattide" (tetraktuV) compendiante in sé l’universo (l’1 è il punto, il 2 la linea, il 3 la superficie, il 4 il solido: 1+2+3+4=10). Ed è su tale base "mistica" che innestano la loro teoria astronomica: l’universo è organizzato intorno al fuoco centrale, accostato metaforicamente al focolare della casa o a quello del tempio. Attorno al fuoco ruotano terra, luna e tutti gli altri pianeti fino al cielo delle stelle fisse: in questo modo, però, si arriva solo fino a nove pianeti ed è proprio per arrivare a dieci (la tetrattide) che essi aggiungono una anti-Terra, situata tra fuoco e Terra. La cosa forse più interessante, nel discorso pitagorico, è che per la prima volta nella storia la Terra non occupa il centro dell’universo. I Pitagorici erano altresì convinti che dai cieli provenisse una musica che solo pochi eletti potevano percepire. La presa di posizione di Parmenide e della scuola eleatica che a lui fa capo segna un punto di svolta decisivo nell’indagine sulla natura. Fondatore di una scuola filosofica sulla costa campana a sud di Salerno (a Elea, poi Velia), Parmenide compone il suo poema Sulla natura in esametri, il metro tipico dell’epica, benché lo scritto parmenideo di poesia –oltre alla forma – non possegga nulla. Il protagonista del poema è, significativamente, Parmenide stesso, che in prima persona narra di un viaggio avvenuto sotto la guida di una divinità che l’avrebbe portato a varcare la porta che separa la luce dalle tenebre; qui egli avrebbe ricevuto dalla dea l’insegnamento che intende comunicare agli altri uomini. Il nucleo del poema è dunque il contenuto del messaggio divino, che fin dall’inizio (fr.1) riguarda ciò che può essere pensato e detto, ovvero l’oggetto autentico del pensiero quale può essere espresso nel linguaggio. Rispetto ai predecessori – che muovevano pressoché sempre da ciò che cadeva sotto gli occhi di tutti -, Parmenide cambia rotta e parte non già dall’empiria per giungere all’invisibile, bensì da ciò che ai sensi sfugge per poi spiegare ciò che sotto di essi cade. E il punto d’avvio è costituito da ciò che può essere autenticamente pensato e detto (si tratta quindi di un punto di partenza logico/gnoseologico); in particolare, questo punto di vista è incentrato su quello che, da Aristotele in poi, è passato alla storia come "opposizione di contraddizione", ove l’opposizione sussiste tra l’essere e il non-essere. La dea illumina Parmenide su ciò che si può pensare e dire (l’essere), di contro a ciò che né si può pensare né si può dire (il non-essere). E ciò che si può autenticamente pensare e dire è solo ciò che è, mentre ciò che non è non può essere pensato e detto, poiché pensare ciò che non è equivale per Parmenide a non pensare niente, dire ciò che non è equivale a non dir nulla. Ciò implica, allora, una netta indistinzione tra logica e ontologia. In base a questi presupposti, la dea addita a Parmenide la via della verità, quella che dice che "solo ciò che è può essere pensato e detto"; la via da non seguire (perché porta al falso) è quella opposta, la via di ciò che non è e che non può essere pensato e detto. Dopo aver succintamente delineato i capisaldi logici della riflessione parmenidea, analizziamo ora la sua speculazione in sede fisica: in opposizione alla via della verità – la sola realmente percorribile -, gli uomini comuni imboccano una terza via pericolosissima, la via dell’opinione; è una via ancora più insidiosa rispetto a quella falsa che dice che ciò che non è può essere pensato e detto, giacchè la via opinativa non è che la pseudoconoscenza che trae origine dal mondo empirico sensorialmente conosciuto. I sensi, infatti, illudono gli uomini, facendo loro credere che le cose divengano incessantemente (tale era stato l’errore di Eraclito e di Cratilo), in una continua vicenda di essere e non-essere, per cui le cose non sono sempre state né sempre saranno, bensì ora sono, domani non sono. Ne nasce l’illusione che l’essere e il non-essere si implichino continuamente a vicenda, là dove la via della verità asserisce che essi si elidono mutuamente. Connessa al divenire è l’idea della molteplicità e del movimento: in questo senso, il mondo appare come una molteplicità di cose in movimento costante e – cosa ancor più grave – gli uomini finiscono per credere che questa sia la via della verità. Con Parmenide è per la prima volta sistematizzata la distinzione tra conoscenza sensibile (svuotata di significato e meramente doxastica) e conoscenza intelligibile (l’unica vera), distinzione destinata a non essere mai più persa di vista nella tradizione successiva. Si tratta di una posizione che svaluta massimamente la fisica e il mondo naturale, inteso come sede dell’inganno: le cose di natura divengono, nascono (cioè vengono ad essere dal non essere) e muoiono (passano cioè dall’essere al non essere); la natura è dunque da Parmenide destituita di ogni fondamento e, con essa, è messa al bando la nozione di molteplicità e di movimento. In questa maniera, la riflessione parmenidea sfocia in un monismo radicale, per cui dell’essere si parla in un unico senso ed è nettamente esclusa l’eventualità del divenire, della molteplicità e del moto. Con tale esclusione, Parmenide si pone al di fuori del novero degli indagatori della natura e – per dirla con Aristotele – egli ha fatto ricerche di altro genere. Ma la posizione da lui maturata costituisce un insormontabile ostacolo per le altre, poiché pone i successori nella necessità di contravvenire il suo divieto (solo ciò che è è pensabile e dicibile): per riabilitare la natura come realtà in senso pieno e per di più come realtà indagabile scientificamente, i successori di Parmenide (i cosiddetti "pluralisti") dovranno riabilitare innanzitutto le nozioni di movimento e di molteplicità; compito reso ulteriormente difficile dal fatto che i discepoli di Parmenide – Zenone e Melisso – elaborano una congerie di argomentazioni inoppugnabili in difesa delle tesi del maestro: i "pluralisti" si troveranno dunque nella difficile situazione di dover aprire una guerra su più fronti (fisico, ontologico, logico). Aristotele ci riferisce che i pensatori immediatamente successivi a Parmenide – anch’essi etichettati come fusiologoi - sono diversi dai naturalisti ionici poiché, a differenza di questi, assumono alla base della realtà una pluralità di principi, in antitesi al monismo parmenideo: con questi "pluralisti" (così detti perché spiegano la realtà con una pluralità di principi), dell’essere si parla finalmente in molti sensi, benché essi restino saldamente legati ad una concezione dell’essere come materia. Dunque, pur distinguendosi dagli Ionici per l’assunzione di una pluralità di principi (e non di uno solo), i "pluralisti" restano vicini ai loro predecessori ionici nella misura in cui continuano a ritenere di natura materiale i principi costitutivi della realtà. I personaggi più importanti della schiera pluralista sono essenzialmente tre: Empedocle di Agrigento, Anassagora di Clazomene, Democrito di Abdera. Il primo di essi – Empedocle –, operativo all’inizio del V secolo ad Agrigento, presenta ancora i tratti dell’antico sapiente che stende in versi la propria opera e che si occupa di tutto (di medicina, di fisica, di religione, ecc). Discendente da nobile famiglia, Empedocle sceglie di scrivere in versi perché ai suoi tempi la poesia era un’autorità da tutti riconosciuta, che tendeva a meglio diffondersi rispetto alla prosa; a differenza di Parmenide, che dalla poesia aveva ereditato esclusivamente la forma, Empedocle ne assume anche il linguaggio altisonante e roboante, tant’è che Aristotele lo considera l’inventore della retorica. C’è un alone di mistero che circonda le sue opere: il suo scritto principale – intitolato Sulla natura – è affiancato da un altro scritto, tradizionalmente noto come Purificazioni. Il mistero risiede nel fatto che le due opere trattino di cose diversissime tra loro, a tal punto da far dubitare dell’autentica paternità di Empedocle: il Sulla natura è un’opera sensu stricto fisica, mentre dalle Purificazioni traspaiono palesemente influenze pitagoriche ed orfiche, nella misura in cui Empedocle propugna l’immortalità dell’anima (che nel Sulla natura era detta mortale) e la metempsicosi. Le due opere, pertanto, ci restituiscono un Empedocle diverso e, paradossalmente, antitetico. Il mistero si infittisce nel momento in cui ci si chiede se le Purificazioni siano un’opera autonoma o, piuttosto, una parte integrante del Sulla natura. E, in quest’ultimo caso, occorre anche domandarsi in quale parte del Sulla natura debbano essere collocate (all’inizio? alla fine?). Misterioso è anche il fatto che Aristotele sembri conoscere solamente l’Empedocle del Sulla natura e che mai menzioni le Purificazioni (che non conoscesse tale opera pare assai difficile, data la straordinaria erudizione che lo caratterizza). Messo in luce il "giallo" intorno alla figura di Empedocle, proviamo ora a ricostruirne la fisica, alla luce di quanto egli stesso ci ha lasciato nel suo poema Sulla natura: qui, egli spiega la formazione del mondo a partire dall’empiria, ovvero da quel mondo in continuo fieri tanto aborrito da Parmenide. Occorre trovare a fondamento della realtà una pluralità di principi aventi caratteristiche tali da rispettare le norme fissate da Parmenide per il suo essere: unicità (se l’essere fosse molteplice, sarebbe uno e non sarebbe uno, cioè sarebbe e non sarebbe), immobilità (se l’essere fosse in moto, ora sarebbe qui e ora non sarebbe qui, cioè sarebbe e non sarebbe), eternità (se l’essere fosse generato, verrebbe ad essere mentre prima non era). Se si vuole fondare con certezza la realtà spiegandone il divenire e salvando i fenomeni (presupposto a cui tutti i "pluralisti" restano fedeli) senza trasgredire le norme parmenidee, occorre rinvenire più principi aventi tutti le caratteristiche dell’essere parmenideo. Debbono essere molti, poiché altrimenti non si spiegherebbero le molte facce in cui il reale si presenta. Empedocle ritiene di aver individuato i principi in quattro elementi: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. Tali principi vengono da lui denominati radici (rizomata), a sottolineare come essi facciano nascere la realtà e le conferiscano stabilità. Poste a fondamento del reale le quattro "radici", Empedocle arriva a divinizzarle, cosa che può sembrare strana soprattutto se riferita alla terra, che rappresenta il basso. Esse sono all’origine della corruzione e della generazione, pur essendo esse stesse sottratte a tali processi: le cose che cadono sotto i nostri sensi nascono e muoiono non già nel senso che passino dal non essere all’essere e viceversa, bensì nel senso che siano il frutto dell’aggregazione (nascita) e della disgregazione (morte) delle quattro radici, le quali sono però eterne, immutabili, immobili. L’intera realtà – ivi compresi gli dei e l’anima – rientrano in tale processo di aggregazione e corruzione; solamente le quattro radici (corrispondenti all’essere parmenideo) ne restano fuori. Ciascun aggregato è il prodotto della combinazione delle radici, con la conseguenza che il fondamento della realtà è una struttura invisibile soggiacente a quella visibile e tale da spiegarla. Aristotele nota sagacemente che nella ricerca delle cause Empedocle compie un gran passo avanti, distinguendo per la prima volta tra la causa materiale e quella efficiente (detta "causa del movimento"): infatti, per spiegare come le quattro radici possano combinarsi e separarsi, Empedocle fa riferimento ad altre due cause, da lui chiamate Amore e Odio. Sicchè la generazione delle cose nasce dall’unione delle quattro radici in forza dell’azione dell’Amore, mentre la disgregazione è il frutto dell’agire dell’Odio. In questo senso, la cosmologia empedoclea non è che la proiezione sul mondo delle regole (l’odio e l’amore) stanti alla base dei rapporti umani. Amore e Odio agiscono dunque come causa del movimento delle quattro radici, ma non è in alcun caso possibile – nota Aristotele – attribuire ad essi la funzione di cause formali e finali: infatti, non agiscono in vista di un qualche fine, ma il loro processo è anzi, in certo senso, retto dal caso; in realtà Empedocle, alla parola "caso", preferisce "armonia": il processo messo in moto da Amore e Odio è sì casuale, ma tale da creare un’armonia. Il cosmo stesso si configura agli occhi di Empedocle come una totalità ordinata, giacchè soggetto ad una vicenda ciclica che attraversa varie fasi: dapprima prevale l’Amore e le quattro radici si trovano commiste fra loro; poi subentra l’Odio che, introducendo divisioni, permette la nascita dei viventi; in seguito l’Odio prevale e le quattro radici sono del tutto divise. A questo punto, termina il ciclo e riprende da capo. Si tratta di una vicenda ciclica non scandita da divinità, ma autoregolantesi. Con la figura di Anassagora di Clazomene la filosofia sbarca ad Atene (462 a.C.) e da questo momento per i due secoli venturi la città dell’Attica resterà il fulcro della vita intellettuale della Grecia, fino a che il primato passerà – in età ellenistica – ad Alessandria d’Egitto. Quando Anassagora giunge ad Atene, trova una città magnifica, che sta vivendo sotto Pericle i suoi anni più splendidi sul piano culturale (è in quest’epoca che vi operano Sofocle, Euripide, Erodoto e Fidia). Raggiunta Atene, la filosofia muta volto: il naturalismo ionico subisce un’autentica trasfigurazione e lo stesso naturalismo anassagoreo è accusato di empietà, con un processo analogo a quello che vedrà successivamente coinvolti Protagora e Socrate. Proprio in Socrate il naturalismo di cui Anassagora si fa portavoce troverà un ostacolo insormontabile nella propria diffusione. Anche Anassagora, al pari di Empedocle, si interroga sulla costituzione del mondo in termini pluralistici (facendo cioè riferimento a principi molteplici stanti alla base della realtà e tali da spiegarne la molteplicità). Se Empedocle era ricorso a quattro "radici", Anassagora è invece convinto che a rendere conto del mondo possano essere un’infinità di principi infinitamente divisibili: è questa l’unica maniera per spiegare l’infinita varietà in cui si articola il reale. Anch’egli, come Empedocle, ricorre ad un referente di tipo biologico: i principi primi sono da lui detti "semi" (spermata) di tutte le cose, ad evidenziarne la funzione (i semi sono in natura ciò da cui tutto nasce). Dunque anche Anassagora innalza a livello cosmico la realtà quotidianamente esperita. Aristotele, quando parla dei "semi" anassagorei, li etichetta come "omeomerie", ovvero come "parti simili" (omoioV + meroV), a sottolineare come essi siano a loro volta composti da un’infinità di parti simili fra loro. Dal combinarsi dei semi, nascono i vari composti che cadono sotto i nostri sensi: ciascuno di tali composti è una mescolanza di tutti gli infiniti semi, cosicché Anassagora può a ragion veduta asserire che "tutto è in tutto". In ogni oggetto ci sono tutti gli infiniti semi, ma non in egual quantità: anzi, l’oggetto è quel che è in forza della prevalenza numerica di determinati semi (il pane è tale perché in esso i semi di pane sono in netta maggioranza su tutti gli altri infiniti semi, che pure sono presenti). Tuttavia noi percepiamo sempre e solo i composti, mai i semi di per sé: non meno delle radici empedoclee, i semi anassagorei rappresentano la struttura profonda del reale visibile ai soli occhi della mente. E dagli oggetti visibili – che nascono dall’aggregazione dei semi – noi muoviamo per conoscere intellettualmente i semi: per meglio chiarire questo punto nodale, Anassagora adduce l’esempio dell’alimentazione. Quando mangiamo il pane, noi cresciamo in parti diverse (carni, peli, unghie, capelli, ecc), poiché nel pezzo di pane che ingeriamo sono compresenti tutti gli infiniti semi (anche della carne, del sangue, delle unghie, ecc); sicchè, mangiando il pane, stiamo non di meno mangiando anche la carne, il sangue, le unghie, ecc. Questo spiega il celebre frammento di Anassagora secondo cui "oyiV adelwn ta fainomena", che in italiano suona: "il visibile è uno sguardo lanciato sull’invisibile"; le cose che cadono sotto i nostri sensi rimandano ai semi costituenti il reale. Non è chiaro se Anassagora riconosca la possibilità dell’esistenza di infiniti mondi, benché tale possibilità sia pienamente compatibile con l’infinità dei semi. Anche per lui, i processi del divenire dipendono dall’aggregazione e dalla disgregazione dei semi (per questa via, il problema eleatico è aggirato): stando così le cose, quale causa mette in movimento, in origine, i processi del divenire? Se Empedocle aveva mobilitato l’Amore e l’Odio, Anassagora scomoda un solo principio e sostiene che, nell’indistinzione (migma) originaria dei semi, è il NouV (Intelligenza) a porre ordine; esso è un principio intelligente che mette in moto i semi. In sintonia con la tradizione a lui precedente, Anassagora individua un principio caratterizzante la vita umana (l’intelligenza) e lo assume come ordinatore del tutto. Platone prima e Aristotele dopo notano con entusiasmo la novità introdotta da Anassagora: per la prima volta compare sulla scena, come principio in grado di spiegare il mondo, un’Intelligenza ordinatrice. Pur non asserendo in alcun luogo che l’Intelligenza sia separata, egli insiste nel sottolineare come essa sia comandante assoluto della materia senza a sua volta essere comandata. Aristotele precisa che non ci si deve far trarre in inganno dalla terminologia anassagorea e credere che, parlando di Intelligenza, questi abbia introdotto una causa finale o formale: l’Intelligenza, infatti, non forma le cose in vista di alcun fine; prova ne è – nota Aristotele – che le cose determinate si formino per mera prevalenza quantitativa, ovvero secondo un criterio accidentale. Ciò non toglie, tuttavia, che Anassagora, pur non essendo stato così lungimirante da cogliere la causa finale (l’Intelligenza è e resta una causa efficiente), paia ad Aristotele "un sobrio in mezzo a degli ubriachi", giacchè egli solo ha identificato il principio ordinatore del cosmo in un’Intelligenza; questa – prosegue lo Stagirita – è stata da Anassagora impiegata come il deus ex machina, il Dio calato in scena dai tragediografi per sciogliere i nodi della vicenda. Con Diogene di Apollonia (metà del V secolo a.C. circa), la filosofia pare bruscamente far marcia indietro verso le posizioni elaborate dai naturalisti ionici e oramai superate dai "pluralisti": Diogene, infatti, è convinto che la realtà quale ci appare possa essere spiegata scomodando un solo principio e per di più di ordine materiale. In sintonia con Anassimene, egli ritiene che tale principio possa essere ravvisato nell’aria, il che – nota Diogene – risulta particolarmente evidente se prestiamo attenzione a quanta importanza abbia l’aria per la vita. Ma gli insegnamenti di Anassagora – che forse Diogene ebbe modo di conoscere – non sono passati invano: Diogene, infatti, identifica l’arch nell’aria (cosa che fa di lui, in certo senso, uno "Ionico in ritardo"), ma poi conferisce a tale principio quell’intelligenza che Anassagora aveva attribuito al NouV. L’aria è dunque un principio dotato di intelligenza tale da agire in maniera finalistica (e qui sta la grande novità apportata da Diogene), organizzando le cose nel miglior modo possibile. In virtù dell’aria e delle sue qualità è poi possibile distinguere una pluralità di fasce climatiche nel mondo, le quali influenzano in maniera necessitante il carattere degli individui che in esse vivono: in ciò risiede quello che potremmo definire come "determinismo ambientale" di Diogene. Gli uomini che conducono la loro esistenza in zone particolarmente arieggiate e secche – è questo il caso dei Greci – riveleranno una particolare acutezza d’ingegno, mentre quelli che vivono là dove l’aria è umida e pesante, risulteranno più tardi e meno svegli. Un determinismo ambientale affine a quello emerso in Diogene di Apollonia ritorna nello scritto medico – appartenente al corpo ippocratico - intitolato Arie, acque, luoghi: il medico deve prestare particolare attenzione ai luoghi, all’aria e all’acqua che caratterizzano l’ambiente giacchè egli deve scientemente tenerne conto nella prescrizione delle diete e nella diagnosi delle malattie (che trovano nell’aria uno dei principali veicoli di trasmissione). Il messaggio che emerge dallo scritto è che le arie, le acque e i luoghi condizionano in maniera imprescindibile la costituzione umana, sia nel bene sia nel male, cosicché il buon medico dovrà conoscere in maniera adeguata l’ambiente circostante per poter così meglio svolgere la sua attività terapeutica. In questa prospettiva, l’autore dello scritto si lancia in un’autentica fisiognomica ambientale, facendo corrispondere a determinati individui determinati territori (ad esempio, chi è nato in zone boscose presenterà specifiche caratteristiche, e così via); tale corrispondenza si riverbera anche sui popoli: in particolare, l’autore di Arie, acque, luoghi instaura un raffronto tra i Greci e gli Orientali, notando come questi ultimi – poiché viventi in zone calde e secche – siano generalmente indolenti e pigri e, in forza di ciò, facilmente governati da tiranni. Al contrario, il clima solare e felice dei Greci fa sì ch’essi siano particolarmente briosi e agguerriti, pronti al pensiero come all’abbattimento delle tirannidi. Stante l’indiscutibile necessità della natura, resta però un interstizio in cui può inserirsi la libertà umana: tale è l’istituzione politica (nomoV), grazie alla quale l’uomo può liberamente ritagliarsi uno spazio d’azione i cui confini non possono essere varcati dall’agire necessitante della natura. Così, le popolazioni orientali sono rette da grandi dispotismi e il nomoV coopera a renderle militarmente inette (manca del tutto l’interesse a ribellarsi alla tirannide); sull’altro versante, il clima e l’ambiente greco sottopongono l’uomo a cambiamenti rapidi, come rapido dev’essere il pensiero: e le istituzioni politiche presso di loro in uso non fanno che cooperare col clima controbilanciandone la necessità. Lo spazio riservato dall’autore dello scritto al nomoV è parecchio, tant’è che egli arriva addirittura a riconoscere come il nomoV possa diventare una seconda natura: per chiarire questo punto, egli adduce l’esempio della popolazione dei Macrocefali, presso la quale era segno di prestigio avere la testa schiacciata; per questo motivo, la testa dei bambini veniva schiacciata, cosicché – nota l’autore dello scritto -, a furia di schiacciarla, le generazioni future sarebbero nate già con la testa schiacciata. In questo senso, il nomoV può perfino trionfare sulla fusiV: anzi, nomoV e fusiV sono per l’autore ippocratico due entità combinatisi fra loro. I Sofisti, dal canto loro, tendono a leggerle piuttosto come due realtà opponentisi. Anche l’atomismo si configura come teoria "pluralistica" che si propone di spiegare il cosmo senza trasgredire le prescrizioni parmenidee: l’iniziatore della corrente atomistica sembra essere stato Leucippo, figura che per noi non è che un nome, visto la scarsissima quantità di materiale sul suo conto che possediamo; ben di più sappiamo sul suo collega Democrito di Abdera, il quale scrisse – come i Sofisti – una miriade di opere sui più svariati argomenti, benché di esse non ci siano giunti che frammenti. Anche Democrito, come già Anassagora, assume come struttura della realtà invisibile ad occhio nudo un’infinità di principi, ancorché questi non siano infinitamente divisibili: se infatti tutto fosse divisibile all’infinito, allora il mondo avrebbe dovuto cessare di essere già da tempo. I principi primi della realtà come li intende Democrito debbono essere pieni e privi di parti: tali sono quelli che egli definisce atoma swmata, ovvero – letteralmente - "corpi non ulteriormente tagliabili", costituenti la struttura profonda del reale. Questi "atomi", per potersi muovere e per consentire la generazione e la corruzione dei composti, devono avere uno spazio entro cui muoversi ed è per questa ragione che Democrito introduce come secondo principio il vuoto (to kenon), condizione imprescindibile del moto atomico. Gli stessi aggregati non sono che unioni di atomi e vuoto: il che è provato dal fatto che, consumandosi, i corpi cedono atomi e, perché ciò possa avvenire, dev’esserci il vuoto. Con terminologia eleatica, Democrito chiama gli atomi e il vuoto rispettivamente "essere" e "non essere"; egli asserisce poi – riprendendo l’antitesi sofistica - che la conoscenza intellettuale (avente come oggetto gli atomi e il vuoto) è kata fusin (secondo natura), mentre quella degli aggregati è kata nomon (secondo convenzione). Sicchè secondo natura conosciamo gli atomi e il vuoto, secondo convenzione il bianco, il profumato, ecc. Le cose che costantemente esperiamo non sono dunque la verità, ma mera parvenza. Essendo gli atomi infiniti, infiniti saranno anche i mondi che dalla loro aggregazione trarranno origine, cosicché Democrito può relativizzare la vita che conduciamo sul nostro e può inoltre evitare di far ricorso a cause extra-materiali. Incarnando in sé l’essere parmenideo (ed essendo dunque immutabili, eterni, incorruttibili), gli atomi come si distinguono fra loro? Per Empedocle e Anassagora, i principi si differenziano qualitativamente, il che tra l’altro spiega perché i corpi composti presentino qualità; per Democrito invece – stando a quel che riferisce Aristotele – gli atomi si differenziano fra loro per caratteristiche quantitative. Per far luce su questo punto della dottrina democritea, Aristotele esemplifica servendosi delle lettere dell’alfabeto, che egli chiama stoiceia: e stoiceia sono anche gli "elementi", con la conseguenza che gli atomi sono un po’ come le lettere dell’alfabeto e il mondo che ne risulta si presenta come una sorta di libro le cui lettere sono gli atomi. Per forma (rusmoV) gli atomi si distinguono fra loro come la A si distingue dalla N; per ordine (diaqigh) come AN da NA; per posizione (troph) come Z da N. Si tratta evidentemente di differenze puramente geometriche, con caratteristiche misurabili. Tuttavia Democrito si spingeva oltre: pare infatti che, poste queste tre differenze di base, egli asserisse che gli atomi sono dotati di un numero incalcolabile di differenze, a tal punto che egli finisce col riconoscere – il che gli costerà la derisione da parte dei suoi avversari – l’esistenza di atomi di forma uncinata. Il problema cui Democrito è chiamato a rispondere è che, se gli atomi sono quantitativamente connotati, come si spiega che poi noi percepiamo qualitativamente i composti? Perché se la rosa non è che un aggregato di quantità noi la percepiamo rossa, profumata, ecc? Per render conto di ciò, Democrito spiega le qualità come epifenomeni delle quantità, cosicché il bianco deriverebbe da un assetto casuale dato dall’unione di atomi: la rosa non è che un aggregato di atomi quantitativamente connotati che però, colpendo i nostri organi di senso, generano impressioni qualitative (il profumo, il colore rosso, ecc). Un altro problema su cui Democrito deve affaticarsi riguarda la natura stessa degli atomi: se essi sono corpi invisibili e indivisibili, allora non avranno parti e saranno come enti geometrici; ma allora come è possibile ch’essi, privi di parti, si aggreghino e formino corpi divisibili costituiti da parti? Come possono muoversi? Democrito sostiene che gli atomi sono ab aeterno dotati di moto (il che implica il vuoto in eterno) e, più precisamente, si muovono in qualunque direzione senza tregua, con la conseguenza che possono casualmente incontrarsi e aggregarsi (ciò nel caso in cui le forme siano compatibili, come ad esempio quando si incontrano atomi ad uncino e atomi ad anello). A regolare il moto degli atomi non è una forza esterna o un adivinità: l’unica legge (se in questo caso di legge si può parlare) regolante il loro movimento è il caso, non già nel senso ch’essi si muovano senza causa, bensì nel senso che il loro è un moto spontaneo, scevro di finalità e non extra-naturale: è un moto che tiene conto della legge per cui il simile attira il simile. Tutto risponde ad una ragione e ad una ferrea necessità. Oltre a negare la causa finale, l’atomismo nega quella efficiente – nota Aristotele -, giacchè per Democrito essa non è se non una proprietà della materia. Con Democrito si esauriscono le filosofie della natura del V secolo a.C. prima di Platone. Mentre Anassagora e Democrito erano attivi, già operava ad Atene quella nuova figura di filosofo che è Socrate, che dalla città attica mai si allontanò. La prima difficoltà che s’incontra nel ricostruire il suo pensiero risiede nel fatto che egli non ha scritto nulla, benché le opere su di lui siano assai numerose. Nel 423 a.C., il commediografo Aristofane mette in scena Le nuvole, un’indiavolata commedia al cui centro è proprio la figura di Socrate (quella di Aristofane è la testimonianza più antica su Socrate), sebbene trasfigurata dalle esigenze comiche proprie dell’opera. Stando a quel che dice il suo allievo Platone, Socrate sceglie volutamente di non scrivere e di occuparsi di valori umani anziché di fisica; le conoscenze naturalistiche, infatti, hanno ben poco da insegnare e così egli si esprime nel Fedro (230 d): "a me piace apprendere, ma la campagna e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, a differenza degli uomini della città". Sempre nel Fedro (274 b e seguenti) è spiegata – con il mito di Theuth - la scelta socratica di non affidare alla scrittura il proprio messaggio filosofico: la vera filosofia è quella orale, attuatesi dialogicamente nella pratica della domanda e della risposta, mentre lo scritto è "un bronzo percosso", ovvero un bronzo che, colpito, dà sempre lo stesso suono. La testimonianza di Platone (peraltro avvalorata da Senofonte, anch’egli discepolo di Socrate) parrebbe dunque diametralmente opposta a quella di Aristofane: ne Le nuvole, infatti, Socrate ci è presentato non già come il filosofo dei valori umani, che antepone gli uomini alla natura (Fedro) e che attacca su più fronti i sofisti (Sofista, Teeteto, Apologia, ecc), bensì – e qui sta l’aspetto paradossale – come un naturalista che identifica le nuvole in divinità! In forza di ciò, Socrate è messo in scena all’interno di una cesta (il "pensatoio") sospesa a mezz’aria ed è addirittura tratteggiato come un venditore di sapere, capace di far trionfare il Discorso ingiusto su quello Giusto; in altri termini, il Socrate che Aristofane propone è un naturalista empio e assai vicino alla sofistica. E del resto questa era l’immagine che doveva far maggior presa sull’animo degli Ateniesi, se è vero che nell’Apologia Socrate ravvisa nelle "antiche accuse" (quelle appunto mossegli sulla scena da Aristofane) l’origine delle sue disavventure giudiziarie. Stando così le cose, parrebbe che la posizione socratica sia alquanto prossima a quella anassagorea, in quanto entrambe incentrate sull’indagine naturalistica, quando in realtà Platone non fa che ripeterci che Socrate mai si interessò di fisica. La lontananza tra le intenzioni animanti il pensiero di Socrate e quello di Anassagora sono ancora meglio lumeggiate nel Fedone platonico, ambientato nelle ore che precedono la morte di Socrate: in quest’opera sull’immortalità dell’anima, il filosofo ateniese narra il proprio itinerario intellettuale a partire dai suoi iniziali interessamenti per le ricerche naturalistiche, che presto avrebbe abbandonato per dedicarsi a trecentosessanta gradi all’uomo e ai suoi valori. A quell’epoca risale la sua attenzione per il pensiero di Anassagora: ma, dopo essersi procurato e aver letto il suo scritto Sulla natura, si sentì profondamente insoddisfatto, giacché Anassagora si limitava ad indicare la causa materiale e quella efficiente, trascurando del tutto quella finale, ossia la "causa del bene e del meglio". Fu allora che Socrate si accorse della necessità di dover intraprendere quella seconda navigazione (deuteroV plouV) che l’avrebbe fatto approdare ai lidi delle Idee (nel Fedone ancora chiamate logoi), capaci di render conto delle cose in maniera teleologica. Se dinanzi alla domanda "perché Socrate è seduto in carcere anziché essere in fuga?" Anassagora risponde scomodando solamente la causa materiale e quella efficiente, asserendo che il suo corpo ha assunto una posizione seduta anziché retta e in fuga, Socrate risponde invece che c’è una causa del bene e del meglio che esula dalla materia di cui Socrate è costituito e che riguarda piuttosto la sua anima: in altri termini, fuggire ed evadere dal carcere sarebbe per l’anima il male peggiore. Ripercorrendo in maniera sintetica l’iter intellettuale di Socrate, non sfugge come egli, partito da interessi naturalistici (anche perché, prima di lui, non v’era stata pressoché alcuna filosofia che non fosse naturalistica), muti assai in fretta interessi, dedicandosi a ricerche di altro genere. Ciò, tra l’altro, spiega perché nella Repubblica Platone non annoveri la fisica tra le scienze componenti il curriculum del filosofo, riservando invece un posto privilegiato alla matematica, alla geometria, alla stereometria, all’astronomia e alla musica. La fisica appartiene secondo Platone e Socrate all’ambito della conoscenza doxastica, poiché i suoi oggetti sono – secondo l’insegnamento di Cratilo e di Eraclito – sempre in divenire, mai afferrabili pienamente dalla mente umana. Tuttavia anche Platone, che col maestro Socrate condivide l’avversione per la fisica, ci prende di sorpresa quando, all’interno della sua vastissima produzione, dedica alla filosofia della natura un dialogo di fondamentale importanza come il Timeo: Platone ormai anziano torna sui suoi passi e riabilita quella fisica cui in gioventù aveva negato lo statuto di scienza e fa ciò forse in virtù delle discussioni tenute nell’Accademia. Il Timeo è un dialogo in cui Socrate si è ormai ritirato dalla scena: il protagonista, Timeo di Locri, è esperto di matematica e, forse, di medicina. Anche l’esposizione è mutata: all’arioso dialogo costruito sulla prassi del "botta e risposta", Platone ha ormai sostituito una forma dialogica più pesante, in cui si procede per ampi brani espositivi intervallati da brevi risposte. Tutto ciò non deve però indurci a credere che egli smentisca se stesso e confuti quanto detto negli anni passati: prova ne è il fatto che le dottrine cosmologiche del Timeo sono esposte sotto forma di mito; questo perché il mito – come è noto – riveste in Platone una valenza fortemente pedagogica, ma anche perché egli sente la necessità di restar fedele al suo pensiero precedente, incentrato sulla convinzione che del mondo fisico non sia dato avere certezze. In sostanza, quel che Platone ci propone nel Timeo – che sarà l’opera privilegiata, in età medievale, dalla cosiddetta "Scuola di Chartres" - è un’ulteriore riflessione sul rapporto intercorrente tra le Idee e il mondo, tema già al centro del Parmenide. Poiché gli oggetti sensibili sono in perpetuo divenire, di essi sarà possibile non già l’episthmh, bensì la doxa: sicchè l’opera stessa si configura, più che come trattato di fisica, come racconto immaginifico di come le cose possono essere venute ad essere. Al cuore del Timeo è la figura chiave del Demiurgo, il divino artigiano che ordina il mondo: il ricorso alla figura di un tecnico permette a Platone di chiarire fin dall’inizio come Egli operi su di una materia che Gli preesiste e che dunque non è il frutto di una Sua creazione. In questo senso, si può dire che il Demiurgo si limita a conferire la forma ad una materia autonomamente esistente: per questa via, è messa al bando ogni prospettiva creazionistica, il che dovrebbe far ricredere i vari pensatori che hanno letto nel Timeo un’anticipazione delle tesi cristiane. La negazione della prospettiva creazionistica chiarisce poi a quali cause Platone ricorra per spiegare il mondo: in primo luogo ci sarà la materia (quella che Aristotele definisce causa materiale) e, accanto ad essa, impersonificata dal Demiurgo, la causa efficiente (Egli infatti trae le cose dalla materia). Ma, trattandosi di un artigiano divino, Egli non può che disporre le cose nel miglior modo possibile, cosicché ciascuna di esse è orientata al meglio: in questo senso, sono introdotte la causa finale e quella formale. Le cause mobilitate da Platone - il Demiurgo e la materia – paiono però difficilmente conciliabili fra loro (come del resto inconciliabili sono il corporeo e l’incorporeo). Il Demiurgo agisce conferendo forma ad una materia che, originariamente, non ne ha una e che anzi si presenta come altamente caotica: il Suo agire è significativamente raffrontato da Platone a quello dei legnaioli che mettono ordine nella catasta di legna. Ne risulta – per dirla con Leibniz – il migliore dei mondi possibili, proprio perché frutto dell’azione di un principio divino intelligente. Per di più, come tutti gli artigiani, il Demiurgo lavora la materia avendo in mente un preciso modello a cui ispirarsi: tale modello non è se non l’intelligibile mondo delle Idee, cosicché Egli opera sulla materia cercando di trasferire in essa il più fedelmente possibile le Idee. Ne nasce sì il migliore dei mondi possibili, ma non è un mondo perfetto in assoluto: la materia, infatti, costituisce un insuperabile limite all’agire divino del Demiurgo, giacchè essa mai si lascia interamente "dominare" (la metafora bellica è di Aristotele); in maniera immaginifica, Platone dice che la materia non si lascia "persuadere", metafora che ritorna nella Repubblica, allorché si parla di anima razionale e di anima irrazionale. Resta ora da chiedersi perché il Demiurgo generi il mondo: Platone risponde che ciò avviene perché l’artigiano divino è buono e "in chi è buono non nasce mai nessuna invidia. […] Volle che tutte le cose si generassero simili a Lui, per quanto potevano". In altri termini, nel Demiurgo troviamo quella "causa del bene e del meglio" che Socrate non era riuscito a rinvenire nel testo di Anassagora. Il mondo sarà allora provvidenzialmente ordinato, ovvero retto fin da principio dalla divina provvidenza di un’intelligenza che lo rende ordinato e tale lo mantiene: nulla è lasciato al caso, dal cielo fino alle viscere della terra. La metafora impiegata da Platone per illustrare il rapporto tra il Demiurgo e il mondo che ne deriva è particolarmente chiarificante: in quanto "Padre" del mondo, il divino artigiano è ad esso legato da un rapporto d’amore affine a quello che lega il padre al figlio. L’opera ordinatrice esplicata dal Demiurgo già si manifesta nella forma che Egli impone ai quattro elementi costitutivi della realtà (elementi che Platone, in sintonia con Empedocle, ravvisa nella terra, nell’acqua, nell’aria e nel fuoco): la prima determinazione d’ordine della materia consiste nel qualificarla nei quattro elementi con qualità (caldo, freddo, secco, umido); la forma dei quattro elementi è a sua volta ridotta ad una figura geometrica elementare: il triangolo, il quale, formando poliedri, dà la struttura matematizzante dell’universo. Ne consegue allora che l’universo fisico rinvia ad una struttura di tipo geometrico sempre identica: in questo modo, la matematica è e resta (ciò era già vero nei Pitagorici e nella Repubblica, dove le scienze matematiche rinviano al mondo delle Idee) il vero strumento per conoscere il mondo. Così concepito, l’universo è una struttura ordinata perfettamente conoscibile, in cui tutto si ripete immutabile e regolare. L’ordine trova un suo primo garante nel moto immutabile e regolare degli astri, da Platone considerati come divinità (il che ha indotto alcuni interpreti a parlare di teologia astrale in Platone): il tempo che scandisce le vicende fisiche è misurato in base al moto degli astri ed è perciò "immagine mobile dell’eternità". Il mondo sensibile, che si presenta come un’opera d’arte, essendo generato ha un corpo (a differenza dell’incorporeo mondo delle Idee) e quest’ultimo è unico (come unico è il mondo delle Idee) e – a differenza di quel che credeva Democrito - disposto nella forma migliore di tutte: la sfera, in cui tutti i punti sulla circonferenza sono equidistanti dal centro. Dal fatto che sia dotato di corpo, Platone inferisce che il mondo possegga anche un’anima, inferenza avvalorata dal fatto che esso è popolato da esseri dotati di anima (una proprietà delle parti deve di necessità appartenere anche al tutto). Ma se quest’opera d’arte che è il mondo possiede l’anima, allora dovrà possedere l’anima migliore in assoluto: quella intellettiva. Il mondo si configurerà allora come un immenso vivente (zwn) che si muove in maniera ordinata, perché diretto dallo stesso principio razionale che governa l’uomo, con la cui descrizione il Timeo si chiude. Il fatto stesso che l’uomo – unico tra i viventi – abbia posizione eretta è indizio della preminenza in lui della testa, che è qui da Platone accostata all’acropoli, costituente il cuore pulsante della città. L’uomo dipende dunque dall’alto e, a rimarcare ciò, la natura ha provvisto a separare in maniera netta in lui la testa dal resto del corpo attraverso il collo. Con questi presupposti, Platone dà anche una spiegazione delle malattie: esse sono sì frutto di una cattiva disposizione del corpo, ma risentono anche di una cattiva educazione (il che rivela un recupero da parte di Platone della tematica cara a Socrate dell’analogia tra malattia dell’anima e ignoranza). L’opera si chiude con un’esortazione rivolta agli uomini a diventare come la divinità, poiché l’eliminazione dell’ignoranza porta a migliori reincarnazioni. Il Timeo platonico è il bersaglio polemico in riferimento al quale Aristotele matura la propria filosofia della natura: nello studio della fisica rientrano, secondo lo Stagirita, anche lo studio degli animali e perfino quello dell’anima, cosicché non stupisce se la maggior parte dei suoi scritti possono essere considerati scritti di fisica. Il problema preliminare che egli si pone è se la fisica debba oppure no essere ascritta tra le scienze: il fatto che egli si ponga un tale problema adombra una volontà di confronto con Platone e con la sua negazione dello statuto di scienza all’indagine sulla natura. Se per Platone una sola è la scienza (quella del Bene) e da essa derivano gerarchicamente tutte le altre forme di sapere, Aristotele, dal canto suo, ci fornisce una completa classificazione delle scienze (Metafisica, VI) in teoretiche, pratiche, poietiche. Teoretiche sono quelle che hanno a che fare con la pura teoria, pratiche sono invece quelle concernenti la prassi (la politica e l’atica) e, infine, poietiche sono quelle finalizzate alla produzione di oggetti (ad esempio, la tragedia). Sicchè nell’ambito delle scienze teoretiche Aristotele fa rientrare la metafisica ("filosofia prima"), la matematica e la fisica ("filosofia seconda"): non solo la fisica è una scienza, ma addirittura essa appartiene alle scienze supreme, quelle che debbono essere amate e perseguite in quanto tali, senza secondi fini. Ciò evidentemente rivoluziona il quadro tracciato da Platone, in cui la fisica non era nemmeno degna di essere una scienza. Le tre scienze teoretiche ravvisate da Aristotele studiano in tre maniere distinte l’essere: la matematica studia l’essere privo di movimento, la fisica studia l’essere in movimento, la metafisica studia l’essere in quanto essere e coincide (Metafisica, XII) con la teologia. Per Platone, proprio perché rivolta alle cose transeunti, la fisica non può assurgere al grado di scienza: ciò non vale per Aristotele, ad avviso del quale è possibile studiare le cose nel loro divenire. Ciò non toglie, però, che la fisica – a differenza della metafisica, che studia l’essere in quanto tale – sia una scienza particolare, giacché si occupa solo dell’essere in movimento e, perciò, difetta di universalità: oltre ad occuparsi dei corpi terreni, caratterizzati dall’essere passeggeri e non eterni, Aristotele fa rientrare nel campo d’indagine della fisica anche lo studio dei corpi celesti. Con quest’operazione, egli pone l’astronomia come scienza fisica e non come scienza matematica (quale era per Platone), poiché gli astri sono anch’essi corpi in movimento, benché – a differenza dei corpi terrestri – non siano soggetti al divenire, ma esistenti sempre e necessariamente. Ne segue che gli orizzonti della fisica finiscono per spaziare dalla terra al cielo. Il confine tra il mondo terrestre – popolato dai corpi in divenire – e quello celeste – popolato dai corpi eterni – è segnato dalla luna, che divide appunto il mondo sublunare da quello sopralunare. Le scienze teoretiche riguardano cose esistenti necessariamente, ma all’interno della fisica è ritagliato uno spazio anche per i corpi passeggeri e non eterni: le pietre, gli uomini e gli animali possono infatti non esistere e, in ogni caso, sono perituri; essi tuttavia rispondono ad una modalità dell’essere che è epi to polu (per lo più), per cui gli uomini invecchiando diventano per lo più canuti. Nell’ambito del mondo fisico terrestre, allora, pur non valendo la necessità assoluta, ciò non di meno vale la necessità condizionale, tale per cui, se si verifica una tale condizione, si verifica un tale effetto (ad esempio: se invecchio, mi vengono i capelli bianchi). Sicchè i corpi del mondo fisico di questa terra presenta caratteristiche fluttuanti (il colore degli occhi, dei capelli, l’altezza, ecc), con l’inevitabile conseguenza che, a differenza della matematica, la conoscenza fisica non potrà mai essere esatta né potrà fare ricorso a dimostrazioni analitico/deduttive (Platone riduce invece nel Timeo gli elementi fisici a enti geometrici matematicamente studiabili). La fisica difetta dunque di universalità, di esattezza e di necessità: come ogni altra conoscenza, anche quella fisica procede per cause e quali siano tali cause Aristotele lo spiega nel II libro della Fisica, per poi riprenderlo nel I della Metafisica: le quattro cause che egli individua non sono che le risposte da fornire quando ci si interroga sulla natura di qualche cosa e tale dottrina è evidentemente dedotta dall’osservazione diretta dei corpi: osservandoli, si nota infatti che essi rispondono a quattro diversi punti di vista, ovvero risultano dalla convergenza di quattro cause. Infatti, le cose hanno una materia, sono prodotte da qualcuno, sono tali perché hanno una forma che le individua e hanno uno scopo per il quale sono venute ad essere: qui in sintonia con Platone, Aristotele crede che la struttura eretta sia stata data all’uomo affinché egli possa contemplare le realtà superne; ma Aristotele non dimentica che le cose hanno anche una materia che le condiziona: così l’uomo può stare in piedi perché possiede calore e il calore tende appunto verso l’alto. La materia e la forma non sono – secondo Aristotele – separabili l’una dall’altra, col che egli si distingue nettamente dalla posizione platonica, per cui le forme (eidh) sarebbero radicalmente distinte dalla materia (ulh); inoltre l’assetto fisico di ogni cosa è tale perché deve rispondere ad un dato fine e la forma è quella che è perché è stata organizzata in vista di tale fine. Solo chi conosce tutte e quattro le cause delle cose può essere insignito del titolo di fusikoV (fisico), giacchè egli solo è in grado di indicare di che cosa le cose sono fatte, a quale fine tendono, quale forma hanno, che cosa le ha messe in moto. Abbiamo detto che Aristotele innalza lo studio della natura al livello di scienza: ma che cosa intende esattamente per natura? Non si tratta di una specie di griglia che si sovrappone dall’esterno alle cose che sono. La natura non è che l’insieme di tutte quelle cose che avvengono naturalmente. Esiste dunque una causa finale e divina – quale era il Demiurgo del Timeo – che fabbrica le cose in vista di un determinato fine? Secondo Aristotele tale eventualità è da escludersi per due ragioni: nel II libro della Fisica, egli asserisce espressamente che la natura non è divina e paragona la sua attività a quella tecnica; tuttavia, a differenza della tecnica divina (che è infallibile), la tecnica umana è soggetta a fallire: similmente, in natura non tutto avviene in maniera perfetta. Come il grammatico può commettere errori o come il medico può prescrivere farmaci inadeguati, così la natura può parimenti compiere errori, benché il suo agire sia sempre e comunque orientato al meglio: tale principio viene da Aristotele dedotto a partire dalla biologia, dove si registrano casi di veri e propri mostri (ad esempio esseri con parti mancanti o in sovrappiù) e devianze dalla norma della natura che vuole che gli uomini nascano per lo più in un certo modo. La possibilità dell’errore della natura è resa possibile dal fatto che si tratta di un ambito di cose materiali e, come abbiamo poc’anzi detto, la materia non sempre si lascia dominare dalla forma, a volte le oppone resistenza (tale è ad esempio il caso della mano con quattro dita anziché cinque). Si può dunque legittimamente affermare che "il caso rientra nel novero delle cause", intendendo con ciò dire che anche quel che accade per caso ha pur sempre una sua causa, anche se l’effetto risulta derivare da una causa diversa da quella in forza della quale solitamente accade: ossia avviene per accidente (kata sumbebhkwV). Può dunque accidentalmente accadere che, nel corso della generazione, la materia non si lasci plasmare e ne nasca un mostro. L’individuo di sesso femminile è esso stesso agli occhi di Aristotele un caso di errore della natura, un mostro prodotto dal caso: agendo sul sangue mestruale, il seme maschile forma la materia ed è a questo punto che può verificarsi la devianza; nascere femmina è, appunto, una devianza, ma si tratta pur sempre di una "mostruosità necessaria" al fine di perpetuare la specie. Il fatto stesso che i figli non siano mai del tutto uguali ai genitori, ma da essi si distinguano per altezza, colore dei capelli, degli occhi, ecc, testimonia l’accidentalità del processo. Abbiamo detto che per Aristotele la fisica è scienza teoretica dei corpi dotati di movimento: resta però da chiarire che cosa egli intenda per movimento (kinhsiV). Movimento è passaggio da potenza ad atto di corpi che possono muoversi e nel movimento rientra anche la nozione di mutamento (metabolh), poiché il greco kinhsiV significa appunto sia movimento sia mutamento. Se il movimento riguarda lo spostamento nello spazio da un luogo ad un altro, il mutamento riguarda invece l’essere stesso delle cose che sono e, a tal proposito, Aristotele distingue quattro diversi tipi di mutamento: a) il mutamento più ovvio è quello di luogo, consistente nello spostarsi da un luogo ad un altro; b) il mutamento della sostanza è quello consistente nella generazione e nella corruzione (ovvero il venire ad essere o il cessare di essere delle sostanze): è in questo contesto che Aristotele risolve finalmente in via definitiva l’aporia eleatica del divenire fisico: venire ad essere mentre prima non si era non significa – egli nota – passare dal non essere all’essere, ma significa piuttosto passare dallo stato potenziale dell’essere in potenza a quello attuale dell’essere in atto; c) il mutamento quantitativo interessa anch’esso la sostanza, ma esclusivamente rispetto alle proprietà che essa presenta (una data sostanza può crescere o diminuire in quantità); d) infine, il mutamento qualitativo interessa – come quello quantitativo – le proprietà della sostanza (e non la sostanza in se stessa), in particolare le sue qualità (ad esempio, i capelli che da neri che erano passano ad essere bianchi; oppure Socrate che diventa musico). Come si può facilmente notare, ciò che contraddistingue il mutamento quantitativo è il fatto che esso avviene nello spazio, giacchè la sostanza – accrescendo o diminuendo – occupa spazio. Tuttavia, accanto al movimento spaziale, ve n’è anche uno locale, caratterizzato da un’unica direzione: o dal basso verso l’alto, o viceversa. Ciò vale per il mondo sublunare, poiché i corpi di quello sopralunare sono invece dotati di moto semplice (ovvero circolare: spuntano e tramontano sempre nel medesimo punto) in forza della particolare materia che li costituisce: si tratta non già dei quattro elementi empedoclei che stanno alla base dei corpi sublunari, bensì di quella materia incorruttibile che Aristotele chiama etere. Agli occhi di Aristotele, i corpi si distinguono in semplici e in composti, ed entrambe le categorie cadono nel campo d’indagine della fisica: alla base di tutti i corpi che popolano il mondo sublunare stanno i quattro elementi individuati da Empedocle: a tal proposito, Aristotele rigetta tanto gli atomi di Democrito quanto i solidi del Timeo platonico. Se infatti alla base dei corpi fossero gli atomi, allora i corpi risulterebbero meri insiemi di punti, cosicché potrebbero disgregarsi in qualsiasi momento. Platone compie innegabilmente un passo avanti quando assume come elementi i solidi scomponibili, ma ciononostante la sua proposta resta insufficiente poiché i solidi non sono in grado di subire alcunché né di aggregarsi per dare composti. Solo Empedocle, ravvisando nell’acqua, nella terra, nel fuoco e nell’aria i quattro elementi stanti alla base del reale ha colto la verità: tali quattro elementi, infatti, rendono perfettamente conto e del divenire e dell’aggregarsi dei corpi, giacchè si tratta di elementi divisibili in parti che mantengono lo stesso nome dell’elemento di partenza (ogni parte di terra è sempre terra, e così via). Inoltre essi sono elementi primi nel senso che non sono composti da altri, possono subire affezioni e trasformazioni reciproche (l’acqua che passa allo stato aeriforme), accrescere, diminuire, mutare luogo. Non stupisce pertanto che Aristotele dedichi buona parte della Fisica al loro studio. Tuttavia sbaglia Empedocle nella misura in cui li concepisce come principi (e non come meri elementi), giacché, così facendo, egli finisce per riconoscerli come eterni: ma da ciò che è eterno non può in alcun caso nascere il mutevole e il transeunte, ovvero tutto ciò che popola questo mondo. I quattro elementi rappresentano per Aristotele materia in un determinato stato (allo stato di terra, di acqua, di fuoco, di aria) e presuppongono un sostrato potenziale comune da cui vengono ad essere per effetto di fattori ambientali come il caldo e il freddo. Tale sostrato materiale non esiste indipendentemente da essi: di per sé, i quattro elementi non sono eterni; eterna è invece la loro vicenda di trasformazione, poiché eternamente si trasformano l’uno nell’altro. Dal moto dei corpi semplici dipende direttamente anche l’assetto di del mondo terrestre, risultante costituito in base alla disposizione dei quattro elementi stessi (la cui disposizione è legata alle caratteristiche fisiche di ciascun elemento). Il mondo sublunare (di natura sferica, che è la migliore tra quelle possibili) viene così a configurarsi come una serie di cerchi concentrici al cui centro sta l’elemento più pesante (la terra) e alla periferia quello più leggero (il fuoco), con in mezzo l’acqua e – più leggera – l’aria. In base a tale disposizione si spiegano anche i moti che si verificano nel mondo sublunare, che possono essere moti secondo natura (fusei) e moti violenti (bia): una pietra lasciata cadere tende a muoversi di un moto naturale verso il basso, ma se la scagliamo verso l’alto essa procede per un tratto in direzione opposta al suo luogo naturale (muovendosi con un moto contro natura), fino a che non avrà esaurito la spinta e ricadrà a terra. I corpi celesti, invece, si muovono di moto circolare. La luna segna il confine tra i due mondi (sublunare e sopralunare), ma tra essi non c’è separazione netta: c’è anzi una zona intermedia in cui si situano i fattori meteorologici, che sono da Aristotele spiegati con le vicissitudini cui vanno incontro i quattro elementi. Pur verificandosi una tantum (il terremoto o l’arcobaleno non accadono certo quotidianamente), sono fenomeni dotati di una loro spiegazione razionale facente capo ai quattro elementi: sono secondo Aristotele causati dal particolare moto del Sole, il quale avvicinandosi o allontanandosi dalla Terra fa sì che gli elementi si trasformino e diano vita alle stelle cadenti, alle comete, ecc. Aristotele parla a più riprese del moto solare come causa dei moti sublunari: egli si guarda bene dal parlare di "calore" o di "luce" del Sole, giacché ciò significherebbe ammettere che anch’esso – stante al di sopra della luna – è costituito dai quattro elementi. Ne segue allora che il garante della vicenda ciclica del mondo sublunare (il Sole) è esso stesso sopralunare, e dunque dotato di moto circolare e perfetto. Gli individui sublunari che popolano il nostro mondo (uomini, animali, piante) sono mortali come individui (poiché costituiti dai quattro elementi), ma eterno è il loro processo di generazione e corruzione, cosicché il singolo uomo è perituro, ma la specie umana è eterna (l’atto stesso con cui si ama e ci si riproduce non è che un anelito all’eternità). I corpi celesti non si muovono però tutti allo stesso modo: ciascuno di essi descrive nel suo tragitto una sfera e l’insieme complessivo di tali sfere dà un insieme concentrico che ha al suo centro la Terra stessa (in ciò risiede il geocentrismo aristotelico). Come la Terra occupa il centro del mondo, così la periferia è occupata dal "cielo delle stelle fisse", che chiude l’estremità del mondo. Le stelle fisse hanno moto eterno, circolare e semplice: via via che dall’alto si scende verso la luna, i moti dei pianeti presentano sempre maggiori irregolarità (tali sono appunto i moti apparenti) di velocità e di regradazioni. Per rendere conto di essi, Aristotele ricorre a più espedienti e argomentazioni teoriche: il problema che più di ogni altro lo interessa è che ciascuno di tali corpi celesti ha anche più d’un solo moto, cosicché diventa difficile spiegare quale realmente sia la causa prima che sta alla base di tali moti. In tale ottica, Aristotele si domanda perfino se gli astri abbiano un’anima – giacchè l’anima, come insegnava Platone stesso, è principio del movimento – e, nel rispondere negativamente, egli chiude definitivamente i conti col Timeo, nel quale si affermava esplicitamente che i pianeti fossero animati, intelligenti e divini. Pur negando l’anima ai corpi celesti, resta intatto il problema riguardante la causa del loro moto: quale è il principio motore che mette in movimento i corpi celesti? Nel XII libro della Metafisica, Aristotele propone ben due diverse possibili risoluzioni del problema: dapprima egli riconosce che ogni sfera ha un proprio motore dotato di determinate caratteristiche: deve essere una sostanza - sennò non può causare il moto di un’altra sostanza -, deve essere anteriore al corpo mosso e deve muovere sempre – altrimenti non può causare l’immutabile e perenne moto degli astri -, deve essere atto puro, giacchè se fosse potenza potrebbe ora muovere, ora no. Ma se è solo atto ed esclude la potenza, allora esclude anche il movimento e il mutamento (che della potenza sono tipici): sarà allora un motore immobile, che muove senza essere mosso. Dopo aver esposto questa teoria secondo la quale molteplici sarebbero i motori immobili (uno per ogni sfera), Aristotele – appena un capitolo dopo – cambia radicalmente prospettiva e riconosce esplicitamente la possibilità di un motore immobile unico per tutte le sfere celesti. Questo primo motore immobile, in quanto privo di potenza, è anche privo di materia ed è da Aristotele identificato con la divinità. Da ciò segue una struttura gerarchica del cosmo, poiché dall’unico motore immobile "si dirama" l’intero universo: la metafora del diramarsi è impiegata da Aristotele anche in sede biologica per spiegare il rapporto tra le vene e il cuore, che è un rapporto di unione tale per cui le vene si diramano dal corpo senza distaccarsene; similmente, il motore immobile non è staccato dal mondo, e l’universo stesso non è che una totalità in movimento incessante. L’identificazione del motore immobile con la divinità non implica tuttavia un rapporto provvidenziale tra quest’ultima e il mondo, come invece era nel Timeo: il dio di Aristotele, lungi dall’organizzare provvidenzialmente il mondo, sta fermo ed è causa finale del moto del "primo mobile", ovvero del "cielo delle stelle fisse", che a lui tende come al proprio fine. In accordo col libro XII della Metafisica, Aristotele sostiene nel libro VIII della Fisica che il motore immobile deve essere presupposto come causa in grado di spiegare il moto del mondo: la divinità muove il mondo stando ferma, ovvero causa il moto dell’universo come causa finale (giacché, se fosse causa efficiente, sarebbe essa stessa in movimento), poiché a lei tende – come l’amante verso l’oggetto amato – il "primo cielo". Ma se la divinità è immobile, in che cosa consiste la sua attività? Essendo il pensiero la migliore attività in assoluto, la divinità non farà altro che pensare (essa è, in questo senso, la proiezione a livello cosmico del filosofo) e, più precisamente, non farà altro che pensare a se stessa, poiché, se pensasse ad altro, ritornerebbe quella nozione di potenza che abbiamo bandito dalla sfera divina: dio è per Aristotele nohsiV nohsewV ("pensiero di pensiero"). In netta opposizione all’atomismo e alla sua infinità dei mondi, Aristotele difende a spada tratta l’unicità del mondo: il mondo è uno ed eterno, assolutamente incorruttibile (l’errore del Timeo è ravvisato nell’aver posto il mondo come generato e, insieme, eterno, senza tener conto che il generato è necessariamente perituro). In difesa dell’unicità del mondo, Aristotele dice – nel De caelo – che, se ci fossero altri mondi, essi sarebbero necessariamente costituiti dagli stessi quattro elementi che formano il nostro; ma allora tali elementi tenderebbero a disporsi nei luoghi naturali del nostro mondo, cosicché se ne deve concludere che tutta la materia è già contenuta nel nostro unico mondo.

L’età che si apre dopo la morte di Aristotele (322 a.C.) è particolarmente significativa sia sul piano storico sia su quello culturale, in quanto i confini della Grecia si estendono fino all’India e sono gettate le basi delle future scienze: questa nuova epoca, definita da Droysen come "Ellenismo", vede come suo genio protettore, nel bene e nel male, Alessandro Magno, con le cui strepitose conquiste il mondo greco arriva in terre remote; Atene perde il proprio predominio politico e culturale, mentre Pergamo e, soprattutto, Alessandria d’Egitto vengono assumendo un peso sempre maggiore per la cultura del tempo. Ad Alessandria, sotto i Tolomei, è fondata l’importante biblioteca che finisce per diventare il tempio dell’intera cultura greca; ad essa fu affiancato il celebre museo (letteralmente: "casa delle Muse"), circondato da incantevoli giardini. Che ne, è in quest’era così complessa, dei filosofi? La tradizione vuole che alcuni Aristotelici (Demetrio del Falero e Stratone di Lampsaco) fossero attivi nella fondazione dell’imponente biblioteca alessandrina, cosa che ci aiuta a capire come quest’epoca, più di qualsiasi altra, fosse un’epoca di filosofi e, sotto questo profilo, Atene resta ancora il principale polo di attrazione filosofica (ancorché ormai nessun filosofo sia ateniese). In breve tempo l’attività del filosofo viene sempre più istituzionalizzandosi all’interno di scuole rette da scolarchi (è questo il caso tipico degli Stoici e degli Epicurei). Anche l’Accademia platonica e il Peritato aristotelico erano scuole di questo genere e tali restano anche in età ellenistica, entrando spesso in conflitto con le nuove scuole e coi modelli da essi prospettati: particolarmente curiosa è la situazione che si vive nel Peritato, ove gli scritti autentici di Aristotele sono del tutto scivolati nell’oblio, a tal punto da non essere nemmeno più citati dai Peripatetici stessi. Anche gli esponenti delle cosiddette scuole "socratiche minori" (Cinismo, scuola cirenaica, Megarici) continuano ad essere attivi: il caso più emblematico è probabilmente quello di Diogene di Sinope, il quale porta alle estreme conseguenze gli insegnamenti cinici di Antistene. In forza delle grandi conquiste militari compiute da Alessandro Magno, la poliV viene a tramontare e, con essa, tramontano i suoi valori: l’uomo greco non trova più nel rassicurante baricentro dell’agora cittadina un sostegno morale, ma, proiettato in un nuovo mondo dalle sterminate dimensioni, dove convivono fra loro i costumi più diversi, egli prova un profondo senso di smarrimento e di insicurezza; ben si capisce allora perché le filosofie ellenistiche si configurino essenzialmente come filosofie morali, non già nel senso che la sfera gnoseologica venga trascurata, bensì nel senso che essa è subordinata all’etica. Tutte le correnti filosofiche di quest’epoca mirano alla formazione del vero sapiente. Abbiamo parlato finora di "scuole" filosofiche: in realtà, accanto ad esse, si formano correnti di pensiero che rigettano completamente l’istituzionalizzazione in scuole: è il caso dello Scetticismo, che – in virtù delle sue stesse premesse – non fonda scuole né annovera maestri, in quanto elemento portante di questa corrente di pensiero è l’impossibilità della formazione di un sapere certo. Nel 306 a.C. Epicuro fonda la sua scuola in Atene: la scelta del luogo e del modo di concepirla sono del tutto innovativi. Egli opta per la periferia della città (anziché per il centro), ovvero per una zona lontana dalla città e dai suoi travagli. Questa scuola "periferica" era dotata di un giardino (khpoV) e Giardino fu chiamata la scuola stessa: l’immagine che di essa ci offrono le fonti è quella di una comunità di individui (uomini e donne) legati dall’amicizia alla ricerca della felicità. In ambito fisico, Epicuro riprende l’atomismo democriteo, apportando però ad esso delle innovazioni di rilievo: anche per lui atomi e vuoto sono i principi costitutivi della realtà, benché non vengano più connotati in termini eleatici come "essere" e "non-essere" ma semplicemente come le parti ultime in cui si scompongono i corpi. Il vuoto è assunto – in perfetta sintonia con Democrito – come condizione imprescindibile di quei moti degli atomi che danno l’aggregazione e la disgregazione dei corpi, anch’essi a loro volta formati da atomi e vuoto (altrimenti non se ne spiegherebbe il nascere e il perire). Tuttavia, se per Democrito gli atomi – in quanto privi di peso - si muovevano nel vuoto in tutte le direzioni, Epicuro, dal canto suo, attribuisce ad essi peso, forse in base all’osservazione di Aristotele secondo cui, se i corpi hanno peso, allora devono averlo anche gli atomi che dei corpi sono i costituenti. Ma se hanno peso, gli atomi non si muovono a caso, bensì tendono ad andare dall’alto verso il basso secondo linee parallele: ma come possono essi allora aggregarsi se si muovono lungo linee parallele tali per cui non possono incontrarsi? Nei testi di Epicuro conservati (le tre epistole riportate da Diogene Laerzio in Vite dei filosofi, X) non è prospettata alcuna soluzione a questo problema: ma dal De rerum natura di Lucrezio e dalle opere degli avversari dell’epicureismo (Cicerone e Plutarco) sappiamo che Epicuro avrebbe escogitato un rimedio, la "deviazione" (clinamen in latino, paregklhsiV in greco) degli atomi dalla linea retta. In quest’ottica, gli atomi si aggregherebbero perché dotati della spontanea capacità di deviare dalla traiettoria del loro movimento e, dunque, di incontrarsi. Si tratta di una capacità costitutiva e spontanea degli atomi: può cioè casualmente verificarsi che essi devino e che diano vita – in questo e negli infiniti altri mondi – agli aggregati. Dire che si tratta di una capacità innata negli atomi equivale ad escludere ogni causa esterna agli atomi stessa (è dunque negata la causa finale e, con essa, quella divina). Ne emerge un universo meccanicistico e antifinalistico, fortemente antiplatonico e antiaristotelico. Oltrechè in ambito fisico, la dottrina della deviazione" ha importanti conseguenze anche in sede morale: se infatti tutto accadesse secondo necessità, allora il libero arbitrio sarebbe spento, tanto più che l’anima stessa non è che un aggregato di atomi (ancorché di atomi ignei e sferici); ma, stando così le cose, non avrebbe più alcun senso l’etica. Ma la capacità spontanea di deviare interessa anche gli atomi dell’anima e in ciò risiede la facoltà di scegliere comportamenti che deviano dalla necessità, fermo restando che qualunque atto intellettivo muove da uno stimolo esterno. Epicuro si spingeva più in là: anche gli dei – non solo l’anima – non sfuggono alle leggi atomiche, cosicché anch’essi non sono se non aggregati di atomi e vuoto. Ciò attirò ben presto su di lui l’accusa di ateismo, benché Epicuro precisasse nella Lettera a Meneceo che ateo non è chi rinnega gli dei del volgo, ma chi agli dei applica le opinioni del volgo, prima fra tutte quella secondo cui essi agirebbero provvidenzialmente nel mondo. Che gli dei esistano è provato dal fatto che tutti gli uomini lo credano (argomento del consensus omnium): ma ciò non autorizza a credere che gli dei intervengano nel mondo e, per di più, in maniera provvidenziale, poiché altrimenti non si spiegherebbe il male che attanaglia il mondo stesso (negarlo è andare contro alla più banale delle esperienze). Di fronte al male, se gli dei intervengono e non lo rimuovono è o 1) perché non vogliono, o 2) perché non possono, o 3) perché né possono né vogliono: ma nel primo caso si tratterebbe di dei invidiosi, nel secondo di dei impotenti, nel terzo di dei impotenti e invidiosi, tutte caratteristiche che non si attagliano alla divinità. Si dovrà allora riconoscere che gli dei ci sono ma non intervengono nel nostro mondo (in netta antitesi con quanto, in quel torno di anni, sostenevano gli Stoici e con quanto già sosteneva Platone nel Timeo). Come per Aristotele, anche per Epicuro la teologia rientra a pieno titolo nella fisica, giacchè per il filosofo del KhpoV gli dei sono materiali: come possono allora essi essere immortali? Che abbiano forma umana è evidente, poiché – in quanto perfetti – debbono avere la forma migliore, ovvero quella con struttura atomica meglio organizzata: tale è appunto la forma umana. Gli uomini, tuttavia, sono perituri, ossia soggetti alla disgregazione atomica, cosicché la divinità, per essere eterna, dovrà avere un continuo risarcimento di materia, tale da non potersi mai disgregare: ciò garantisce la loro immortalità. In quanto corporei, poi, gli dei occupano spazio: Epicuro elegge a loro dimora gli intervalli (gli intermundia di Lucrezio) che separano tra loro gli infiniti mondi. Dicevamo che il primo argomento in favore dell’esistenza degli dei è dato dal consenso di tutti gli uomini circa la loro esistenza: però esso non è il solo. Secondo Epicuro, infatti, anche la conoscenza che abbiamo degli dei è percettiva, poiché anche da essi provengono eidwla (immagini) percettibili non già agli organi di senso, bensì – per la loro sottigliezza – alla mente stessa. Al pari di Democrito, Epicuro assume un’infinità di atomi, il che spiega anche l’infinitezza del vuoto (per poter contenere infiniti atomi deve necessariamente essere anch’esso infinito). In rottura con Democrito, però, Epicuro nega che gli atomi abbiano un numero infinito di forme, giacchè, se così fosse, si potrebbero ammettere atomi grandi quanto il mondo e dunque essi sarebbero visibili ad occhio nudo (il che contrasta palesemente con la nozione di atomo): il numero delle forme degli atomi, allora, sarà non infinito, ma incalcolabile. Anche Epicuro deve render conto di come i corpi si distinguano qualitativamente tra loro: anche a suo avviso – come già per Democrito – le caratteristiche qualitative sono un epifenomeno dell’assetto assunto dagli atomi nel formare un corpo; DEmocrito riteneva però che le qualità fossero un fatto di convenzione e che solo atomi e vuoto fossero un fatto di natura, cosicché per lui le qualità erano fluttuanti e mai stabilmente oggettive (da ciò seguiva l’incertezza della conoscenza sensibile). Per Epicuro questa è una via pericolosa, giacchè porta a dubitare della conoscenza che abbiamo e fa scricchiolare ogni sistema filosofico: per far fronte a ciò, egli asserisce che le qualità sono sì epifenomeno, ma che vi sono qualità essenziali dei corpi e qualità accidentali; ci sono cioè qualità senza le quali il corpo non è concepibile (ad esempio la statura eretta dell’uomo) e altre che sono accessorie e transeunti (il colore dei capelli o degli occhi). Anche le qualità sono percepite insieme ai corpi e, dunque, non si deve dubitare di esse. Anch’esse provengono dagli eidwla, i quali riportano informazioni certe, giacchè si muovono con velocità istantanea, uguale a quella del pensiero: Epicuro dice che sono "equiveloci" poiché si muovo o nel vuoto. Ciò garantisce un incrollabile criterio di verità, identificato nella sensazione. Meccanicismo e sensismo sono dunque le due componenti fondamentali della filosofia epicurea, mentre la logica non contribuisce al raggiungimento della felicità, intesa come piacere. L’epicureismo si diffuse in Italia soprattutto a Napoli, ove ad Ercolano si sono rinvenuti numerosi papiri che ci hanno restituito frammenti del Sulla natura (Peri fusewV), l’opera fondamentale di Epicuro, in 37 libri. A Roma il verbo epicureo trovò maggiori resistenze nella sua diffusione, in quanto il suo motto laqe biwsaV ("vivi appartato") mal si attagliava alla vita romana, per la quale la politica era irrinunciabile. Nel II secolo d.C., Diogene di Enoanda fa scolpire su pietra la filosofia di Epicuro – venerato dai suoi successori come un dio – e la espone nel portico della città di Enoanda. Ben diversa è la posizione degli Stoici: Zenone di Cizio (una località dell’isola di Cipro) giunge ad Atene e, con l’appoggio di personalità di rilievo, riesce a fondarvi una scuola filosofica, la Stoa poikilh, ovvero il "portico pitturato", situato nel cuore di Atene e costellato dalle pitture raffiguranti la battaglia di Maratona. Il fatto stesso che Zenone elegga a sede della propria scuola il cuore pulsante della città già sottolinea una radicale differenza rispetto ad Epicuro e al suo Giardino: la filosofia stoica, anziché chiudersi in se stessa e rivolgersi ad una ristretta cerchia di amici, intende diffondere il proprio messaggio (non scevro da elementi politici) su ampia scala, tant’è che caratteristica portante dello stoicismo è il cosmopolitismo. L’attività di Zenone non passò inosservata e, alla sua morte, fu emanato un editto col quale egli era riconosciuto come modello di vita per gli Ateniesi. Lo stoicismo avrà lunga vita, attraverserà tre fasi distinte (antico, medio e nuovo stoicismo) e, a differenza dell’epicureismo, troverà un fertile terreno di diffusione anche a Roma: ciò si spiega anche col fatto che lo stoicismo può qualificarsi come una filosofia in fieri, sempre soggetta a innovazioni e a mutamenti introdotti dai vari filosofi stoici. Il corpo delle dottrine della scuola stoica è sì dogmatico, ma le teorie venivano discusse e modificate di autore in autore: così Panezio di Rodi – che rese lo stoicismo funzionale alla civitas romana – rigetterà la dottrina dell’ekpurosiV e attenuerà il rigorismo morale, ormai divenuto obsoleto. Data la struttura istituzionalizzata della Stoà, le fonti ci trasmettono solo in parte teorie abbinate a personalità singole: per lo più parlano genericamente di "Stoici", senza operare distinzioni e far nomi precisi. Il punto focale del pensiero stoico è la nozione di LogoV, che è in primo luogo la "ragione" delle cose e, dunque, l’oggetto della fisica (che studia appunto le cose che sono); ma logoV è anche la "ragione" esplicitata nel ragionamento e, in quanto tale, è oggetto della logica (che studia come le cose sono espresse e conosciute). Infine il logoV, in quanto principio di comportamento, sarà oggetto di studio dell’etica. Se per Epicuro sussisteva tra le varie parti della filosofia un rapporto progressivo, per gli Stoici, al contrario, esse formano un tutto organico, cosicché essi possono paragonare le varie parti ad un campo o ad un vivente o, ancora, ad un uovo. C’è chi sostiene che la filosofia è un campo in cui il muro di cinta è dato dalla logica, la terra dalla fisica e i frutti dall’etica: sicchè la logica esplica una funzione meramente difensiva, la fisica costituisce il "terreno" su cui seminare i frutti, che son dati dall’etica (il che testimonia la sua indiscutibile preminenza). Per Crisippo di Soli, invece, l’egemonia spetta non già all’etica, bensì alla fisica e, in particolare, alla teologia. Posidonio di Apamea rigetta l’immagine della filosofia come un campo, poiché a suo avviso essa mal rivela il rapporto intercorrente tra le parti: per lui, al contrario, la filosofia è un vivente, le cui ossa son date dalla logica, la carne dalla fisica e l’anima dall’etica. Da quest’immagine ben emerge il rapporto inscindibile tra le parti in funzione del tutto, benché l’etica (in quanto anima) sia in posizione di spicco. L’accento posto da Posidonio sull’importanza della totalità organicamente connessa ci aiuta anche a capire perché la figura del sapiente stoicamente inteso possegga tutto il sapere, non singole parti di esso: chi sa molto ma non tutto si trova per gli stoici sullo stesso piano di chi non sa nulla, poiché chi è distante da Atene 5 km non è in Atene come chi da essa è distante 1000 km. Diventare sapienti in senso stoico è un traguardo umanamente irraggiungibile: i veri sapienti - dicono gli stoici – sono più unici che rari; Seneca dice che il vero sapiente nasce – al pari della fenice – ogni cinquecento anni e Crisippo sostiene che esso è raro quanto i parti di una mula. Del resto gli stoici si ritenevano filosofi ma non sapienti. L’idea dell’inattuabilità della piena conoscenza è di matrice socratica (pensiamo al Fedro), e gli Stoici non fanno che portarla all’ennesima potenza: la filosofia viene pertanto a configurarsi come ricerca e amore di un sapere che mai può essere raggiunto. La fisica è, al pari di quella logica che per Aristotele era soltanto un organon della scienza, è conoscenza causale della generazione delle cose che sono. Gli Stoici distinguono – sulla scorta di Aristotele – tra "elementi" (i quattro elementi - aria, acqua, terra, fuoco -, ovvero specificazioni della materia) e "principi" (Dio e la materia): tutte le cose vengono ad essere perché formate dalla materia e da un principio divino, mentre gli elementi non sono se non gli ingredienti materiali che compongono ogni cosa. Le cause che spiegano la costituzione delle cose sono cause materiali (i quattro elementi già individuati da Empedocle), ma il dio stoico è causa razionale e divina che – come il Demiurgo platonico – agisce direttamente sul reale, cosicché le cose non sono frutto del caso: anche per gli Stoici, come già per Platone, questo è il migliore dei mondi possibili. In dio essi fanno convergere le altre tre cause individuate da Aristotele: dio è causa efficiente, finale e formale del mondo, al quale conferisce la miglior forma possibile agendo provvidenzialmente. La natura imperfetta di cui parlava Aristotele agli Stoici non basta: a loro avviso, infatti, la natura è il volto rivelato di Dio e, in quanto tale, non può che essere perfetta. Se per Platone dio e la materia restano due realtà assolutamente distinte (e anzi la materia si oppone all’agire divino), gli stoici, sull’altro versante, sostengono che dio e materia non si distinguono per la loro natura: essi sono entrambi corporei – dicono gli stoici -, poiché altrimenti non si spiegherebbe l’intervento di dio sul mondo (solo un corpo può agire sul corporeo). Di qui scaturisce la posizione materialistica e immanentistica degli stoici, ad avviso dei quali dio è presente nella realtà materiale delle cose. La materia, che per Platone si configurava come recalcitrante a dio, è per gli stoici caratterizzata dalla presenza di dio, per cui il mondo in cui viviamo non solo è il migliore tra i possibili, ma è anche perfetto in maniera assoluta, giacché interamente padroneggiato da dio. Memori della terminologia aristotelica, gli stoici chiamano "principio passivo" la materia e "principio attivo" dio: quest’ultimo – da identificarsi col logoV, ovvero con la ragione universale – agisce sulla materia e fa venire ad essere ogni cosa; la prima azione da lui compiuta consiste, in particolare, nel trasformare la materia in qualcosa di preciso e determinato, ossia nei quattro elementi (che sono appunto materia in un preciso stato). Gli stoici qualificano la materia come "principio passivo" perché essa è tale da subire l’azione del principio attivo, anch’esso corporeo. Tutte le cose saranno dunque materiali, unioni inscindibili di materia e forma: esse avranno la forma migliore proprio perché dio interviene in esse dall’interno: in ciò consiste il panteismo stoico. Il mondo che ne risulta è una totalità perfettamente compiuta e razionale, dove è giustificata perfino la presenza del male: Crisippo asserisce che il rapporto bene/male è equivalente a quello luce/ombra: come non si capirebbe che cosa è la luce se non vi fosse anche l’ombra, così non si capirebbe che cosa è il bene se non vi fosse anche il male. Non è un caso che il principio divino ammesso dagli stoici sia unico: quelli che gli uomini chiamano "dei" non sono che manifestazioni dell’unica divinità. Ben si capisce perché il vivere virtuosamente sia l’uniformarsi alla ragione, che è nell’uomo una scintilla del logoV universale: vivere secondo virtù significa vivere secondo ragione, e vivere secondo ragione vuol dire vivere secondo natura, poiché la natura è divina. Gli stoici assimilano dio ad un fuoco, a sottolineare la sua capacità di dare la vita (solo ciò che è caldo può godere di tale capacità); in quanto dotato di vita, tale fuoco accoglie al proprio interno un corpo capace di raffreddare: è quello che gli stoici chiamano pneuma, un corpo di natura aeriforme (Seneca lo chiama spiritus) in grado di vivificare la materia conferendole forma e qualità (rende cioè la materia secca, umida, ecc). Pertanto tutta la realtà è permeata da questo soffio caldo che dà la vita e, proprio perché aeriforme, è presente ovunque nella realtà. In questo sistema, l’uomo occupa un posto privilegiato, in quanto unico essere dotato per natura di ragione: sicchè egli è l’essere che più si avvicina alla divinità, a tal punto che c’è tra loro parentela. Se Platone (Leggi, X) considerava l’uomo come minuscola particella dell’universo, gli stoici, dal canto loro, asseriscono che "l’intero mondo è città di dio e degli uomini" (Crisippo). Ma il mondo, in quanto nato, non è eterno: esso è corruttibile e, dunque, destinato a perire, anche perché andrà incontro ad una conflagrazione universale (ekpurosiV) legata a quello stesso fuoco che l’ha generato. Il mondo poi rinasce, giacchè si tratta di una vicenda ciclica, e il mondo nuovo rinasce tale e quale quello perito (nel nuovo mondo vi sarà lo stesso Socrate, lo stesso Platone, ecc), poiché, se rinascesse diverso, non sarebbe perfetto o perfetto non sarebbe stato quello precedente. La presenza del logoV assicura il tonoV, la tensione che tiene in equilibrio il mondo e le cose che lo costellano. In quanto retto da questa tensione, il mondo è una sorta di gigantesco vivente dato dalla compresenza di un corpo e di un’anima che lo tiene insieme (e per gli stoici l’anima è pneuma). Ne segue dunque che il mondo è retto nelle sue parti da simpatia (sumpaqhia): le parti sono cioè connesse da un vincolo tale per cui, al modificarsi di una parte, anche le altre si modificano. Ciò giustifica la divinazione, ossia la lettura del futuro sulla base dei segni del presente: il fatto che dio ci lasci sapere in anticipo quel che accadrà non fa che avvalorare la tesi che lo vuole buono. I filosofi che definiranno se stessi come Scettici non elaborano alcuna filosofia della natura, poiché a loro avviso non c'é alcuna rappresentazione che non possa essere falsa, cosicché, se il sapiente dà il suo assenso a una rappresentazione, opinerà; ma é proprio del sapiente non opinare; dunque il sapiente sospenderà il suo assenso.


Corso tenuto presso l'Università di Torino dalla professoressa Luciana Repici nell'autunno 2003

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