JOHN FISKE

 

 

A cura di Marco Machiorletti

 

 

 



 

 

Quando le prime opere di Herbert Spencer, caratterizzate da un’interpretazione dello sviluppo della società e delle istituzioni sociali in termini biologici, furono introdotte negli Stati Uniti, il clima culturale americano era propizio alla diffusione delle idee evoluzionistiche. Tuttavia, contro ogni previsione, l’accoglienza immediata fu fredda. Più che lo stesso contenuto della dottrina spenceriana, fu l’agnosticismo implicito in essa che rese esitanti i pensatori americani, i quali vi ravvisarono malcelate aspirazioni laiche. Nonostante tutto, però, vi furono alcuni che non si preoccuparono dell’ “Inconoscibile” di Spencer, ritenendo anzi di poter conciliare tale concezione con una credenza teistica accettabile. Il più eminente di questi epigoni spenceriani in America fu John Fiske (1842 – 1901), che non ancora ventenne già considerava Spencer il massimo filosofo. Non molto più tardi, però, lo stesso Fiske finì per ritenere che la propria interpretazione di Spencer costituisse uno spencerianismo migliore di quello di Spencer medesimo. Così, pur rimanendo un discepolo, egli in molti punti si staccò dal maestro.

Nel 1860,  a soli 18 anni, Fiske recensì l’History of Civilization in England di Thomas Buckle (1821 – 1861). Ciò gli fornì l’occasione per esporre le proprie vedute, per manifestare la propria ammirazione nei confronti di Spencer, e per indicare il posto attribuito a questi nella storia del pensiero. Fiske dichiarò di credere nell’esistenza di leggi, “fisse ed accettabili”, implicite nei mutamenti sociali, ed affatto analoghe alle leggi dei processi civili. Ai suoi occhi la tesi opposta, secondo la quale lo sviluppo della società sarebbe imprevedibile, sembrò illusoria e dovuta, in parte, all’importanza attribuita all’intervento soprannaturale e miracoloso negli affari del mondo, in parte, alla credenza nella fondamentale inesplicabilità dell’azione umana, ed in parte, alla consuetudine intellettuale di considerare i fatti sociali isolatamente, anziché come serie coordinate di eventi sottoponibili a spiegazione scientifica. Il tardo sviluppo della scienza sociale fu una conseguenza dell’intrinseca complessità di essa e della sua dipendenza dalle scienze fisiche, relativamente più semplici. Finché queste restarono “metafisiche”, non poterono avere uno sviluppo completo, ritardando anche quello delle discipline sociali. Una volta liberatasi la scienza fisica dalle scorie metafisiche, “fu possibile concepire l’esistenza di una regolarità universale e costante nella successione degli eventi storici”. Fino ai tempi moderni non vi fu una scienza della società: Machiavelli, Vico e Montesquieu incominciarono l’opera; Condorcet e, soprattutto, Voltaire la continuarono nel diciottesimo secolo. Ma fu solo con la Filosofia positiva di Auguste Comte che si ebbe una vera scienza del genere, nella quale i mutamenti sociali furono ricondotti a leggi invariabili. Comte, tuttavia, non seppe mettere in luce l’onnicomprensiva legge dell’evoluzione, la legge fondamentale atta a spiegare sia la storia umana che la storia naturale. Una simile conquista spettò ad Herber Spencer. Fiske entusiasticamente asserì:

“Questa sublime scoperta – che l’Universo è un continuo processo di evoluzione dall’omogeneo all’eterogeneo – con la quale può reggere il confronto soltanto la scoperta della legge di gravità ad opera di Newton, costituisce la base non solo della fisica, ma anche della storia. Rivela la legge che regola i mutamenti sociali”. (John Fiske, Darwinism and Other Essays, Houghton Mifflin Co., 1885, p. 146).

Come suggeriscono queste parole, Fiske non ebbe alcuna perplessità nell’accettare l’ipotesi dell’evoluzione quale principio esplicativo, universale e trascendente, di ogni cosa esistente nel mondo; egli fu pronto a fare di tale ipotesi la base di una filosofia “cosmica”. Quando incominciò a scrivere l’opera intitolata Outline of Cosmic Philosophy, suo unico intento era comporre una serie di saggi per illustrare, elucidare, e sviluppare la “Filosofia Sintetica” di Spencer. “Cosmico” gli era sembrato un termine più adatto della stessa espressione spenceriana per indicare ciò che Spencer intendeva. Questi, però, non fu d’accordo, e fece insistentemente rilevare a Fiske che in un certo senso tutti i sistemi filosofici, essendo tentativi di spiegazione dell’universo (o Cosmo), potevano venire denominati “cosmici”. Fiske replicò, nel medesimo tono, che ogni filosofia, mirando a fornire una sintesi delle conoscenze intorno al mondo, poteva essere considerata “sintetica”; inoltre, egli difese il proprio uso del termine “cosmico” con una triplice argomentazione tendente a mostrare come altrettante filosofie correnti, inaccettabili ai suoi occhi, fossero escluse dal significato dell’espressione adottata. In primo luogo, cosmo non indica solo la totalità dei fenomeni, ma anche il loro ordine, la loro successione, e regolarità; nessun sistema teologico basato su miracoli, interventi soprannaturali, o speciali creazioni può essere cosmico, in quanto ammette violazioni dell’ordine universale. In secondo luogo, nemmeno i sistemi “ontologici” o metafisici possono essere cosmici, facendo riferimento ad entità ideali, che non appartengono al cosmo, od universo fenomenico. In terzo luogo, è pure impossibile che la filosofia “positivistica” sia cosmica, poiché essa esclude ogni spiegazione unitaria del mondo. Così Fiske difese il proprio uso del termine “cosmico” dalle critiche di Spencer. Una divergenza circoscritta e verbale come quella indicata può anche sembrare irrilevante, ma in realtà non lo è, suggerendo che Fiske non spinse mai la propria ammirazione per Spencer al punto tale da considerarlo infallibile ed inattaccabile. Fu un sintomo di contrasti sostanziali fra i due pensatori in rapporto a problemi di maggiore entità.

Una delle differenze più sensibili fra la posizione di Fiske e quella di Spencer fu costituita dalla divergenza di prospettiva. Spencer fu un riformatore sociale liberale, di un liberalismo ottocentesco, ed uno studioso di scienze naturali; non ebbe conoscenza profonda di nessuna di queste, ma familiarità con tutte, nutrendo per esse un interesse comparativo. Tentò di applicare i metodi di tali scienze ed anche, talvolta, i loro risultati, per promuovere lo sviluppo della scienza sociale come base di riforma della società. Fiske, invece, ebbe una conoscenza molto risicata delle scienze naturali, ed un interesse assai scarso per esse, come pure per le riforme sociali. Fu dedito, piuttosto, agli studi teorici, umanistici e letterari, raggiungendo la notorietà, soprattutto come storico. Anche dopo aver riconosciuta la necessità di un’impostazione scientifica delle indagini sociali, non arrivò mai in effetti a concepire la scienza sociale come una scienza naturale, ciò che invece fu caratteristico di Spencer. Data questa fondamentale divergenza fra il proprio atteggiamento e quello spenceriano, Fiske finì per occuparsi prevalentemente del problema dello sviluppo dell’umanità, cioè delle leggi della storia umana, dall’evolversi della religione e delle credenze, nonché (questo è il suo maggiore e più originale contributo alla filosofia evoluzionistica) del ruolo della prolungata infanzia dell’uomo all’inizio del processo di evoluzione della società. In base a tali differenze, è lecito affermare che la filosofia di Fiske segnò un avanzamento rispetto all’eredità spenceriana.

Dapprincipio, la teoria della conoscenza di Fiske ricalca fedelmente quella di Spencer, fino alla parziale conclusione che l’uomo può conoscere solo ciò che è causato, finito e relativo. Per la stessa natura del processo conoscitivo, sarà sempre impossibile attingere l’Assoluto, l’Infinito e l’Incausato. Dato che l’intima essenza della materia e dello spirito deve trascendere il finito, non si può affermare nulla di essa. Il sapere, quindi, non è altro che la classificazione degli stati di coscienza prodotti in noi da ignoti agenti esterni, intrinsecamente inconoscibili; tutt’al più è possibile conoscere l’apparenza delle cose, non le cose in sé. L’attività conoscitiva ha dei limiti invalicabili, dovuti alla finitudine della natura umana. Pertanto, data la situazione, ciò che conosciamo non sono le cose nella loro dimensione reale indipendente dalla nostra conoscenza, bensì solo le cose come ci appaiono nel processo conoscitivo. La verità, quindi, non concerne mai le cose, ma sempre il nostro rapporto con esse; agli occhi dell’uomo una proposizione vera è tale in quanto la sua negazione risulti inconcepibile per la mente umana. Fino a questo punto Fiske seguì Spencer, ma mentre Spencer non procedette oltre, Fiske ammise la possibilità dell’esistenza di qualche altro essere, capace di concepire l’umanamente inconcepibile; la conoscenza attinta da siffatto essere e la relativa verità avrebbero avuto carattere superumano. Così, nonostante l’accordo iniziale fra i due pensatori e il comune appello all’esperienza umana nello spirito della tradizione dell’empirismo britannico, il riconoscimento da parte di Fiske della possibilità di un sapere soprannaturale, opera di un essere superiore, suggerì una posizione filosofica di gran lunga più vicina all’idealismo teistico convenzionale.

Anche l’analisi della causalità intrapresa da Fiske, può servire ottimamente ad illustrare come piccole divergenze di prospettiva iniziale abbiano dato luogo a conclusioni disparate. Spencer, forse per la familiarità con le scienze naturali, considerò i problemi di successione causale in termini di persistenza di forze, ossia, attendendosi a un punto di vista fisico. Fiske, invece, in virtù della propria inclinazione per gli studi storici e letterari, preferì basare l’esame del principio di causa sul presupposto della relatività della conoscenza umana. Egli sostenne soprattutto l’importanza della scoperta della vera natura del legame causale, in quanto, secondo la teoria gnoseologica precedentemente elaborata, solo gli stati di coscienza determinati da tale legame, e non il rapporto causale in sé e per sé, potevano considerarsi conoscibili. Ma nonostante che la natura della causalità sfugga alla mente umana, date le limitazioni di cui questa è partecipe, sarebbe irragionevole negare l’esistenza di relazioni causali oggettive; non è quindi possibile respingere il principio di causa, secondo il quale ogni evento finito è causalmente determinato, trattandosi di una verità necessaria. Da tempo, l’analisi di questa legge ha suggerito che, essendo le cause degli eventi finiti esse stesse finite, debbono a loro volta dipendere da altre cause. Tale ricerca di cause può estendersi indefinitamente, senza che ci si avvicini mai ad un principio reale, a meno che, a qualche punto del processo, non venga postulata una Causa Prima o Causa Incausata. Questa non è concepibile finita, ché, altrimenti, dovrebbe essere a sua volta considerata causata. Pertanto, si è giunti ad identificarla con Dio, e gli attributi della Divinità sono stati progressivamente inclusi nel puro concetto filosofico della Causa prima. La quale idea, liberata dalle associazioni antropomorfiche, secondo Fiske avrebbe potuto costituire oggetto di culto. Lo stesso Fiske lo dichiarò in questi termini: la Causa prima “rappresenta il vero oggetto del sentimento religioso, anche se della sua natura – essenziale, distinta cioè dalle manifestazioni esterne – la mente umana non può formare alcuna ipotesi verificabile” (Outlines of Cosmic Philosophy, Houghton Mifflin Co., 1903, p. 268).
Mediante sottili accorgimenti verbali, Fiske trasformò il concetto agnostico di Spencer in un’idea più flessibile alle finalità del culto, suggerendo, inoltre, la sostituzione del Teismo Antropomorfico con il Teismo Cosmico senza prospettare mutamento alcuno nella funzione delle chiese. Ai suoi occhi, la scienza non era destinata ad allontanare l’uomo dalla religione, questi, anzi, come Fiske stesso ebbe a scrivere nel titolo di una delle proprie opere, apparendo guidato Through Nature to God. “L’ostilità fra la Scienza e la Religione, intorno alla quale si è tanto scritto e discusso, non è altro che una chimera dell’immaginazione” (Ibid., p. XIV). In realtà per Fiske la cosa difficilmente poteva essere diversa, identificando egli la scienza con la conoscenza umana, e la religione con le aspirazioni dell’uomo. Nessun evoluzionista del suo stampo, partecipe della fede ottimistica d’ispirazione spenceriana, avrebbe potuto sostenere l’esistenza di una “radicale ostilità” fra le aspettative ed il conoscere, in quanto ciò avrebbe implicato “una fondamentale deficienza nella costituzione delle cose” (Ibid.). Fiske si occupò di problemi religiosi in molti lavori filosofici e, nell’ultimo periodo di vita, ribadì spesso le conclusioni teistiche della propria concezione cosmica.

Un’altra interessante divergenza fra i due pensatori affiora nei rispettivi scritti dedicati all’analisi del problema delle fonti di energia sulla terra; problema in cui rientra la questione del rapporto fra l’energia connessa con i fenomeni fisici e quella riscontrabile nei fenomeni mentali o nervosi. Spencer fu incline ad una soluzione fisicalistica, e, per quanto possibile, cercò d’impostare la propria analisi dei fenomeni non-fisici in termini fisici. Questa tendenza riduzionistica l’indusse a sostenere l’ipotesi di una trasformazione di energie fisiche nei processi mentali, ed a tentare frequentemente di ricondurre le operazioni dello spirito a quelle della materia. Fiske, invece, non pensò mai alla possibilità di una simile riduzione. Egli credette piuttosto nell’esistenza di una correlazione fra le energie fisiche e quelle psichiche, ossia nell’esistenza di un “parallelismo psicofisico”. In tal modo, giunse ad affermare che “non vi è mutamento nella coscienza al quale non corrisponda una trasformazione chimica nel tessuto nervoso” (Outlines of Cosmic Philosophy, p.338), senza però suggerire con ciò che i fenomeni del primo tipo dovessero essere considerati causa di quelli del secondo, o viceversa. Accettato il parallelismo psicofisico, non procedette oltre, sostenendo che “l’abisso fra i fenomeni della scienza e tutti gli altri fenomeni è invalicabile” (Ibid., pp. 334 –335), tale, quindi, da permettere una corrispondenza, ma mai trasformazioni.

Fin qui, esaminando gli aspetti principali del pensiero di Fiske, siamo stati in grado di mostrarne il progressivo distacco dalle idee di Herbert Spencer e di spiegare la divergenza sulla base della disparità di carattere e d’interessi dei due autori. Abbiamo visto che Fiske finì per assumere un atteggiamento d’indipendenza nei confronti del proprio maestro, ciò che gli consentì di formulare una dottrina originale, senza riscontro nella filosofia spenceriana. Egli espresse le nuove idee brevemente nell’opera Outlines of Cosmic Philosophy, e con maggiore compiutezza in un saggio su “Il Significato dell’Infanzia”. In questo lavoro tentò di mettere in luce le radici naturali dei sentimenti etici e sociali del genere umano, risalendo all’infanzia relativamente prolungata propria dell’uomo.

Il cervello umano, affermò Fiske, a differenza di quello degli altri animali passa attraverso le fasi più importanti di sviluppo dopo la nascita. In confronto ai piccoli di qualunque altra specie, il bambino appena nato ha ben poche facoltà completamente sviluppate; inoltre, egli deve assimilare una serie di modelli di comportamento molto più ampia che qualsiasi altro animale. L’unico modo, affinché un cervello complesso come quello dell’uomo possa svilupparsi compiutamente, è di prolungare il periodo di dipendenza. I membri del gruppo preumano assistiti con ogni premura dai genitori avrebbero le maggiori possibilità di sopravvivere; parimenti, la selezione naturale tenderebbe a favorire gli individui più inclini a trasmettere ai propri discendenti le attenzioni ricevute. Attraverso un’evoluzione del genere deve essersi determinato un graduale incremento dell’interesse dei genitori per i giovani. Così, sempre secondo Fiske, dall’impulso a sorvegliare l’uomo nella sua prolungata infanzia emerse un’organizzazione familiare abbastanza stabile, anche se semplice, divenuta poi clan, e quindi società civile. Parallelamente a questo sviluppo sociale ebbe luogo un’evoluzione dei caratteri morali, essa pure esplicabile in base al processo di selezione naturale. I discendenti più atti a sopravvivere sarebbero quelli sorvegliati nel modo migliore e più a lungo dai genitori; tali genitori, tuttavia, sarebbero quelli cui non mancò la virtù della simpatia in forma embrionale. Della medesima virtù risulterebbero con molta probabilità dotati anche i discendenti, atti a trasmetterla alla loro progenie. Questo fu il processo, nell’opinione di Fiske, attraverso il quale i sentimenti umani divennero patrimonio comune di tutta l’umanità.

Grazie a tale teoria, Fiske concepì la moralità e la socialità in termini evoluzionistici, subordinandole entrambe al proprio singolo principio “cosmico” di sviluppo. Trasformata l’ipotesi dell’evoluzione biologica in una legge basilare della struttura universale, Fiske finì per costituire un caso estremo di filosofo sopraffatto da un’idea scientifica.

 


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