FERDINANDO GALIANI

DELLA MONETA

Livro I

De' Metalli

Io ho deliberato di scrivere e, secondo le mie forze e il mio talento lo potranno, illustrare la natura e le qualità della moneta, o sia di que' metalli che le nazioni culte come un equivalente d'ogni altra cosa usano di prendere e dare: materia quanto per la sua utilità gravissima, tanto, per l'oscurità che la cuopre, degna d'essere studiata e conosciuta assai più di quello ch'ella non lo è dagli uomini preposti a comandare. Mostrerò imprima perché de' metalli, e principalmente dell'oro e dell'argento siansi tutti gli uomini costantemente per moneta serviti; donde il valore de' metalli abbia origine; e che questo né dal capriccio degli uomini, né dalle leggi de' principi si forma, si costituisce o si regola, ma che da quello del metallo il suo valore la moneta ritrae. Passerò indi a spiegare la natura e gli effetti degli alzamenti ed abbassamenti della moneta così celebri e misteriosi; e poi la necessità della moneta, il suo corso e la ingegnosa rappresentazione di essa con carte, fatta ad utile pubblico, sarà esaminata. Finalmente dell'interesse, dell'aggio e del cambio, che sì astruse cose sembrano, sarà appalesato ogni più riposto ordigno ed ogni principio che le regola e le muove. Se alla vastità dell'idea, che io ben conosco difficile, sarà per corrispondere il fatto, non si conviene a me, ma a' miei lettori il dirlo. Io sono certo però che, mentre il solo amore al ben pubblico è che a scrivere mi conforta, dell'aiuto della Suprema Mano, che alle virtuose imprese particolarmente si presta e di cui sola ho bisogno, non sarò per esser privo, né mai in così lungo cammino abbandonato.

Capo Primo

Della scoperia dell'oro e dell'argento e del traffico con essi fatto. Come e quando s'incominciarno ad usa per moneta. Narrazione dell'accrescimento e diminuzione della moneta. Suo stato presente.

In tutti i paesi che la moneta usano, è questa da tre metalli costituita: l'uno di grande, l'altro di mezzano e il terzo di basso valore. L'oro e l'argento senza eccezione alcuna occupano da per tutto il primo e il secondo grado. Il terzo metallo ne' vari secoli è stato diverso. L'Europa tutta oggi usa il rame, usaronlo ancora gli antichi; ma i Romani talvolta usarono anche il rame giallo, o sia ottone, e il bronzo; e sonovi pure monete di piombo certamente antiche. Il ferro in Grecia e nella Gran Brettagna a' tempi di Cesare fu in uso. E molti popoli sono oggi, che una mistura di due metalli adoperano per bassa moneta. Oltre a ciò, non mancano nazioni che non di metalli, ma si servono o di frutta, come di mandorle amare in Cambaia, di cacao e di maitz in qualche luogo d'America, o di sale, come è nell'Abissinia, o di chiocciole marine. Le quali cose, se moneta siano o no, quando sulle parole si fusse qui per disputare, molto si potrebbe argomentando dire; ma di nomi saria la disputa, e non di cose. Dell'oro e dell'argento adunque, degli altri metalli meno curando, saremo a dire, e prima della loro invenzione ed antico uso.

Molte maniere hanno i filosofi immaginate, colle quali poterono i primi uomini alla cognizione de' metalli pervenire; delle quali a me pare la più verisimile questa. Io penso che i primi metalli ad esser conosciuti debbono senza dubbio essere stati il ferro e il rame: perché essendo questi in ampie vene non molto profonde e ascose raccolti, e spesso in grandi masse di metallo quasi puro, poté l'ammirazione, che dell'esperienza e dell'indagamento curioso è madre, portar gli uomini della prima età ad appressare al fuoco questi corpi, dalle pietre e dalle terre nell'aspetto diversi; e nel vedergli correr fusi e liquefatti sul suolo fu la loro natura conosciuta. Poté dunque la curiosità, che tanto è maggiore, quanto sono più grandi i bisogni e più ignota la proprietà de' corpi, condurre gli uomini a questa cognizione. Poté anche farlo il caso, a cui delle cose grandi la scoperta per ordinario è dovuta: poiché gli uomini avendogli forse, non distinguendo le masse de' metalli dalle ordinarie pietre, accostati al fuoco per restringere e sostenere le legna, gli avranno veduti con maraviglia liquefare. O finalmente dall'eruzioni de' vulcani, che menano talora torrenti di liquefatti metalli, l'arte di lavorare il ferro avranno gli uomini appresa.l E quindi forse egli è che i popoli, di cui la favola antichissima e la storia parla come di lavoratori di metalli, altri non sono che gli abitanti de' paesi in cui arsero anticamente fuochi naturali e vulcani. Ma l'oro e l'argento, che in insensibili fila sono in mezzo a durissime pietre sparsi e nascosti, o che fra l'arena in minutissime pagliuole sono misti, non poteano dare a conoscere che potessero al fuoco liquefarsi e unirsi, e che malleabili fossero, se colla scoperta di altri metalli non avessero già gli uomini saputo le qualità di questa classe di corpi. Perciò io porto opinione che nelle arene de' fiumi, de' quali moltissimi in ogni parte della terra recano oro al mare, abbiano gli uomini questo metallo in prima raccolto: e che poi, argomentando che ne' monti erano queste particelle rose e portate via dall'acqua, cominciarono pur essi a cavare i monti ed andare a prendere l'oro nelle natie sue vene; ed ivi l'argento, che quasi sempre è suo compagno, rinvenirono ancora.

Così scoperti, fu la loro singolare bellezza, e lustro, che fecegli aggradire. E che anche negli antichissimi tempi così pensassero gli uomini, si può comprendere dal vedere che così pensano ancor oggi i selvaggi e gl'Indiani. Perocché a trovare il vero fra quello che si dice essere ne' remoti secoli accaduto, non vi è più agevole via che riguardare ai presenti costumi de' popoli inculti e da noi lontani; operando la distanza del luogo quello stesso che fa la diversità del tempo. E si può perciò con verità affermare che nel presente secolo sono esistenti tutte l'età dal diluvio fino a noi passate, le quali da distanti popoli ne' loro costumi veggonsi ancora imitate. Or se niuna nazione barbara è oggi, in cui non sieno le donne, i bambini e gli uomini più potenti avidissimi d'addobbarsi la persona, né mai ne' loro ruvidi ornamenti, quando possono averlo, manca l'oro e l'argento, lo stesso de' primi uomini è da dire. In tutta l'America prima del suo scoprimento, quantunque niun uso di moneta vi fusse, erano l'oro e l'argento sopra ogni altro stimati, e come cosa sacra e divina venerati. Né in altro, che nel culto delle loro divinità, e nell'ornato del principe e de' signori adoperavansi. Da' due antichissimi libri che ci restano, il Pentateuco ed i poemi d' Omero, si comprende che la stessa stima ed uso ne avesse l' antichità fatta. Vedesi in Omero che tutti gli ornamenti de' duci del suo esercito erano d'oro e d'argento intrecciati, e spesso di chiodetti guarniti. Però è degno di osservazione che dell'argento incomparabilmente meno che dell'oro si parla; e si conosce, per quanto a me pare, che in que' tempi eguale o anche maggiore era la rarità e la stima dell'argento sopra quella dell'oro. La qual cosa sebbene a prima vista sembri straordinaria, meditandovi, si conosce che non potea essere altrimenti. Egli è da sapersi che, siccome di tutti i metalli che sono nelle arene de' fiumi sparsi, non ce n'è alcuno che vi sia più copiosamente dell'oro, così per contrario l'argento mai non vi s'incontra. Or che meraviglia, se popoli rozzi, e che la maggior raccolta la fanno appunto nelle arene, che è di tutte le maniere la più facile, avessero meno argento che oro? Così è anche oggidì fra i barbari. E perciò dee pur essere vero che ne' tempi antichissimi fosse conosciuto prima l'oro dell'argento. Perciò la spada, la quale all'offeso Ulisse fece il re Alcinoo dall'offensore Eurialo presentare, di grandissimo valore era, perché il suo pomo avea ((con chiodetti d'argento)).

Ma mentre ancora incolti erano i Greci, già l'Asia e l'Egitto con più civili costumi viveano, e più abbondavano di ricchezze, Salomone, che agli Ebrei le porte del commercio dell'Oriente aperse e mercatanti gli rese, colle sue navi da Ofir e da Tarsis immense ricchezze trasse a Gerusalemme. De' quali luoghi l'uno è, come io stimo, la costa orientale dell'Africa, l'altro la Spagna. I Fenici e i Tirii indi posti in suolo sterile ma di sicuri porti ripieno, non molto dopo ad ogni altra nazione tolsero il dominio del mare, e soli a mercatantare incominciarono. Furono essi i primi che, dell'oro e dell'argento provvedendo copiosamente la Grecia e l'Asia Minore, all'uso di moneta gli fecero insensibilmente pervenire. Perché avendo delle loro colonie ripiena la Sicilia, la Spagna e l'Africa, paesi di miniere ricche abbondanti, di là l'oro traendo cominciarono in Grecia a portarlo, e con altre merci a cambiarlo. In questo cambio ben presto dovettero essi avvedersi ch'essendo sempre eguale il valore del metallo, colla sola varietà del peso, o sia della quantità, dovevasi regolare. Perché erano sempre eguali le raccolte, generale la ricerca, né mai diversa la qualità: non essendo allora note le arti della lega, né della piccola differenza naturale de' carati per la rozzezza de' tempi avendosi cognizione alcuna. Perciò que' popoli che i metalli raccoglievano e cambiavano, dovettero per maggior comodità stabilire certi pesi e misure, secondo le quali si potesse il metallo apprezzare. Il che da tutti gli altri popoli, che vino, grano, olio raccoglievano (piante in que' tempi forse tanto ad alcuni paesi particolari e rare, quanto oggi la cannella, il cacao e gli aromi), in alcun modo imitare non si poteva per la sempre diversa bontà della mercanzia. Né fu cosa difficile che, cambiandosi già i metalli divisi in giuste e pesate quantità, si cominciassero queste anche dalla pubblica autorità, che presedeva ne' mercati ai cambi ed al commercio, con qualche segno ad improntare.

Ed ecco la naturale e vera introduzione e del conio e della moneta. Quindi è forse che Erodoto ai Lidii attribuisce la prima invenzione del conio; perché i Lidii ne' loro fiumi molto oro raccoglievano, e lo davano ai Tirii ed ai Feniri: e da questi alle altre regioni recandosi, venne ad acquistare quella universale accettazione, che moneta lo costituisce. La narrazione di questi accidenti compone tutta la mitologia e la sacra favola greca, la quale si potrebbe giustamente definire una confusa storia delle prime navigazioni e commerci fatti nel Mediterraneo, e delle rapine e guerre per cagion del comercio avvenute. Né fra quegli antichi secoli e i nostri altra disparità io trovo, che quella che dal grande al piccolo corre. Quel che oggi è l'oceano era allora il Mediterraneo, e mondo dicevansi le terre che sono dal mare Mediterraneo bagnate. La Spagna, che io credo essere stata quella famosa Atlantide tanto con oscure notizie dagli egizi sacerdoti celebrata, corrispondeva alla nostra America; il mar Nero e la Colchide era la presente Guinea; l'Ellesponto e la Tracia, l'India; i Tirii, i Sidonii, i Cartaginesi erano le potenze marittime e le repubbliche negozianti de' nostri dì; l'Egitto e l'impero babilonico alle grandi nostre monarchie, che in gran parte sono da' popoli negozianti provvedute, rispondono; ed in più piccolo spazio i medesimi accidenti di navigazioni e scoperte gli Ercoli e gli Ulissi di allora ed i nostri Colombi e Gama incontrarono; ed i buoi, le ulive, il grano allora, come ora il caffè, il tabacco, le droghe furono da' naturali paesi tolti ed altrove traspiantati.

Usossi adunque il metallo pesato quasi subito dopo che a mercatantarlo s'incominciò. Il che se presso gli Americani non era avvenuto, fu perché questo negozio e trasporto per varie mani non v'era. Difficile cosa è il determinare ora l'origine della moneta, se tra metallo pesato e moneta si vuol fare disparità. Perché i sicli d'argento sin dal tempo d'Abramo nominati, e i talenti d'oro son certamente nomi di pesi fra' Greci e fra gli Ebrei. Ma questo non pruova che monete anche non fossero allora, come poi lo furono, perché e la libbra, o sia lira, e l'oncia sono fra noi nomi di pesi, che pure alle monete si appropiano. Che se il metallo pesato, e comunemente accettato, si vuole avere, come si dee, per vera moneta, si potrà con certezza affermare che nella guerra troiana l'oro ed il rame s'usò per moneta. Suole Omero gli uomini denarosi dirgli ((ricchi d'oro, e di rame)). Nel tesoro à'Ulisse ((molto oro e rame era amonticchiato)). Né il chiamar la moneta col nome del suo metallo è cosa strana, mentre la moneta è detta aes da' Romani, Chalchos da' Greci, argent da' Francesi. Fu dunque la prima moneta che la Grecia usò, d'oro e di rame; d'argento per la sua rarità non avendola potuto avere. Le monete d'oro erano il talento e il mezzo talento, che spesso coll'attributo di panta sono da Omero nominati, il quale al nostro ((giusto)), e ((trabboccante)) corrisponde. Usarono in oltre per moneta di conto la voce Bos, che dinota il bue; sia che co' buoi ogni cosa valutassero, o che, come io mi do a credere, sia questo un nome di moneta. Se moneta ella fu, d'oro certamente era, leggendosi al lib. 23 dell'Iliade una schiava, che destra molto ed industriosa era, valutata non più che tesschraboion, ((quattro Boss)). Questa maniera di valutare lungo tempo fu in uso, trovandosi che la vedova di Polidoro re di Sparta una sua casa vendé valutata a questo modo. Né manca chi crede che questo nome alla moneta si fosse dato, perocché l'immagine del bue aveva. La quale opinione a me non piace, e sono più inclinato a credere che sulle prime questa moneta, che forse era lo stesso talento, al prezzo d'un bue corrispondesse, e che i Greci antichi, come poi i Sassoni nelle loro leggi usarono, la moneta istessa co' bestiami apprezzassero; ma poi, fatto più abbondante il metallo, non corrispose più al valor de' bestiami. E quindi forse sarà avvenuto che la celebre echatombi a' tempi in cui scrive Omero, non dinotava più un numero di cento buoi, ma era un nome di sagrifizio, che anche di capretti e d'agnelli talora era costituito.

Ma a' tempi della guerra troiana l'Oriente avea pure ad usar la moneta incominciato, con questa differenza: che la moneta d'argento prima di quella d'oro, secondo le memorie che ce ne avanzano, fu adoperata. I sicli erano d'argento, e quella voce ebrea Kesita, che nel Genesi al c. 53 si trova, e che per ((agnello)) è spiegata, più verisimile è che fosse una moneta d'argento, così detta dall'antico suo valore, che era eguale a quello d'una pecora, e non già dalla imagine impressavi. E certamente avendo gli Asiatici in gran parte allora con vita pastorale vivuto, i prezzi delle cose a quello de' loro bestiami avranno essi comparato. Ma delle vicende della moneta in Oriente meno io sarò sollecito d'indagare la storia, che delle regioni alle nostre più vicine. A queste adunque ristringendomi, dico che l'origine della moneta d'argento in Grecia mi è ignota. So che le miniere de' Cartaginesi, cominciate a cavare presso la Nuova Cartagine da Annibale, furono abbondantissime d'argento. Non meno lo erano quelle di Laurium nell'Attica, che a' privati Ateniesi appartenevano, ma queste in tempo più recente si scavarono; mentre a' tempi di Dario non era per ancora in Grecia reso sì abbondante l'argento, che meno dell'oro valesse. Dall'accurata descrizione che delle offerte fatte al tempio di Delfo fa Erodoto, il quale dalle tradizioni di que' sacerdoti gran parte della sua storia trasse, si comprende questa verità. Sono però dall'altra parte da aversi per favole: che un Filippo re di Macedonia custodisse una tazza d'oro, come cosa rarissima, sotto il suo origliere dormendo; che gli Spartani, per indorare il volto a un simulacro di Apollo, non avessero potuto in tutta la Grecia trovar oro che vi bastasse; che Ierone I re di Siracusa, da altri che da Architele Corintio non avesse potuto aver oro da farne una statuetta. È eccessiva e falsa, come ho detto, questa rarità: poiché Erodoto enumerando le ricchezze in Delfo da lui vedute, dice aver Creso solo donati all'oracolo CXVII mattoni d'oro lunghi altri di sei palmi, altri di tre, e un palmo grossi, de' quali IV erano d'oro di coppella pesanti due talenti e mezzo ognuno, gli altri tutti erano d'oro bianco, cioè di basso carato. Donò di più un leone d'oro puro di X talenti; due tazze, una d'oro e una d'argento, quella di peso VIII talenti e 1/2, questa capace di seicento anfore; quattro gran conche d'argento, ed altri molti doni ancora. Ad Anfiarao suo amico donò uno scudo ed un'asta interamente d'oro. Da queste più veraci narrazioni si scuopre l'abbondanza, o almeno la mediocre quantità de' preziosi metalli in quel tempo.

In questa mediocrità si visse fino ad Alessandro. Da lui spalancatesi le porte dell'Imperio persiano e dell'Indie, e l'aspetto intiero del mondo cambiatosi, per altri canali corse il commercio, e di assai maggiori ricchezze s'empì la Grecia, la Siria e l'Egitto. Lo che si comprende dalla pompa de' funerali suoi, e assai più dalla coronazione di Tolomeo Filadelfo, che ancor oggi con istupore come cosa incredibile si legge. Ma tutte queste ricchezze le assorbì Roma, e se le ingoiò. Quella Roma, che nata povera, cresciuta lentamente per le sue discordie, restò da queste oppressa, e nella lunga scostumatezza sua ed ignavia de' suoi principi estinse quelle virtù ch'ella avea per tanti secoli conservate. I trionfi di Paolo Emilio, di Lucullo e di Pompeo furono gli ampi fiumi che nell'oro e nell'argento la fecero nuotare, e di tanta ricchezza l'empirono, che fu certamente maggiore di quella che alcun'altra città, anche dopo scoperta l'India, si abbia finora avuta. Dove è da ammirare la differenza fra que' secoli e i nostri: allora le ricchezze erano delle armi compagne ed alle vicende di queste ubbidivano, oggi lo sono della pace; allora i più valorosi popoli erano i più ricchi, oggi i più ricchi sono i più imbelli e quieti; e questo dalla diversa virtù nel combattere deriva.

Ma per dire alcuna cosa più particolare della storia della moneta fra i Romani, è da sapersi che Roma non ebbe in prima altra moneta che di rame, da Servio Tullio battuta e pecunia chiamata. Non che la moneta d'oro e d'argento non conoscessero, ma questa non era propria, e l'aveano da' vicini Etrusci, popolo potente, culto, industrioso, e senza dubbio alcuno d'Oriente venuto. Nell'anno CDLXXXIV dalla sua fondazione fu coniata la prima moneta d'argento, e LXII anni dopo quella d'oro. Intanto nelle calamità che nelle guerre puniche ebbe la Repubblica, fu il prezzo del rame con istraordinarie mutazioni variato tanto, che as si chiamò una porzione di rame, che solo alla 24 parte dell'antico corrispondeva. Grandissima mutazione in vero, se ella fusse stata così nelle cose come fu nelle parole: ma le merci (non mutato il valore intrinseco) secondo la variazione de' nomi nel prezzo si variarono. Anche il valore dell'argento riguardo al rame fu grandemente cambiato. Dopo queste mutazioni, poche più ne fecero i Romani, e solo gl'imperatori che furono dopo Pertinace nella bontà de' carati le monete senza ordine e regola andarono corrompendo.

Ma dappoiché, per la mutazione degli antichi costumi ed opinioni, cominciò l'Imperio romano dalla sua grandezza e virtù a declinare, si vide a poco a poco diminuire l'abbondanza dell' oro e dell'argento. Perché i barbari non più col ferro e colla forza erano respinti, ma coll'oro e co' tributi delle terre romane si teneano lontani. Così questi metalli nelle vaste settentrionali regioni si spargevano, e dissipandovisi erano consumati. E molto più scemò l'abbondanza quando, avendo i barbari inondato e guasto l'Imperio, nelle sovversioni delle città e ne' saccheggi, molto metallo restò sotterra sepolto, molto se ne distrusse e disperse, né col commercio, che interrotto ed estinto era, si poté ripigliare. Quindi ne' secoli IX e X in cui dopo il gran periodo tornarono le nostre provincie in quello stesso stato di rozzezza e povertà, in cui ne' tempi vicini al diluvio erano state, la rarità dell'oro di nuovo divenne grandissima, ed il valore delle cose parve per conseguenza bassissimo. Il che non sarebbe stato se, come usarono i Romani di alzare la moneta, l'avessero anche sbassata. Ma essi sostenendo sempre il valore una volta alzato costrinsero poi le merci ad avvilirsi, quando la moneta ritornò a scemare. Da questa povertà vennero gli ordini del governo di questi secoli, e principalmente le leggi feudali, il vassallaggio, la schiavitù, i censi, le decime, e altri simiglianti costumi. Perché non potevano i sovrani ed i padroni altrimente riscuotere i dazi, che in servizi personali, o in frutti della terra.

In questo stato travagliandosi gli uomini, struggendosi e saccheggiandosi tra loro, fino al secolo XIV vissero miseramente. Tanto è vero che l'avidità nostra quando gli ordini del governo turba, c'impoverisce tutti senza arricchire alcuno; ma se sotto i civili regolamenti sta frenata, è cagione onde gli stati s'arricchiscano ed in forze ed in felicità si augumentino. Quindi è che nel XV secolo, prima ancora della scoperta delle Indie, l'oro e l'argento, più regolatamente vivendosi, tornarono ad apparire in maggior quantità.

Ma pervenuti gli anni della nostra redenzione al numero di MCCCCXCII, Cristoforo Colombo genovese con navi spagnuole avendo la nuova India scoperta, e i Portoghesi nel tempo istesso nella costa della Guinea e dell'Oro inoltratisi atrafficare, a persero nuova strada, onde vaste quantità d'oro e d'argento potesse l'Europa acquistare. In pochi anni si trasse dall' America tutto quel metallo che in tanti secoli aveano gl'Indiani raccolto; e quanto grande questo fosse, si può appena colla mente concepire. Fu allora che, aperto il campo all'industria de' sudditi e all'avidità de' principi, senza più spogliarsi l'un l'altro, sperarono essi potersi tutti arricchire. Così a' pacifici pensieri rivolto l'animo, si cominciò ad impiegar que' tesori, che prima in armi e in guerre struggevansi, alla edificazione di navigli, di colonie, di porti, di fortezze, di magazzini e di strade. Quella gente, che per tentar la sorte prima nella guerra soldavasi, allora tutta sul mare, a' viaggi, scoperte e conquiste del nuovo mondo si rivolse con incredibile fervore. Lo che, siccome agl'Indiani innocenti portò saccheggi, schiavitù, stragge e desolazione, così all'Europa, già tutta di commerci, di compagnie e d'industrie resa vaga, arrecò pace ed umanità, miglioramento nelle arti, lusso e magnificenza: onde ella tutta di ricchezze e di felicità mirabilmente s'empì. Sparve da noi il barbaro uso de' servi; perché nostri servi, anche più crudelmente trattati, divennero gl'Indiani e i negri dell'Africa: essendo verissimo a chi ben riflette, che non può un popolo arricchire senza render povero ed infelice un altro; e siccome i Romani colle conquiste resero prospera l'Italia, così noi, sebbene conquistatori non crediamo di essere, pure sulle miserie altrui siamo arricchiti: benché la distanza grande de' luoghi fa che non ci feriscono gli occhi le calamità che in America soffrono quelle infelici vittime del nostro lusso; e quindi ci persuadiamo che la industria e il traffico innocentemente ci dia guadagno. Le ricchezze che l'India somministrò, quasi tutte sulla Spagna, a cui fu congiunto anche il Portogallo, imprima colarono; ma le calamità di quella nazione presto le fecero trascorrere altrove: pure la quantità era sì grande, ed il valore delle cose tutte era tanto incarito, che certamente non si sarebbero molto più lavorate le miniere dell'India per trarne nuova quantità di metalli ricchi, se non si fosse inaspettatamente aperto un ampio canale al loro corso.

È stata l'India antica in ogni tempo più di noi bisognosa d'oro, ed anche più d'argento, e per guadagno da' nostri mercanti vi si portava. A' tempi di Plinio era così: da lui ci è fatto sapere questo, dicendo egli: ((indigna res, nullo anno minus H. S. quingenties imperii nostri exhauriente india)). Gio. Villani dice dell'oro ((che i mercatanti per guadagnare il raccoglievano, e portavano oltre mare dove era molto richiesto)). Nelle note di Uberto Benvoglienti alla Cronaca Sanese di Andrea Dei, all'anno 1338, si trova memoria del commercio di Soria fatto da Benuccio di Giovanni Salimbeni, camerlengo di Siena, uomo sopra lo stato di privato ricchissimo, con queste voci: ((il detto Benuccio l'anno seguente 1338 avea colto grande qumtità d'argento e di rame, ed essendo venuto all'usato el grande mercatante di Soria al porto d' Ercole con quantità di mercanzia di seta, tutte furo comprate per lo detto Benuccio, et pagate d'argento e di rame)). il valore di tutte ascende a 130 mila fiorini d'oro; ed è cosa curiosa a leggere, e degna di riflessione, per conoscere quanta moneta nostra assorbisse l'Oriente. Ma questo negozio, perché in parte per terra e fra gente inimica e rapace si dovea fare, era poco frequentato, e solo dagl'Italiani. Vasco di Gama portoghese l'anno 1497 passò il capo di Buona Speranza, che Bartolomeo Diaz avea poco tempo prima scoperto; e in Oriente pervenuto aprì col suo esempio, e colle conquiste poi fatte, a tutta l'Europa il commercio più facile e più spedito con quelle regioni. L'India arida di argento tosto assorbì quella soverchia quantità che in Europa ristagnava; onde avvenne che fra noi non variò il valor de' metalli proporzionatamente alla quantità dall' America venutane, ma molto meno: mentre, essendo simili le leggi del moto della moneta a quelle delle acque correnti, quanto in maggiore spazio di terra la moneta si spande, tanto meno in ogni parte la quantità ne cresce ed il valore s'abbassa.

Questo stato di cose ancora dura. La nuova India manda a noi i metalli, noi molto in lusso ne struggiamo, qualche poco in accrescimento della quantità della moneta s'impiega; e perciò ella va sempre, benché insensibilmente, nel valore calando; molto in utensili ne riteniamo, il resto all'India antica s'invia, la quale in cambio ci dà moltissimi comodi della vita: droghe, stoffe, tele, legni da tingere, avolio, gemme, porcellane, ma sopra tutto caffè, tè, medicine. Molta gente dabbene deplora quasi una perdita di ricchezze questo uso de' metalli preziosi: tanto è facile alla nostra mente errando credere la ricchezza una cosa assoluta, e non come ella è, una proporzione che dalla varia abbondanza deriva. E pure facile è il comprendere che, se questo uso non si facesse dell'oro e dell'argento, questi metalli più non sariano ricchezze; ma quando egualmente abbondanti come il rame fossero, avriano egual valore. Onde si potea conoscere quanto ragionevoli sono gli uomini, e savi, se dopo essersi provveduti d'oro e d'argento per quanto basta al commercio ed al lusso, il resto ai più bisognosi lo danno, e lo convertono in altri beni. Dunque si conviene avvertir meglio sulle operazioni umane, e quando la condotta d'intiere nazioni si esamina, presumer meno di sé ed essere assai più lento ad emendare.

Sono le miniere dell'America incomparabilmente più ricche di quelle che ha l'Europa; o sia con egual fatica si ottiene maggior quantità di metallo: da questo è avvenuto che l'europee o poco o nulla più si lavorino. Anzi se tanto consumo non si fosse de' metalli fatto, già molto meno si seguirebbe a scavare anche in America. Poiché egli è da avvertire che, quanto cresce la quantità de' metalli, tanto il numero delle miniere atte a lavorarsi diviene minore: mentre non basta che un paese sia copioso di vene metalliche; bisogna ch'elle tornino conto a lavorarsi. Ora essendo l'oro e l'argento per ordinario in piccola quantità fra suoli di dure e laboriose pietre disposti, e quasi sempre con altri metalli e materie impure allegati, grande fatica, grande spesa richiedono, sì per la mortifera aria delle cave, che tutte con negri, a gran prezzo comprati, si scavano, sì per l'argento vivo, che sul minerale si versa. Né ogni vena in sé stessa, e in paragone delle altre, è ugualmente ricca. Dunque se cento anni a dietro, per esempio, erano 200 vene d'argento nella Cordigliera, che produceano 5 once di puro argento per cassone (è questo un volume di 50 quintali, o sia 5.000 libbre di minerale), e di queste 5 once, due consumandone la spesa, ne restavano tre al padrone di profitto: oggi tutte queste vene, non essendovi guadagno, non possono più scavarsi; perché raddoppiata la quantità dell'argento, e diminuitone per metà il valore, cinque once d'argento costa il lavorio d'un cassone. Ed è questa la vera cagione per cui gli accademici delle scienze di Francia, andati alla misura del grado del meridiano vicino all' equatore, hanno trovato da per tutto, e principalmente nella Terra Ferma, e nella parte settentrionale del Perù, ove le miniere sono per ordinario meno ricche che non lo sono nella parte meridionale del Potosì e della Plata e del Chily, una generale decadenza ed abbandono nelle mine, e gran numero di luoghi che mostravano, con segni evidenti di fabriche ruinose e cadenti, gli antichi lavori. Anzi, quel che loro parve più strano, in Quito trovarono un generale orrore ed abborrimento a questa spezie d'industria, e trattati da matti tutti coloro che l'intraprendevano, siccome non molto tempo prima si teneano coloro che non applicassero a farla. E questa disposizione, che dagli accademici fu a torto a naturale pigrizia e stupidità attribuita, io credo essere un segno ed un avviso, che vogliano quelle regioni, lasciando i lavori delle mine, che le spopolano e distruggono, cominciare ad essere in migliore stato: e allora noi saremo barbari da quella gente chiamati.

Vano timore intanto è quello che moltissimi scrittori mostrano avere, che possa un giorno l'abbondanza dell'oro e dell'argento farsi eguale a quella del rame. In un solo caso ciò potria essere: che si trovassero miniere così ricche di questi metalli, come sono quelle del ferro e del rame. Il che non pare che sia conforme agli ordini della natura delle cose: perché le più ricche miniere d'argento e d'oro non danno che dodici o quattordici once per cassone. Né sono da tenersi in conto, per la loro rarità, alcuni tratti di vene, che sino a cento once per qualche tempo han dato. Né anco è da temersi che scemato colla potenza delle leggi e dell'esempio il lusso, più di metalli si abbondi; mentre allora, traendosene una minor copia dalle viscere della terra, sempre la stessa rarità a un di presso si sosterrebbe. Così la natura alle sue cose pone certi confini, ch'elle non oltrepassano mai, né fino all'infinito estendendosi, durano perpetuamente a raggirarsi in sulle stesse vicende.

Ecco una breve narrazione degli accidenti vari della moneta. Resterebbe solo a dire del valore delle monete che sonosi in ogni tempo usate. Sulla quale laboriosa impresa è incredibile quanto da' grandi ingegni siasi sudato; e principalmente si sono gli eruditi umanisti affaticati molto per l'intelligenza delle antiche opere sulla moneta de' Greci e de' Romani. Il Budeo, il Gronovio, il Seldeno sopra ogn'altro si distinguono. Ma è maraviglioso, ed appena credibile, che tanti grandi ingegni mostrino non essersi avveduti del tempo, e dell'opera, che hanno essi dissipato inutilmente. Altro è il sapere quanto pesano le antiche monete, altro quanto vagliono. Il peso è facile il saperlo, perché molte antiche monete ben conservate si custodiscono da noi: ma il valore è il ragguaglio della moneta colle altre cose; giacché, siccome le altre cose tutte sono sulla moneta valutate, così la moneta sulle altre cose si misura. Questa misura non solo in ogni secolo, ma quasi in ogni anno varia. Lo stesso as d'un'oncia a' primi tempi della prima guerra punica valea diversamente che a' tempi di Cesare: perché a' tempi della guerra punica si sarà con un as comprato quel che appena con quattro avranno potuto i soldati di Cesare comprare. Così ne' secoli a noi più vicini il fiorino d'oro fiorentino è stato sempre d'una dramma, o sia dell'ottava parte d'un'oncia d'oro puro composto; ma pure mille fiorini, che Gio. Villani nomini, sono troppo diversa cosa da mille fiorini d'oggidì, quanto al valore. Sono dunque da ridere que' moderni storici che, riducendo i talenti e i sesterzi antichi a lire di Francia, o nostri ducati secondo l'uguaglianza del peso, credono aver fatto intendere a' loro lettori lo stato delle cose, come erano in mente allo storico coetaneo. Per sapere all'ingrosso il valore delle monete son buone queste cognizioni; ma più giova il leggere quelle descrizioni che ci dipingano gli antichi costumi. Vero è che gli storici quasi contenti d'aver valutati i prezzi colle monete del loro tempo, non curano tramandar queste notizie che io dico, come a dire di scrivere quale fosse a' tempi loro il valore del grano, del vino, degli operari; ma pure talora inavvertentemente ce lo hanno lasciato scritto: e queste sparte notizie bisogna andar raccogliendo studiosamente. Nella Dissert. XXVIII del Murat., Antiq. Italic., sonovi alcune descrizioni de' costumi di vivere de' Parmigiani, Piacentini e Modenesi antichi, dalle quali certamente meglio che dal peso delle monete il vero della storia si rende manifesto.l Dunque io non mi curerò sapere i pesi ed il creduto valore delle antiche e nuove monete. Prego solo i miei lettori che al valore delle merci si rivolgano ognora; ed il vero valore della moneta così loro verrà fatto sapere.

CAPO SECONDO

Dichiarazione de' princìpi onde nazce il valore delle cose tutte. Dell'utilità e della rarità, princìpi stabili del valore. Si risponde a molte obiezioni.

L'acquisto dell'oro e dell'argento, onde la moneta più preziosa è costituita, è stato in ogni tempo, ed è ancora l'ultima meta de' desideri della moltitudine, il disprezzo e lo schifo di que' pochi che s'arrogano il nome venerando di savi. Delle quali opposte opinioni, siccome quella è spesse volte vile, o mal regolata, così è questa per lo più o ingiusta o poco sincera. Intanto gli uni per soverchio, gli altri per poco prezzargli, niuno ne rimane che del valore di questi metalli sanamente stimi e ragioni. Grandissimo numero di gente io sento esser persuasa che il loro pregio sia puramente chimerico ed arbitrario, e che derivi da un error popolare che insieme colla educazione si forma in noi; ed è perciò nominato da questi sempre co' titoli ingiuriosi di pazzia, delirio, inganno, e vanità. Evvi chi, più discreto, crede che il consenso degli: uomini determinatisi ad usar la moneta detta imprima a questi metalli, de' quali piacque servirsi, quel merito ch'essi non aveano in sé. Pochissimi sono, i quali conoscano che questi hanno nella loro natura istessa e nella disposizione degli animi umani fisso e stabilito costantemente il loro giusto pregio e valore. Di quanta conseguenza sia il determinare questa verità prima d'inoltrarsi, lo conoscerà il lettore, vedendo che, ad ogni passo disputando del valore estrinseco, dell'alzamento, degl'interessi, del cambio e della proporzione della moneta, sempre ad un certo valore intrinseco e naturale si ha ragione.

Aristotele, uomo per altro d'ingegno grandissimo e meraviglioso, nel lib. 5 de' Costumi al c. 7 ove ha molte belle considerazioni esposte, intorno alla natura della moneta ha pensato così: ((Ex convento successit nummus, atque ob hanc causam nomisma vocatur (a Graecis), nempe a lege, quia non natura, sed lege valeat, sitque in nostra potestate eum immutare inutilemque reddere)); e nelle Opere politiche al lib. I, c. 6 lo stesso ripete. Or se ne' suoi insegnamenti è stato questo filosofo oltre il dovere con nostro danno seguitato, in niuno più che in questo lo è stato. Quindi si vede che il vescovo Covarruvias in questo modo siegue ad argomentare dietro al suo maestro: ((Si non natura ipsa, sed a principe valorem numismata accipiunt, et ab ipso legem revocante inutilia effici possunt, profecto non tanti aestimatur materia ipsa auri vel argenti, quantum numus ipse; cum si tanti aestimaretur natura ipsa non lege praetium haberet)); ed in simil guisa gli aristotelici, da' quali il corpo de' moralisti e de' giurisconsulti si può dire costituito, ragionano. Quanto giuste sieno tali conseguenze, posto vero quel fondamento, è manifesto. Quanto possano essere fatali e produttrici di pianto ad un popolo, non vorrei che l'esperienza propria ce lo avesse mai a dimostrare. Ma a queste opinioni non si può contraddire senza distruggerne la base: quindi io non so, né giungo a capire come sia stato possibile, che Gio. Locke, il Davanzati, il Broggia, l'autore dell'opera Sul commercio, e l'altro di quella dello Spirito delle leggi, con altri non pochi, non negando il primo principio, abbiano avuti contrari sentimenti e solidamente edificato sopra un falso fondamento senza sentire né la debolezza di questo, né il vacillamento di quello. Perciò io prima d'ogni altro con ogni mio studio m'ingegnerò dimostrare quello, onde vivo da gran tempo persuaso, che non solo i metalli componenti la moneta, ma ogni altra cosa al mondo, niuna eccettuandone, ha il suo naturale valore, da princìpi certi, generali e costanti derivato; che né il capriccio, né la legge, né il principe e né altra cosa può far violenza a questi princìpi e al loro effetto; e in fine che nella stima gli uomini, come gli Scolastici dicono, passive se habent. Sopra queste basi qualunque edifizio s'inalzerà sarà durevole, e sempiterno. Perdonerà il lettore qualunque lunghezza mia all'importanza della materia; e quando ne volesse incolpare me, ne incolpi con più ragione quell'infinito numero di scrittori che una tanta verità o non ha conosciuto, o non ha voluto, come si conveniva, dimostrare.

Il valore delle cose (giacché io di tutte generalmente ragiono) è da molti definito la stima che di esso hanno gli uomini: ma forse queste voci non risvegliano un'idea più chiara e distinta di quel che le altre facessero. Perciò si potria dire che la stima, o sia il valore ((è un'idea di proporzione tra il possesso d'una cosa, e quello d'un'altra nel concetto d'un uomo)). Così quando si dice che dieci staia di grano vagliono quanto una botte di vino, si esprime una proporzione d'egualità fra l'aver l'una cosa, o l'altra; onde è che gli uomini, oculatissimi sempre a non essere da' propri piaceri defraudati, l'una cosa con l'altra cambiano; perché nella egualità non è perdita, né inganno.

Già da questo che ho detto si comprende, ch'essendo varie le disposizioni degli animi umani, e vari i bisogni, vario è delle cose il valore. Quindi è, che altre essendo più generalmente gustate e ricercate, hanno un valore, che corrente si chiama; e altre solo dal desiderio di chi le brama avere, e di chi le dà, si valutano.

Il valore adunque è una ragione; e questa composta da due ragioni, che con questi nomi l'esprimo di utilità, e rarità. Quel ch'io m'intenda, acciocché sulle voci non si disputi, l'andrò con esempli dichiarando. Egli è evidente che l'aria e l'acqua, che sono elementi utilissimi all'umana vita, non hanno valore alcuno, perché la rarità loro manca: e per contrario un sacchetto d'arena de' lidi del Giappone rara cosa sarebbe, ma posto che ella non avesse utilità particolare, non avrebbe valore.

Ma qui già conosco che non mancherà chi mi domandi, qual grande utilità io trovi in molte merci che hanno altissimo prezzo. E perché questa difficoltà e naturale e frequente viene a dichiarare stolti e irragionevoli gli uomini, e distrugge nel tempo istesso que' fondamenti che ha la scienza della moneta, sarà necessario entrare più diffusamente a dire dell'utilità delle cose, e come questa si misuri. Se ella non ha princìpi certi onde dipenda, non gli avrà neppure il prezzo delle cose; e allora non sarà più scienza quella e scienza dove non v' è dimostrazione delle monete, perché non v'è certezza.

Utilità io chiamo l'attitudine che ha una cosa a procurarci la felicità. È l'uomo un composto di passioni, che con disuguale forza lo muovono. Il soddisfarle è il piacere. L'acquisto del piacere è la felicità. Nel che (perché io non essendo epicureo, non voglio neppure parerlo) mi si permetta che mi spieghi alquanto, e dall'intrapreso argomento mostri di declinare. Egli è da avvertire che quell'appagamento d'una passione che ne punge e ne molesta un'altra, non è compìto piacere, ma anzi, se la molestia che dà è maggiore della gioia, come vero male e dolore conviene che s'abborrisca. Se il dolore è meno del piacere, sarà un bene, ma tronco e dimezzato. Questo cammina così riguardo a' piaceri di questa vita assolutamente considerata, come se insieme coll'altra eterna si rimira. È a noi (grazie alla Provvidenza) manifesto, che dopo questa viveremo un'altra vita, i piaceri o i dolori della quale colle operazioni della presente sono strettamente congiunti. Or dunque, non mutando da quel che ho detto, i piaceri di questa vita, che a que' dell'altra non nuocono, sono veri e perfetti, ma que' che in quella vita produrranno pena (essendo la disparità fra i piaceri e le pene dell'una vita e dell'altra infinita), sia pur grande quanto si voglia il gusto di qua, e piccolo il male di là, sempre saranno mentiti piaceri e bugiardi. Se questa dichiarazione, che pur molte righe non occupa, si facesse da ognuno, l'antichissimo litigio che è fra gli epicurei e gli stoici, fra la voluttà e la virtù, non si sarebbe udito, e o avrebbero avuto torto gli stoici, o si saria conosciuto che solo nelle parole insensatamente si disputava. Ritorno onde partii. Utile è quello che un vero piacere ci produce, cioè appaga lo stimolo d'una passione. Or le nostre passioni non sono già solamente il desiderio di mangiare, di bere, di dormire: sono queste solamente le prime, soddisfatte le quali altre egualmente forti ne sorgono: perché l'uomo è così costituito, che appena acquetato che egli lha un desio, un altro ne spunta, che sempre con forza eguale al primo lo stimola; e così perpetuamente è tenuto in movimento, né mai giunge a potersi intieramente soddisfare. Perciò è falso che le sole cose utili siano quelle che a' primi bisogni della vita si richieggono, né fra quel che ci bisogna, e quel che no, si può trovare il limite ed i confini; essendo verissimo che, subito che si cessa d'aver bisogno d'una cosa ottenendola, si comincia ad averne d'un'altra desiderandola.

Ma fra tutte le passioni che appariscono nell'animo umano, quando sono soddisfatte quelle le quali cogli animali ci sono comuni, e che alla conservazione dell'individuo e delle specie sono determinate, niuna ne è più veemente e forte a muover l'uomo quanto il desio di distinguersi, e d'essere superiore fra gli altri. Questa essendo primogenita dell'amor proprio, quanto è a dire del principio d'azione che è in noi, supera ogni altra passione, e fa che quelle cose che a soddisfarla giovano, hanno il massimo valore, sottoponendosi all'acquisto loro ogni altro piacere, e spesso la sicurezza della vita istessa. Se giustamente operino così pensando e regolandosi gli uomini, lo giudichi ognuno: certo è però che non con ragion maggiore comprano gli uomini il vitto quando non ne hanno, che un titolo di nobiltà quando di vitto son provveduti: perché se è misera ed infelice la vita quando siam digiuni, infelice è del pari quando non siamo stimati, né riguardati; e talora è tanto maggiore questa infelicità, che più tosto ci disponiamo a morire, o a porci in evidente rischio di perder la vita, che senza il rispetto altrui infelicemente vivere. Qual cosa adunque più giusta che il proccurarsi, anche con grande e lungo stento e fatica, una cosa che grandemente è utile, perché molti e grandi piaceri produce? Che se si deride questo sentir piacere della stima e riverenza altrui, è ciò un biasimare la nostra natura, che tale disposizione d'animo ci ha data, non noi, che senza potercela togliere l'abbiamo avuta; e di cui come della fame, della sete e del sonno, né dobbiamo, né possiamo render conto o ragione ad alcuno. Che se certi filosofi hanno mostrato disprezzo per questa stima altrui, e le ricchezze e le dignità hanno calpestate; se essi dicono ciò aver fatto perché loro non dava piacere la venerazione degli altri, ne mentono: perché non da altro principio a così parlare e dimostrare essi si sono mossi, che per la sicurezza in cui erano di dovere esser, così dimostrando di credere e operare, altamente applauditi dal popolo e commendati.

Sicché quelle cose che ci conciliano rispetto, sono meritamente nel massimo valore. Tali sono le dignità, i titoli, gli onori, la nobiltà, il comando, che nel numero delle cose incorporee per lo più sono. Seguono immediatamente dietro alcuni corpi, che per la loro bellezza sono stati in ogni tempo graditi e ricercati dagli uomini; e coloro che hanno avuto in sorte il possedergli e l'ornarsene la persona, ne sono stati stimati ed invidiati. Sono queste le gemme, le pietre rare, alcune pelli, i metalli più belli, cioè l'oro e l'argento, e qualche opera dell'arte che molto lavoro e bellezza in sé contenga. Per una certa maniera di pensare di tutti gli uomini, che portano rispetto all'esteriore adobbamento delle persone, sono questi corpi divenuti atti a dare altrui quella superiorità, che come io dissi è il fonte del più sensibile piacere. Quindi il loro valore meritamente è grande; essendo pur troppo vero che i re istessi debbono la più gran parte della venerazione de' sudditi a quell'esteriore apparato che sempre gli circonda; spogliati dal quale, ancorché conservassero le medesime doti dell'animo e potestà che prima avevano, hanno conosciuto che la riverenza verso di loro si è grandemente scemata: e perciò queUe potestà, che hanno meno vera forza ed autorità, cercano con più attenzione di pompa esteriore regolare l'idee degli uomini, fra i quali l'augusto ed il magnifico spesse volte altro non è che un certo niente ingrandito, che formalità si chiama, con voce dalle scuole tratta, ed assai acconciamente adattata, intendendosi per essa id quod non est, neque nihil, neque aliquid.

Ma se negli uomini il desiderio di comparire genera affetto a queste più rare e belle produzioni della natura, nelle donne e ne' bambini la passione ardentissima di parer belli rende al sommo prezzabili questi corpi. Le donne, le quali la metà dell'umana specie costituiscono, e che o intieramente, o in grandissima parte, solo alla propagazione ed educazione nostra sono destinate, non hanno altro prezzo e merito che l'amore che ne' maschi destano; e derivando questo quasi tutto dalla bellezza, non hanno elleno altra cura maggiore, che d'apparir belle agli occhi dell'uomo. Quanto a questo conferiscano gli ornamenti è dal comune consenso confessato: dunque, se la valuta nelle femmine nasce dall'amabilità, e questa dalla bellezza, la quale dagli ornamenti si accresce, troppo a ragione altissimo bisogna che sia il valore di questi nel loro concetto.

Che se ai bambini si riguarda, sono essi la più tenera cura de' genitori; e questa tenerezza d' amore d' altra maniera non sanno gli uomini appalesare, che in render vago e leggiadro l'oggetto che amano agli occhi loro. Or che non farà l'uomo quando dal desio di soddisfar la donna, d'adornare i figliuoli è mosso? Così è avvenuto che, prima nelle arene de' fiumi, poi nelle viscere della terra, si sono a grande stento i metalli più belli raccolti. E quindi è ancora che quelle nazioni istesse, che ricche di questi metalli si credono, come sono i Messicani e i Peruani, dopo le gemme niuna cosa più dell'oro e dell'argento prezzarono. E se stimarono più le nostre bagattelle di vetro e di acciaio, ciò confirma e non distrugge quel che io ho detto di sopra; perché la bellezza de' nostri lavori fu quella che gl'incantò. L'esser poi questa bellezza del vetro e del cristallo dall'arte fatta, e non dalla natura, ciò non varia il pregio, se non perché ne varia la rarità; il che essendo ignoto agli Americani, non se ne può prender argomento contrario a quel che io ho dimostrato.

Ma la più gran parte degli uomini insieme con Bernardo Davanzati ragiona così: ((Un vitello naturale è più nobile d'un vitel d'oro, ma quanto è pregiato meno?)). Rispondo. Se un vitello naturale fosse così raro come uno d'oro, avrebbe tanto maggior prezzo del vitello d'oro, quanto l'utilità e il bisogno di quello è maggiore di questo. Costoro immaginansi che il valore derivi da un principio solo, e non da molti che si congiungono insieme a formare una ragione composta. Altri sento che dicono, Una libbra di pane è più utile d'una libbra d'oro. Rispondo. Questo è un vergognoso paralogismo, derivante dal non sapere che più utile, e meno utile sono voci relative, e che secondo il vario stato delle persone si misurano. Se si parla d'uno che manchi di pane e d'oro, è certamente più utile il pane; ma a questo corrispondono e non son contrari i fatti: perché non si troverà alcuno che lasci il pane, e di fame si muoia, prendendosi l'oro. Coloro che le miniere scavano, non si scordano mai di mangiare e di dormire: ma a chi è sazio, vi è cosa più inutile del pane? Bene è dunque se egli allora altre passioni soddisfa; perciò questi metalli sono compagni del lusso, cioè di quello stato in cui i primi bisogni sono già soddisfatti. Perciò se il Davanzati dice che ((un uovo, il quale un mezzo grano d'oro si pregia, valeva a tener vivo dalla fame il conte Ugolino nella torre ancora il decimo giorno, che tutto l'oro del mondo non valeva)), egli equivoca bruttamente fra il prezzo che dà all'uovo chi non teme morir di fame se non lo ha, e i bisogni del conte Ugolino. Chi gli ha detto che il conte non avria pagato l'uovo anche mille grani d'oro? L'evidenza di questo errore la manifesta a noi lo stesso Davanzati poco dopo, ma senza avvedersene egli, dicendo, ((schifissima cosa è il topo; ma nell'assedio di Casilino uno ne fu venduto duecento fiorini per lo gran caro, e non fu caro, poiché colni che il vendé morio di fame, e l'altro scampò)). Ecco che pur una volta, grazie al cielo, ha confessato che caro, e buon mercato sono voci relative.

Se poi alcuno si maraviglierà come appunto tutte le cose più utili hanno basso valore, quando le meno utili lo hanno grande ed esorbitante, egli dovrà avvertire che con meravigliosa provvidenza questo mondo è talmente per bene nostro costituito, che l'utilità non s'incontra mai, generalmente parlando, colla rarità: ma anzi, quanto cresce l'utilità primaria, tanto si trova più abbondanza: perciò non può esser grande il valore. Quelle cose che a sostentarci bisognano, sono così profusamente versate sul mondo intiero che o non hanno valore, o l'hanno assai moderato: non si hanno però da questa considerazione a ritrarre falsi pensieri di accuse contro al nostro intendimento e ingiusto disprezzo di quel che noi apprezziamo, come tanti fanno; ma sì bene si dovrebbero produrre ognora sentimenti di umiliazione e di rendimento di grazie alla mano benefica di Dio, e benedirla ad ogni istante; il che da ben pochi si fa.

Forse mi sarà detto da molti filosofi che, sebbene è vero che il valore delle gemme e delle rarità sia sulla natura umana fondato, come io ho dimostrato, non cessano però di parer loro questi concetti ridicoli e miserabili deliri. Alle quali persone io rispondo, che non so se alcuna cosa umana troveranno essi che non sembri loro tale: e da questa opinione non sono per frastornargli. Ma io amerei che il buon filosofo, dopo che s'è spogliato da' terreni inganni, e quasi disumanandosi si è tanto sopra gli altri alzato, che ha potuto di noi meschini mortali ridere e prender sollazzo; quando poi da questi pensieri si distacca, ritorna in giù, e nella società si framischia, al che lo sforzano i bisogni della vita; vorrei, io dico, vederlo tornar uomo comie, e non filosofo. Quel riso, che quando e' filosofava ha sanato il suo animo, ora ch'egli opera potrebbe i suoi e gli altrui fatti perturbare. Meglio è che restino questi concetti nel suo animo racchiusi; e conoscendo e deplorando insieme co' suoi pari, s'ei vuole, che io gliel concedo, quanto sia poco l'uomo superiore a' bruti, non venga a fargli male volendolo migliorare. Impossibile impresa è questa per lui. Se nella nostra divina religione gli uomini alla perfetta virtù si guidano, sono i nostri maestri da soprannaturale e divino potere aiutati: e se fra noi esempi di altissima perfezione si veggono, sono queste opere della celeste grazia, e non dell'umana natura. Chi dunque queste armi ha seco venga a perfezionarci, che ben lo può; ma la filosofia non giunge a questo. Perciò si sono veduti gli stoici che, volendo far gli uomini perfettamente virtuosi, gli resero ferocemente superbi. Altri nel volergli taciturni e contemplativi, gli fece mangioni; chi volendogli poveri gl'incmdelì; e Diogene da' pregiudizi volendogli purgare, istituì una infame razza di cani. Ci lascino dunque costoro vivere in pace: lascino ai metalli e alle gemme quella stima, comique ella siesi, che tengono. Non gridi Orazio più

vel nos in mare proxìmum
gemmas et lapides, aurum et inutile,
summi materiem mali,
mittamus.

Se per mezzo di quest'inutili corpi noi dalla ferina vita, in cui ci mangiavamo l'un l'altro, alla civile, in cui in pace ed in commercio viviamo, siamo non senza stento passati, non ci facciano ora per rigore di sapienza tornare a quelle barbarie, donde per dono della Provvidenza siamo felicemente scampati. Il comune degli uomini non si può oltre a certi limiti nelle idee migliorare; e volendolo ad ogni modo fare, l'ordine delle cose si guasta e si corrompe.

Lasciando adunque nel loro disprezzo tutte queste considerazioni, che sono figliuole d'una superficiale ed imperfetta meditazione, si concluda una volta, che que' corpi che agli uomini accrescono rispetto, alle donne bellezza, ai fanciulli amabilità, sono utili e meritamente preziosi. Da questo si dee trarre l'importantissima conseguenza che l'oro e l'argento hanno valore come metalli anteriore all'esser moneta; il che più a lungo nel seguente capo si tratterà. Ora che del valore in generale io parlo, avendo spiegato quel che da me colla voce di utilità s'intenda, passo a parlare della rarità.

Io chiamo rarità la proporzione che è fra la quantità d'una cosa, e l'uso che n'è fatto. Chiamo uso nommeno il distruggimento che l'occupazione d'una cosa, la quale impedisce che mentre uno ne fa l'uso, possa questa anche i desideri d'un altro soddisfare. Siano, per esempio, cento quadri esposti in vendita; se un signore ne compra cinquanta, i quadri diventan rari quasi del doppio, non perché si consumino, ma perché sono i cinquanta tolti dalla venalità; il che in qualche maniera può dirsi uscire fuori del commercio: vero è però, che più incarisce il distruggimento le cose, che questa estrazion dal commercio: poiché quello toglie affatto ogni speranza, questa si valuta secondo la probabilità che vi è che la cosa occupata e ristagnante torni alla venalità ed al commercio. E questo merita assai riflessione.

Passando ora a dire sulla quantità della cosa, dico che sonovi due classi di corpi: in alcuni ella dipende dalla diversa abbondanza con cui la natura la produce: in altri solo dalla varia fatica ed opera che vi s'impiega. È la prima classe formata da que' generi che si riproducono dopo breve tempo, e col distruggimento si consumano: quali sono i frutti della terra e gli animali. In essi con la medesima fatica ad un di presso si può, secondo la varietà delle stagioni, fare una ricolta otto e dieci volte maggiore di quello che poco tempo prima si sarà fatta. Quindi è che l'abbondanza non dipende dall'umana volontà, ma dalla disposizione del clima e degli elementi. Nell'altra classe debbonsi numerare certi corpi, come i minerali, le pietre, i marmi, i quali non sono in ogni anno variamente prodotti, ma furono tutti insieme nel mondo sparsi, e de' quali la raccolta corrisponde alla volontà nostra; perché se più gente vi s'impiega, più se ne può dalle viscere materne ottenere. Sicché volendo far calcolo su questa classe di corpi, non si dee computare altro che la fatica, essendo la quantità della materia solo a questa corrispondente. Non già che io creda che nuovi metalli e gemme non si generino ne' suoi grandi lavoratorii dalla natura; ma essendo questa produzione lentissima al pari del distruggimento, non dee tenersene conto.

Entro ora a dire della fatica, la quale non solo in tutte le opere che sono intieramente dell'arte, come le pitture, sculture, intagli, etc., ma anche in molti corpi, come sono i minerali, i sassi, i frutti silvestri etc. è l'unica che dà valore alla cosa. La quantità della materia non per altro coopera in questi corpi al valore, se non perché aumenta o scema la fatica. Così nelle sponde di molti fiumi: se alcuno richiede perché, essendo mista l'arena all'oro, val più l'oro dell'arena, se gli fa avvertire che, se uno vuole in un quarto d'ora empir d'arena un sacco, lo può comodamente eseguire, ma se lo vuol pieno d'oro, molti anni interi gli bisognano a raccogliere i rarissimi granelli d'oro.

Nel calcolar la fatica si dee a tre cose por mente: al numero della gente, al tempo, e al diverso prezzo della gente che fatica. Dirò del numero della gente in prima. Certa cosa è che niuno fatica se non per vivere, né se non vive può faticare: dunque se per la manifattura d'una balla di panno cominciando a supputare dalle lane tosate sino allo stato in cui si espone in bottega, vi si richiede l'opera di cinquanta persone, valerà questo panno, più delle lane, un prezzo eguale alla spesa del nutrimento di questi cinquanta uomini, per un tempo eguale a quello della fatica: che se venti vi si sono impiegati per un giorno intero, dieci per mezzo e venti per tre giorni, il valore del panno sarà eguale al nutrimento di un uomo per ottantacinque giorni; e di questi giorni venti ne guadagnano i primi, cinque i secondi, sessanta i terzi. Ciò è manifesto, supponendo che questa gente abbia tutta mercedi eguali. Diciamo ora del tempo.

Nel tempo non dee supputarsi quel solo che sull'opera si sta, ma quello ancora che in riposo uno vive, perché anche nel tempo del riposo dee nutricarsi. Questo è però quando la fatica è interrotta o dalla natura istessa dell'arte, o dalla legge, ma non dalla pigrizia; se pure questa pigrizia non è così generale in una nazione, che al pari del costume e della legge abbia vigore. Così le feste fra que' popoli che le osservano senza faticare, rendono le merci più care che altrove: perché, ponendo che un uomo con affaticarsi trecento giorni in un anno compia cento paia di scarpe, il valore di queste è necessario che corrisponda all'intiero suo vitto d'un anno. Che se altri lavorando trecento sessanta giorni compisce cento venti paia, costui venderà le sue un quinto meno, non avendo necessità di trarre da cento venti paia di scarpe altro guadagno che quel che il primo trae dalle sue cento.

Sono in oltre alcuni lavori, che per natura non possono assiduamente esercitarsi. Tali sono le belle arti: perché io non credo che alcuno scultore, o musico vi sia, che più di cento giorni in un anno si travagli: tanto tempo si richiede in trovar da lavorare, riscuotere, viaggiare, ed altro: quindi la loro industria è giustamente più cara. In ultimo si avverta all'età diversa in cui secondo i vari mestieri può l'uomo cominciare a trar profitto dalla sua fatica. Perciò quelle arti e studi, che molto tempo ricercano ad apprendersi, e molta spesa a' genitori, in maggior prezzo sono: come il legno de' pini e delle noci più caro si paga per la lentezza di questi alberi a crescere, che del pioppo e dell'olmo non si fa.

Questo è del tempo. Ma della valuta varia de' talenti umani, onde nasce il diverso prezzo delle fatiche, il poter far giusto computo è più astrusa ricerca, e assai meno nota. Io ne dirò quel che penso, restando incerto se altri come me giudichi, mentre non ho trovato scrittore alcuno che ne ragioni. Sentirò piacere infinito se da chi pensasse diversamente, e meglio, sarò con ragioni e con onestà oppugnato.

Io stimo che il valore de' talenti degli uomini si apprezza in quella stessissima guisa che si fa di quello delle cose inanimate, e sopra i medesimi princìpi di rarità e utilità congiunti insieme si regge. Nascono gli uomini dalla Provvidenza a vari mestieri disposti, ma con ineguale proporzione di rarità, e corrispondente con mirabile sapienza a' bisogni umani: così di mille uomini, seicento, per esempio, ne sono unicamente atti all'agricoltura, trecento alle manifatture di varie arti inclinati, cinquanta alla più ricca mercatura, e cinquanta agli studi ed alle discipline sono disposti a ben riuscire. Or ciò posto, il merito d'un uomo di lettere paragonato al contadino sarà in ragion reciproca di questo numero, cioè come 600 a 50, 0 sia 12 volte maggiore. Non è dunque l'utilità che sola dirigge i prezzi; perché Iddio fa che gli uomini che esercitano mestieri di prima utilità nascono abbondantemente; né può il valore perciò esserne grande, essendo questi quasi il grano e il vino degli uomini; ma i dotti, i savi, che sono quasi le gemme fra i talenti, hanno meritamente altissimo prezzo.

Avvertasi però, che la rarità non si dee valutare sulla proporzione con cui gl'ingegni sono prodotti, ma secondo quella con cui vengono a maturità: onde è che quanto sono maggiori le difficoltà per potere un ingegno pervenire a gradi importantissimi e degni di lui, tanto allora il suo prezzo è più grande. Un generalissimo quale fu il principe Eugenio, e il marescial di Turena ha un prezzo sterminato in paragone d'un semplice soldato; non perché così pochi ingegni simili la natura produce, ma perché rarissimi sono quelli che in tante e così fortunate circostanze ritrovinsi, che possano, esercitando i loro talenti, grandi capitani apparire colle vittorie riportate. Fa in questo la natura come nelle semenze delle piante, che quasi prevedendo la numerosa perdita, assai maggior quantità ne produce, e ne fa cadere in terra, del numero delle piante che poi sorgono: perciò una pianta val più d'un seme. Sopra questi saldi princìpi seriamente meditando, oh quanto la giustizia degli umani giudizi maravigliosamente riluce! Si troverà che tutto è con misura valutato. Si conoscerà che d'altra maniera le ricchezze ad una persona non vanno, che in pagamento del giusto valore delle sue opere; sebbene può egli queste ricchezze donarle a persona che non è meritevole d'acquistarle. Ed in fatti non v'è famiglia né uomo alcuno che possa dire d'aver ricchezza, la quale non la ottenga o per merito suo, o per dono di chi per merito la ottenne. Questo dono, se si fa in vita, si dice favore, se in morte, eredità si chiama. Ma sempre, se si tien dietro alla traccia di quelle ricchezze che taluno immeritamente ha, si osserverà che per merito furono in prima da su l'intiero corpo degli uomini acquistate. Vero è che spesso per centinaia d'anni, o di persone bisogna trascorrere; ma pur al fine questo termine v'è, e la ragione lo insegna.

Sento però già dirmi che il merito o la virtù restano così spesso non premiati, ch'è follia il negare dell'ingiustizia umana i frequenti atrocissimi atti. Ma qui mi si permetta del falso ragionare fare avvertito chi lo vuol essere. In I non bisogna chiamar virtù e sapere quelle professioni che, sebbene abbiano rarità e difficoltà grande, non sono però atte a produrre né vera utilità né piacere alla moltitudine, dalla quale, e non da' pochi, si fanno i prezzi. In II luogo è da pensare che, l'uomo essendo composto di virtù e di vizi, non si possono premiare le virtù sicché l'uomo vizioso non resti nel tempo stesso premiato: ma non si ritroverà mai che il vizio abbia esaltato alcuno. Sono que' talenti utili e buoni che uno ha, quelli che lo sollevano, e solo accade che talora i suoi difetti non gli facciano ostacolo: ma vero è sempre che se questi difetti non avesse, più in su sarebbe pervenuto. In III si dovrebbe sempre avvertire che altro è l'aver talenti per saper ottenere un impiego, altro per saperlo bene esercitare. I primi sono unicamente l'arte di piacere a colui che dà l'impiego, e sono sempre i medesimi, sia che si richieda un officio nella toga o nella milizia. I talenti per sapere amministrare gl'impieghi sono sempre secondo i vari uffizi diversi. Or non si troverà uomo che abbia impiego, e che non abbia avuto merito a poterlo ottenere: accaderà sì bene che, non essendo in lui congiunta la scienza di ottenere con quella d'amministrare l'impiego, operando male acquisti biasimo, e come immeritevole si riguardi: perché gli uomini solo al saper bene esercitare quel che si ha, danno nome di merito; dell'altro, quasi o virtù non fosse, o fatica e destrezza non richiedesse, non curano: quindi chiamano ingiustizia quella che tale non è. Sono però anche qui da trar fuori coloro che, o per lo favore altrui, che è un dono fra vivi, o per la nascita, che è una eredità degli antenati, alcuna dignità ottengono. Io conosco che oltre i confini della mia opera sono disputando trascorso: ma poiché ella mi è paruta materia utile e degna da ragionarvisi sopra, da così fare non mi sono potuto in alcun modo astenere. O che mi perdoni, o che me n'incolpi il mio lettore, io ne sarò contento, se avrò il piacere che alle mie opinioni acconsenta. Temo però che pochi io ne avrò che meco si accordino; tanto agli uomini piace, perché possano sé stessi dal demerito difendere, altrui d'ingiustizia accusare.

Assai si è detto ormai de' princìpi onde deriva il valore; e si è già conosciuto ch'essendo essi certi, costanti, universali, e sull'ordine e la natura delle cose terrene, niuna cosa arbitraria e casuale è fra noi, ma tutto è ordine, armonia e necessità. Sono vari i valori, ma non capricciosi: il loro stesso variare è con ordine e con regola esatta ed immutabile; sono ideali, ma le stesse nostre idee, che su' bisogni e' piaceri, cioè sulla interna costituzione dell'uomo sono piantate, hanno in sé giustizia e stabilità.

Una sola eccezione pare che si dovesse fare da quanto ho detto: ed è che sul valore e sulle idee nostre opera talora anche la moda. Sul senso di questa voce, dopo aver io molto tempo meditato, non ho trovato poterle dare altra definizione che questa: ((Un'affezione del cerebro propria delle nazioni europee, per cui si rendono poco pregevoli molte cose, solo perché non giungono nuove)). È questa una malattia dell'animo, che ha l'impero sopra non poche cose; e se vi si vuol trovar qualche ragionevolezza, bisogna dire che nasce in gran parte questa varietà di gusto dall'imitazione de, costumi delle nazioni più dominanti. Ma poiché ragionando a dir della moda mi sono condotto, è al mio istituto necessario che i limiti dell'imperio di lei io definisca; il che io farò qui per non averlo a fare in luogo meno acconcio. L'imperio della moda è tutto sul bello, niente sull'utile: perché quando è in moda alcuna cosa più utile e comoda, io non la chiamo moda, ma migliorazione delle arti o degli agi della vita. Due classi ha il bello; altro è fondato sopra certe idee che insieme coll' origine nostra sono nell' animo nostro scolpite; altro, benché nol paia, è solo un'assuefazione de' sensi, che bello lo fa parere. Sopra questa seconda classe, che è più vasta assai della prima, unicamente stende il suo potere la moda: quindi è che si conviene dire che la bellezza delle gemme, dell'oro e dell'argento sia sulla costituzione dell' animo nostro universalmente stabilita, non avendo mai alla moda in parte alcuna soggiaciuto, né potendovi soggiacere: onde il pregio loro sempre più si riconosce grande e singolare. Però da questa moda niuna delle mie osservazioni si muta; perché questa altro non fa che variar l'utilità delle cose, variandone il piacere che si prova in usarle; tutto il resto è il medesimo.

Restami ora a dire del valore delle cose nniche, e de' monipòli, cioè o di quelle che non possono con altre esser compensate, come è la Venere de' Medici, o di quelle che per l'unità del venditore diventano uniche. Ho frequentemente letto, anche ne' più savi scrittori, che queste merci hanno valuta infinita: ma di tutte le voci, non trovo la più impropria in bocca a chi delle mortali cose ragiona. Forse avran voluto dire indefinita; il che neppur è acconciamente detto: perché io reputo che ogni cosa umana abbia ordine e confini, né sia meno alieno da loro l'indefinito, che ì'infinito. Hanno adunque questi limiti: il prezzo loro corrisponde sempre a' bisogni o a' desideri del compratore, ed alla stima del venditore, congiunti insieme, e che formino una ragion composta. Onde è che alle volte il valore può esser anche uguale al niente, ed è sempre regolato, sebbene non sia universalmente lo stesso.

E' parrà forse a molti, che alle osservazioni finora fatte hanno avvertito, che facile sia secondo esse determinare il valore di tutto: ma da così credere si rimarranno, quando a quel che ora sono per dire avranno maturamente considerato. Difficilissimo è a noi, e spesso impossibile il far questo computo da' princìpi suoi; che sarebbe come i logici dicono a priori: poiché è da stabilirsi per certo che siccome la rarità ed il valore dipendono dal consumo, così il consumo secondo il valore si conforma e si varia: e da questa concatenazione il problema si rende indeterminato, come lo è sempre che due quantità ignote, che hanno qualche relazione fra loro, vi s'incontrano.

Che dal prezzo nasca la varietà del consumo è manifesto, se si pone mente che, oltre all'aria da respirare e il suolo da reggervisi, niente altro di assoluta e perpetua necessità ha l'uomo: avendo necessità di cibarsi, ma non di alcun genere in particolare, e non piuttosto d'un altro. Or l'aria e la terra non hanno rarità né valore di sorte alcuna: dalle altre, quale più, quale meno, si può l'uomo astenere; e perciò proporzionatamente all'incommodo ed alla fatica che ne costa l'acquisto, ognuno ne è volenteroso. Perciò quel che val meno, più volentieri si prende a consumare; e così daì prezzo che dalla rarità nasce è regolato il consumo.

Per contrario, dallo struggimento si regolano i prezzi: poiché, se, per esempio, in un paese si consumassero cinquanta mila botti di vino, ed altrettante se ne raccogliessero, sopravvenendo in questo paese un esercito improvvisamente, incarisce il prezzo del vino, perché più se ne bee. Or qui alcuno troverà un inestricabile nodo ed un circolo vizioso: ma egli lo scioglierà pensando a quel ch'io dissi, che di molti generi la rarità e l'abbondanza si cambia improvvisamente per cagione esterna senza opera dell'uomo, ma per l'ordine delle stagioni. In questi generi il prezzo siegue la rarità: e siccome gli uomini posseggono inequali ricchezze, così a un certo grado di ricchezze corrisponde sempre la compra di certe comodità. Se queste avviliscono, anche chi è nell'ordine inferiore della ricchezza le compra: se incariscono, coloro che prima usavanle cominciano ad astenersene: e questo da una bella osservazione è comprovato. Nel Regno di Napoli si consumano a un di presso quindici milioni di tumoli di grano l'anno in tutto, quando la raccolta è buona. S'ha per esperienza che quantunque alle volte in anni di fertilità grandissima si sieno fino a sei e sette milioni di tumoli sopra l'ordinario raccolti, pure non mai n'è uscita quantità maggiore d'un milione e mezzo; né quello che si è serbato è stato più d'altrettanto. Per contrario negli anni di sterilità è certo che non si è raccolto alle volte più di otto milioni; e pure né più d'un milione di fuori si è recato a noi, né quello che avevamo serbato dagli anni anteriori giungeva a due milioni. La ragione di questo è che negli anni di abbondanza incomparabilmente più grano si mangia, si strugge e si semina; nelle calamità meno: perciò i limiti del consumo sono più fissi sul prezzo che sulla misura de' tumoli, dovendosi dir per esempio così: il Regno consuma ogni anno tredici milioni di ducati in grano; sia che con questa somma se ne comprino quindici, o soli dieci milioni, è sempre lo stesso.

Que' generi poi che non soggiacciono alla varietà delle raccolte altra cagione estrinseca non hanno, onde cangiare la rarità, che la moda. Ma i metalli preziosi e le gemme per la loro sovrana bellezza non sottopongonsi ai capricci di questa, né a quella delle varie raccolte; e perciò più d'ogni altro hanno prezzo costante: alla varietà della raccolta però soggiacerebbero nella scoperta di mine più abbondanti, come fu nello scoprirsi dell'America; e così è avvenuto che se ne scemasse il valore, sicché se ne accrebbe l'uso; dal qual uso è stato poi impedito che tanto non sbassasse, quanto l'abbondanza il richiedeva: perché da questa concatenazione nasce il grande ed utilissimo effetto dell'equilibrio proporzionato del tutto. E questo equilibrio alla giusta abbondanza de' commodi della vita ed alla terrena felicità maravigliosamente confà, quantunque non dall'umana prudenza o virtù, ma da vilissimo stimolo di sordido lucro derivi: avendo la Providenza, per lo suo infinito amore agli uomini, talmente l'ordine del tutto congegnato, che le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono ordinate.

Or come questo accada fa al nostro proposito il dichiararlo. Poniamo che un paese di religione e di costume tutto maomettano diventi in un punto di fede e di usanze cristiano: trovavansi in esso rarissime viti piantate, perché ai maomettani è proibito il ber vino, ed io suppongo che essi a questa legge avessero ubbidito. Ecco in un tratto la rarità renderà caro il vino,l ed i mercatanti gran copia di vino cominceranno a fare d'altronde recare. Ma tosto volendo tutti di così alto guadagno gustare, tante nuove vigne si pianteranno, tanto vino si porterà, che per voler tutti lucrar molto, ognuno lucrerà il giusto. Così le cose sempre a uno stesso livello si pongono, tale essendo la loro intrinseca natura. Spesso anche cresce tanto la quantità della gente, che a quella spezie d'industria tratti dalle prime voci e da' primi esempi, impetuosamente ma troppo tardi si rivolgono, che il valore sbassa di sotto al giusto; e allora pagando ciascuno della sua inconsideratezza il fio, tutti se ne cominciano a ritirare, e così di nuovo al giusto limite si viene. Da questo due grandi conseguenze si tirano: primo, che non bisogna de' primi movimenti in alcuna cosa tener conto, ma degli stati permanenti e fissi; ed in questi si trova sempre l'ordine e l'ugualità, come se in un vaso d'acqua si fa alcuna mutazione dopo un confuso e irregolare sbattimento, siegue il regolato livello. Secondo, che non si può dare in natura un accidente che porti le cose ad estremità infinita, ma una certa gravità morale, che è in tutto, le ritiene sempre dalla retta linea infinita, torcendole in un circolo perpetuo sì, ma finito. Quanto ho detto anche alla moneta sarà ben cento volte da me applicato; abbianselo perciò fisso nell'animo i leggitori, e siano persuasi che con tanta esattezza corrispondono le leggi del commercio a quelle della gravità e de' fluidi, che niente più. La gravità nella fisica è il desiderio di guadagnare o sia di viver felici nell'uomo: e ciò posto, tutte le leggi fisiche de' corpi si possono perfettamente, da chi sa farlo, nel morale di nostra vita verificare.

CAPO TERZO

Dimostrazione che i metalli hanno prezzo per l'uso che prestano come metalli, assai più che come moneta. Due calcoli che confermano questa verità.

Dacché a scrivere quest'opera incominciai, rare volte è avvenuto che meco stesso meditando io non mi sia sentito accender d'ira contro gli uomini, di rispetto e di gratitudine verso l'autore del tutto. M'irritano gli uomini, e principalmente quelli che il nome di sapienti si fanno dare, i quali ora i nostri falli colle ordinate disposizioni della Provvidenza confondendo, ed ora lei medesima accagionando, e ripieni dell'idea del proprio merito, tutto gridano essere ingiustizia e tutto disordine quel che avviene: e della sorte, del fato e del destino i nomi a mascherare la loro empietà hanno inventati. Benedico al contrario la Suprema Mano ognora che contemplo l'ordine con cui il tutto è a nostra utilità constituito; e nelle opere sue ovunque io mi rivolga non incontro altro che giustizia ed egualità. E descendendo alle cose particolari io ammiro l'esattezza con cui la valuta ad ogni cosa è posta; e tanto l'ammiro più, quanto conosco la difficoltà che vi è a poter che un solo uomo faccia questo conto, e il prezzo stabilisca. Quale aritmetico può saper dire il prezzo d'una libbra d'oro, cioè d'una mercanzia che fin dall'India ci si reca? Migliaia e migliaia d'uomini v'impiegano la loro industria, tutti in diverse regioni, d'ineguale fertilità, ove è vario il valore della moneta, varia la popolazione e la ricchezza. Altri v'impiega l'opera d'un giorno, altri d'un mese, altri in egual tempo non su d'una, ma su cento e mille libbre s'impiegano. Inegualissima è la proporzione de' talenti di tante diverse persone. Che se si riguarda la vendita, chi sa trovar la giusta proporzione in tanta moltitudine di compratori, che variano nel gusto, nel genio, ne' bisogni, nell'opulenza, che sono in vario numero ne' diversi paesi, e dall'emporio principale chi più, chi meno distanti? Aggiungete i dazi de' principi, il cambio de' mercatanti, le frodi, i controbandi, e finalmente il numero quasi infinito de' pericoli e delle perdite, quanto diseguali nella probabilità, tanto nell'importanza de' danni. E pure da tutti questi princìpi ha da derivare il prezzo d'una cosa; e se un uomo solo si sgomenta e s'arretra, la moltitudine degli uomini che vi hanno interesse il sanno trovare: tanto nelle cose particolari sa più d'un savio solo una moltitudine d'ignoranti. E che questa gente non erri, e sia veramente il prezzo corrente il giusto, si dimostra così. Se tutte le persone che concorinrono al commercio dell' oro tutte vivono, tutte si nutriscono; gl'industriosi arricchiscono, i trascurati restano delle loro colpe colla perdita meritamente puniti, è certo che ognuno ha per sé il giusto guadagno ritenuto, niuno ha ai suoi compagni nociuto: altrimente se una classe d'uomini vi perdesse costantemente, sarebbe da lei questa industria abborrita e lasciata, e così il corso di tutta la mercanzia s'arresterebbe, come un oriuolo per la mancanza d'un solo dente dal suo corso si arresta. E se un' altra classe eccedentemente arricchisse, tosto diverrebbe così grande il numero di coloro che i primi e men lucrosi negozi lasciando a questo nuovo si rivolgerebbero, che il momentaneo guadagno in prima fatto si vedria diminuire, ed al giusto grado condursi.

Non si può adunque in altra maniera con sicurezza conoscere qual sia il giusto prezzo dell'oro, che chiedendo quanto egli comunemente vale rispetto a tutte le altre merci. Ma a me è necessario, non trapassando que' princìpi che nel capo antecedente ho fissi, arrestarmi un poco più sul valore de' metalli, e dimostrare l'altra importantissima verità, che i metalli sì riguardo all 'uso che se ne fa, sì riguardo allo struggimento, hanno valore assai più come metalli che come moneta; onde si potrà concludere che usansi per moneta perché vagliono, e non vagliono perché usansi per moneta. Il che mi giova a stabilire solidamente quel valore intrinseco sopra cui ogni verità di questa scienza è edificata. Io mostrerò adunque quanta sproporzione sia tra il metallo usato in moneta, e quello che no; e apparirà che i princìpi, onde si forma il prezzo, nascono da questo uso assai più che da quello. A ciò fare è necessario un calcolo aritmetico.

Io penso che il nostro Regno solo abbia d'argento (tralascio l'oro per maggior facilità del computo) 26 milioni di ducati. Uso questa voce di ducato come d'un peso, essendo noto che quindici ducati e 6/10 eguagliano una libbra di puro argento. Avrei potuto fare il computo in libbre, ma è sempre meglio usar voci più note, e idee più chiare. Le cause di questa mia opinione sono queste. In Napoli, città di metalli ricchissima, sono le chiese tutte singolarmente di argento ripiene. Il tesoro della cappella di S. Gennaro ha sopra cento mila scudi di argento: molte chiese oltrepassano i sessanta mila, e almeno cinque o sei ne hanno sopra quaranta mila; ma de' soli utensili più necessari, quali sono i calici, le patene, gl'incensieri etc. si può far questo conto per vederne la quantità numerosa. Sono in Napoli trecento e quattro chiese, e sopra cento e dieci altre cappelle, confraternite e congregazioni, tutte a dovizia ben corredate; in queste sopra due mila altari benissimo guarniti vi si hanno a numerare. Da tutto questo io m'arrischio argomentare, che in tutto tre milioni di ducati in argento sia in Napoli ad usi sacri consegrato. Nelle private case, s'io dico che cinque milioni ve n'abbia, dirò forse meno che più del vero: perché il lusso ha renduti così volgari gli oriuoli, le tabacchiere, i manichi di spade e di bastoni, le posate, le tazze e i tondini d'argento, ch'è cosa incredibile. Si aggiunge a ciò che i Napoletani, quasi in tutto ne' costumi agli antichi Spagnuoli rassomiglianti, trovano grandissimo piacere a conservare ripieni di antiche manifatture di argento i loro forzieri, che scrittòri, e scarabattoli essi chiamano. Da tutto questo io credo non aver errato nella mia supposizione: della verità della quale chi volesse restar persuaso, non ha a fare altro che andare a vedere i pegni che ne' nostri Banchi e Monti di pietà sono, e se ne chiamerà convinto. E certamente ne' soli pegni piccoli del Banco della Pietà, sopra quattrocento mila scudi di valore di piccoli ornamenti e gioielli vi si conservano, fra' quali almeno cinquanta mila scudi di argento vi saranno. Ha dunque Napoli otto milioni di argento non coniato. Il Regno contiene una popolazione otto volte maggiore della capitale, la quale oggi io credo che giunga ad avere trecento quaranta mila abitatori: vero è ch'egli è incomparabilmente più povero, ma è da attendersi che qualunque cosa, ch'è sparpagliata, appare minore, che se raccolta si vede. Certamente le chiese del Regno sono venti volte più di quelle che ha Napoli; e fra queste molti celebri santuari, molti ricchissimi monasteri, molte cattedrali insigni vi sono doviziose d'argento: né si crederà quanto ricche siano molte cappelle che ne' luoghi più poveri del Regno sono fondate. Molte città in oltre, essendo dall' antica quantità degli abitatori grandemente decadute, sono restate così ripiene di luoghi sacri, che simili appaiono a quelle antiche città che avea la Tebaide un tempo, le quali tutte di eremiti e di vergini si componevano: perciò non sembrerà strano se io dirò, che sei milioni di argento abbiano i luoghi sacri del Regno, e sei milioni soli i laici: laonde sono nel Regno venti milioni di ducati d'argento non coniato. Quanta sia la moneta mi pare abbastanza noto. Si sa che il marchese del Carpio nella generale rifusa di tutta la moneta d'argento zeccò 352.388 libbre d'argento, che sono ducati 5.604.309. Or egli è indubitato che quantunque il lusso a' nostri dì sia cresciuto oltre misura, pure la quantità della moneta d'argento o è uguale, o è forse anche minore d'allora; perché della moneta d'oro è infinitamente cresciuto l'uso, le carte rappresentanti il danaro sono più numerose, e finalmente egli è la velocità del giro del danaro, non la quantità de' metalli, che fa apparir molto o poco il danaro. E che poco sia oggi l'argento si può argomentare dall'avvertire che ne' Banchi di Napoli, da' quali senza controversia per tre milioni di carte sono date fuori, soli 400.000 ducati di argento vi si conservano. Né voglio che faccia ad alcuno difficoltà l'essersi dal marchese del Carpio in poi sempre seguito a battere moneta d'argento fra noi, sicché in tutto diecessette milioni di ducati si sono coniati; perché ognuno può vedere che que' del Carpio sono in grandissima parte già mancati, e molte delle monete anche più nuove sono o liquefatte, o andate via, o perdute; onde non si può affatto dire che tanta sia la moneta quanta se n'è battuta, ma incomparabilmente meno. Questo è il computo che io ho saputo fare, e su cui molte cose meditando conosco.

Pericolosa cosa sono certamente, e fonte di gravi abbagli, i calcoli dell'aritmetica politica; perché quasi tutti senza stabilità, né alcuna notorietà di princìpi conviene che si faccino; e i soli principi, se a questi ameni studi attendessero, potrebbero colla loro autorità i fatti e le sperienze avverare. Sono poi questi errori assai più facili ad intromettersi, quando la passione guida la mente non a trovare il vero, ma a trovar ragioni da confermare quello che ci è piaciuto senza motivo alcuno profferire. Esempio miserabile di questo è stato il cavalier Guglielmo Petty inglese, il quale nel suo ingegnoso trattato dell'Aritmetica politica molte cose lontane affatto da ogni verità ha co' suoi calcoli felicemente dimostrate, avendo per ultimo scopo prefissa non la verità, ma la gloria della sua nazione, i cui pregi per altro non richiedevano che con mostruose supposizioni s'ingrandissero fino al ridicolo. Da così funesto esempio io imparo a non derivar conseguenza veruna, che non resti vera anche se di due o tre milioni avessi errato, che di più certo non posso errare. In prima io avverto che il metallo d'argento non coniato essendo quattro volte maggiore del coniato, secondo i princìpi da me nel capo antecedente esposti, bisogna restar persuaso che quattro volte più dipende il valor dell'argento dal suo esser utile come metallo, che dall'esser utile come moneta; altrimente o le miniere più non si scaverebbero dopo che uno stato è ripieno di moneta che basti al suo commercio, o il prezzo della moneta anderebbe con gran velocità alterandosi: perché, non potendosi negare che in un mezzo secolo almeno di cinque milioni siasi la massa del nostro argento accresciuta, pure e' si vede per esperienza che il suo valore non è scemato per metà, ma assai meno; onde bisogna dire che il lusso lo ha divorato ed ingoiato, e si è così il prezzo a dispetto della continuata intromessione mantenuto.

Che se il metallo usato ma non consumato è molto più che la moneta, il distruggimento che del metallo non coniato si fa a paragone dello struggimento della moneta è incomparabilmente maggiore; dal che con nuovo e più forte argomento si convince chi dubitasse ancora, che l'oro e l'argento hanno valuta più per l'uso che prestano come metalli di lusso, che come moneta. E venendo a discorrer di questo più a minuto, dico che per osservazione ci è noto che in cinquant'anni i carlini nostri si sono consumati del nove per cento; i dodici e tredici grana d'un sette; l'altre monete più grosse quale del quattro, quale del due, e quale dell'uno. Laonde prendendo un termine mezzo io dico che la massa tutta della moneta d'argento siasi del quattro per cento consumata: il che è piuttosto più, che meno del vero. Dunque di cinque milioni di moneta se ne son distrutti 200.000 ducati. Rivolgiamci ora agli utensili. Egli è certo che siccome la moneta si custodisce il meglio che si può, acciocché non si logori, così degli utensili i più si consumano alla peggio. I tondini, le posate, le coppe e gli altri vasi da tavola, i manichi di bastoni e di spade, le fibbie, i bottoni, le tabacchiere, col lavarsi, col nettarsi, collo stropiccio e coll'uso continuo delle mani incomparabilmente più della moneta si distruggono; ma quando anche non più del quattro per cento in questo mezzo secolo si fossero consumati, pure questa valuta è di 800 mila ducati. Ma per quello che si adopera nell'inargentature del legno e del rame, e nell'indorature false, che tutte d'argento fino si fanno, ci sarà uomo che dubiterà che in cinquant'anni tutto il Regno ne abbia sopra trecento mila distrutti? E quello che in vestimenti, galloni, drappi e ricami l'indicibile nostro lusso dissipa, è possibile che non giunga a settecento mila ducati? Lascio tanti altri modi di dissipamento; e restringendomi a' già detti e' resta palese che, mentre della moneta si sono dileguati duecento mila ducati, dal restante dell'argento sopra due milioni n'è andato via. Sicché dieci volte più dipende il prezzo dell'argento dall'uso suo in mercanzia, che in moneta. Un somigliante calcolo si può far sull'oro, e tirarne la stessa conseguenza. E quando questa non paresse ancor a taluno, come ella lo è, verissima, potria egli restarne convinto riguardando i bassi metalli che usansi per moneta, e vedrebbe che in ogni nazione solo le utili merci usansi; né le inutili come i sassi e i pezzi di cuoio possonsi adoperare. Non hanno adunque gli uomini stimati i metalli perché la moneta con essi instituirono, ma gli usarono per moneta perché ne aveano stima ed utilità. Non fu loro libera e capricciosa scelta, ma fu necessità che alla natura istessa de' metalli e a' requìsiti della moneta era congiunta: il che nel seguente capo si discorrerà più minutamente.

A stabilire questa verità che io ho dimostrata si poteva usare un altro computo, dal quale apparisse la sterminata quantità dell'oro e dell'argento che da due secoli in qua il nostro lusso ha annichilita: ma questo computo, siccome più vasto, era soggetto a troppo più gravi errori; pure e' mi piace additarne un lampo. Per conoscere quanto argento siasi dalle nuove Indie recato qui basta sapere che D. Gaspar di Escalona dice (ed egli poté saperlo) che dal 1574 che fu imprima scoperto il Potosì fino al 1638 si erano estratti da quel monte 395.619.000 pesos di argento. Il peso è in circa quanto dodici de' nostri carlini. Se questo fu in 64 anni, dal 1638 al 1750 in cui siamo, cioè in 112 anni, ancorché siasi la miniera alquanto impoverita, non è dubbio che almeno altrettanto se ne sia scavato, il che fa in tutto sopra 860 milioni di ducati: chi poi dirà che da tutta l'America (ove sono oltre al Potosì abbondantissime le miniere di Copiago nel Chily, e quelle della Plata, ed ove il Messico, la Terraferma ed il Brasile sono anche d'argento doviziosi) il doppio si sia ritratto di quel che le sole miniere del Potosì danno, dirà certamente meno del vero. Dunque tutto sommando insieme, più assai di 2.500 milioni ha dalla sua scoperta in qua l'India di argento a noi dato. Aggiungete tutto il metallo che si trovò in mano agl'Indiani per tanti secoli raccolto e lavorato. Poi rivolgendosi all'Europa, riguardisi tutto l'argento che prima di Cristoforo Colombo vi era, che certamente ed alla moneta e ad un non piccolo lusso era bastante. Aggiungavisi tutto quello che dalle nostre miniere poi si è scavato. E certamente sebbene sia falso quel che lo Sthall anteponendo l'Alemagna all'Indie ne afferma, cioè che in 400 anni quaranta mila milioni di lire d'argento abbian fruttato, pure giacché queste miniere ancor oggi torna conto il lavorarle, convien credere che molto ricche siano sempre state. Sicché in due secoli e mezzo io ho per fermo che 4.000 milioni di ducati d'argento siano stati in Europa; e pure io credo che ora assai più di 1.500 non ve ne siano, né giungono a mille que' che in Oriente si sono inviati: tutto il resto lo ha il lusso divorato, assorbito, distrutto. In aumento della moneta certo che più di duecento milioni non si sono messi, e ciò è assai piccola cosa riguardo al tutto. Può valer questo calcolo, della esattezza di cui, per vero dire, io conosco non essere da fidarsi molto, a confirmare un vero già manifesto. Ora non aggiungerò altro su di questo.

Frattanto i miei lettori potranno avvertire aver io dimostrato che l'oro e l'argento hanno vero valore intrinseco, che non deriva né dall'usarsi per moneta, né dal capriccio nostro, né dal consenso delle nazioni. Per ciò fare è convenuto sviluppare i princìpi del valore di tutte le cose in generale, ed adattargli all'oro ed all'argento. Ho poi fatto conoscere che questo valore intrinseco non solo essi l'ebbero imprima, ma lo hanno anche ora che si usano nella moneta, perché assai più vagliono, e si usano come metalli, che come moneta. Ma tutto questo che del prezzo intrinseco si è ragionato, potendo esser comune anche all'altre merci preziose, non gioverebbe nulla, se non si ricerca perché la moneta è fatta solo d'oro e d'argento, e non di gemme, di pelli rare, di porcellana, di pietre dure, d'ambra, di cristallo o d'altro. Ed io spero dimostrare a tutti che nemmeno questa cosa dal consenso e dalla libera scelta nostra derivi, ma che la natura della moneta porti con sé che più comodamente coll'oro e coll'argento, che con qualunque altra cosa si possi adoperare: ed a questo è destinato il capo seguente.

CAPO QUARTO

Perché i metalli sieno necessari alla moneta. Definizione della moneta. Qualità particolari de' metalli necessari alla moneta. Conclusione.

Di tutte le istituzioni grandemente utili e meravigliose che sono nella vita civile, io fermamente stimo che niuna ne sia dovuta alla sapienza della nostra mente, ma tutte siano puri ed assoluti doni d'una Provvidenza amica e benefattrice. E certamente avendo le cose grandi piccolissimi ed invisibili cominciamenti, tardo accrescimento, ed inespugnabile forza nel procedere innanzi (perché dalla natura istessa, a dar loro il moto ordinata, sono sostenute), non può l'uomo né del principio avvedersi, né il loro crescere arrestare, né poiché sono stabilite disfarle: perché non estendendosi il potere d'alcun uomo oltre ai confini della sua breve vita, non è possibile che innanzi al suo nascere le nuove cose prevenga, né dopo la morte è sicuro che secondo le sue mire e' sia ubbidito. Vero è che gli uomini quando veggono qualche bell'ordine formato, si pregiano d'averlo essi voluto istituire, ed a perfezionarlo (come essi dicono) danno di piglio. Ma neppure questa perfezione agli uomini in tutto si dee, perché o ella è conforme all'indole della cosa, e siegue, o l'è contraria, e da sé stessa si disfà. Romolo certamente non pensò a far sorgere un vasto imperio, né Augusto si accorse che nel perfezionarlo e nello stabilirlo egli lo disfaceva. Quella virtù istessa che ad ingrandir la Repubblica concorse, e que' vizi che la distrussero, erano negli uomini originati dagli ordini e da' difetti di quello stato disposti a produr questi effetti. E per rivolgerci alla nostra materia, grandissima cosa è senza dubbio l'istituzione della moneta: ma è falso che gli uomini fossero quelli i quali imprima ad usarla avessero pensato. Ella si cominciò (come io ho narrato) ad usare quasi senza che si conoscesse ch'ella si usava, e senza comprendersene la utilità. Dappoiché fu nota, e resa comunale, si applicarono gli uomini a migliorarla; e perché la sua natura vi concorreva, si poté col conio e con altre arti facilitare: ma è da tenersi per indubitato, e questo io voglio in questo capo dimostrare, che la Provvidenza è quella che ha voluto che della moneta noi avessimo l'utilità; disponendo così le cose, che conosciuti i metalli, la moneta si dovea necessariamente introdurre; e quando poi questa fu introdotta, non si poté de' metalli far a meno, né sostituir loro alcun'altra mercanzia; così richiedendo i bisogni dell'una e le proprietà degli altri. Questa materia, quanto è importantissima, tanto io spero ch'ella sarà per essere a' miei lettori piacevole e fruttuosa.

Sono da ridere invero tanti che dicono essere gli uomini tutti un tempo convenuti, ed aver acconsentito ad usar questi metalli, per, sé di niun uso, come moneta; e così aver dato loro il valore. Dove sono mai questi congressi, queste convenzioni di tutto il genere umano; quale il secolo, quale il luogo, quali i deputati per mezzo de' quali gli Spagnuoli e i Cinesi, i Goti e gli Africani così stabilmente convennero, che per tanti secoli dopo, quando finanche un popolo l'esistenza dell'altro ignorava, mai non si mutarono d'idea? I barbari che distrussero l'Imperio, e i Romani che lo difendevano, mentre in ogni altra cosa erano ostinati nemici e contrari, in questo solo rimasero d'accordo, che l'oro e l'argento come ricchezza valutarono. Eh che bisogna pur dire che quando tutti gli uomini convengono in un istesso sentimento, ed in quello per molti secoli durano, non sono già questi congressi tenuti a piè della torre di Babilonia, o in sull'uscita dell' arca; sono le disposizioni dell' animo nostro, e le costituzioni intrinseche delle cose: perché queste sono veramente sempre le medesime, e sempre le medesime sono state in ogni tempo. E che così sia come io dico, mi pare che si possa fino all'evidenza dimostrare: per la qual cosa io argumento così.

Qualora si vuol far conoscere una necessaria connessione tra due cose, conviene che si esamini bene la natura di ambedue, ed in questo conoscimento si ha a scoprire quella concatenazione in dissolubile che è tra loro. Io comincerò adunque a ricercar la natura della moneta, e poi procedendo innanzi dirò le proprietà dell'argento e dell'oro; onde si conoscerà che quella non può essere senza di questi. E sebbene della moneta si debba ragionare nel libro seguente, pure giacché mi vi sono di già appressato, comincerò da ora a palesare le di lei definizioni, riserbando al libro II lo spiegarle e stabilirle con buone ragioni.

Di due sorte è la moneta, ideale e reale; e a due diversi usi è adoperata, a valutare le cose e a comperarle. Per valutare è buona la moneta ideale così come la reale, e forse anche più: anzicché ogni moneta quando apprezza alcuna cosa, è considerata come ideale: il che vuol dire che una sola voce, un solo numero basta a valutare ogni cosa, non consistendo il prezzo che in una proporzione, la quale ottimamente co' numeri si esprime e s'intende. Perlocché riguardo a quest'uso io definisco la moneta così: ((Moneta è una comune misura per conoscere il prezzo d'ogni cosa)). Utilissimo oltre ogni credere è quest'uso, perché senza una comune misura mal si conosce la proporzione delle cose; mentre riferendosi una ad un'altra solo la ragione fra loro due si viene ad intendere. S'io dico un baril di vino vale 50 libbre di pane, io non conosco altra proporzione che fra il grano e il vino: ma s'io sapessi che il baril di vino vale un ducato, subito io intenderò con idea distinta la proporzione fra 'l vino ed un infinito numero di generi i cui prezzi mi sono noti. E con quanto poca fatica questa intelligenza si venga ad acquistare lo sa ciascuno. Se giovi, non credo sia da dubitarne; perocché la nostra felicità da niente altro deriva che dal formare retti e veri giudizi, non avendo le disgrazie tutte, senza eccettuarne veruna, altro padre che l'errore: ed i giudizi non sono mai veri, se le idee non sono vivacemente chiare nell'intelletto.

L'altro uso della moneta è di comperare quelle cose istesse che ella apprezza. A questo, non altro che la reale, cioè il metallo, si può adoperare; e se con alcun'altra spezie di cosa si compra, egli è perché queste rappresentano il metallo: che è quanto dire, che il metallo assolutamente ed originariamente è quello che compra, ed equivale a tutto. Perciò la moneta reale stimo che si debba definire così: ((Moneta sono pezzi di metallo, per autorità pubblica fatto dividere in parti o equali o proporzionati fra loro, i quali si danno e si prendono sicuramente da tutti come un pegno, e una sicurezza perpetua di dover avere da altri, quandoché sia, un equivalente a quello che fu dato per aver questi pezzi di metallo)). Abbastanza mi par chiara questa definizione, né credo che ad alcuno potrà nascere difficoltà, riguardando a quelle compre in cui vi è frode o inganno. perché bisogna pensare che i prezzi e i contratti si valutano in moneta ideale, e si eseguiscono in reale; laonde gli errori cadono sempre nel misurar male una cosa sulla sua comune misura, che è la moneta ideale, non cadono sulla reale, la quale è sempre un vero e fedele equivalente là dove non è errore o malizia.

Spiegato ogni uso della moneta, passo a discorrere della natura de' metalli, e principalmente dell'oro e dell'argento. Sono i metalli ((i corpi più gravi della natura, i quali col fuoco si liquefanno, col freddo si rappigliano e s'indurano, e con istrumenti meccanici prendono quella forma che uno vuole)). Il loro peso non ha che fare coll'utilità loro all'uso di moneta, ma solo il loro esser fusili e malleabili. Ma forse non rincrescerà il sapere che la proporzione tra 'l peso dell'oro e dell'argento è come 19.636 a 1 1.O87 quando l'argento sia purissimo. Secondo questa istessa divisione di parti il piombo ne pesa 11.345, l'argento vivo 14.019, l'acqna comune 1.000. In oltre un pollice cubico d'oro del piede parigino pesa once 12, grossi 2, gr. 37, misura di Francia, d'argento pesa once 6, grossi 5, grani 38, ma questo è d'un argento alquanto men travagliato al fuoco, e perciò più leggiero. Questo è del peso. Ora replico di nuovo che questo pregio non contribuisce punto al valor de' metalli, siccome al piombo, che pure è più pesante dell'argento, niente giova. Lo stesso è di molti pregi dell'oro e dell' argento, de' quali è errore il credere che ad accrescere la stima abbian conferito, quantunque Plinio e dopo lui tutti gli altri come molto importanti gli hanno enumerati: perché quello che non varia o l'utilità o la rarità, non varia mai il valore. E sapientemente dice Gio. Loke che talora una qualità di molta utilità alla vita che abbia qualche cosa se non ne accresce il consumo, non ne accresce il prezzo. Così se si scuoprisse che col grano si potesse lavorare una medicina sicuramente efficace contro il mal della pietra, si aumenterebbero i pregi del grano, ma non il prezzo di lui. Se le pannocchie del formentone avessero il più vago color porporino che si potesse vedere, sarebbero più belle, ma se non se ne facesse nuovo uso, non sarebbero più care. E perché si conosca quanto sia vero questo che io dico, sarà bene rapportar qui brevemente quelle proprietà dell'oro e dell'argento che io sento inconsideratamente celebrarsi, come quelle che indussero l'uomo ad usargli per moneta, ed esaminare se così sia come Plinio dice.

Sono questi due metalli soli da' chimici detti perfetti, perché in essi non si contiene porzione alcuna di terra, o sia di materia friabile, inutile, ed atta col fuoco a verificarsi; la quale in tutti gli altri metalli inferiori, che imperfetti perciò si dicono, si ritruova. È dunque la loro sustanza costituita di mercurio, e di solfo. Con queste due voci esprimono i chimici certi princìpi fisici, e non già l'argento vivo e il solfo comune. Chiamano mercurio quella sustanza non volatile, ma atta a liquefarsi e scorrere e formarsi, la quale lasciando trapassare tra' suoi pori tutti i sali discioglienti e il fuoco, non si fa da essi penetrare o mutare. Diconsi solfo quelle particelle che danno al mercurio consistenza, durezza e colore; le quali il fuoco rende volatili, i sali le disciolgono, impregnansene, e se ne tingono: e forse questo solfo altro non è che le particelle della luce. Una tale constituzione meritamente gli fa chiamare semplicissimi, non potendosi in niente altro risolvere, e permanendo immutabilmente costanti ad ogni esperimento. Né si è potuto ancora con alcuna forza di altro corpo (tolti i raggi della luce raccolti nella lente ustoria dello Tschirnausen) trasfomargli in modo, o diminuirgli, sicché nella loro prima natura e quantità non ritornassero sempre. Due mesi tenne Roberto Boile liquide tre once d'oro senza che le si scemassero neppur d'un grano, e due mesi tenutovi l'argento si scemò solo di una 12ma parte; se pur questa non fu d'estrania materia che se ne distaccò. La spiegazione di tutte queste qualità dell'oro e dell'argento si potrà leggere da chi ne fusse desideroso ne' ragionamenti letti dall'Homberg nell'Accademia delle Scienze; e sono certamente studio dilettevole ed utile, ed alla disposizione dell'animo mio il più confacente; ma perché il mio istituto non richiede che più mi vi trattenga sopra, io me ne astengo.

Passo a dire della dissoluzione de' metalli perfetti, che anche ingiustamente è creduta nell'oro una proprietà utile alla moneta. Chiamasi dissoluzione quella divisione d'un corpo in parti minutissime, natanti in un fluido che tingono, e la natura di esso imitando si rendono in tutto liquide e scorrenti. L'acqua comune perciò è il generale disciogliente di tutti i metalli, quando siano finissimamente spolverizzati; l'argento vivo anche egli discioglie tutti i metalli che siano purgati dalla parte oleosa: ma propriamente parlando gli acidi, o sia i sali sono i veri discioglienti de' corpi. Niuno però di questi ha forza da scioglier l'oro, altro che il sal marino, siccome il solo nitro discioglie l'argento: gli altri metalli poi da qualunque acido sono stemperati. Quello che è strano egli è che il sal marino se si congiunge col nitro con maggior forza stempera l'oro, e questa dicesi acqua regia, la quale componesi con due parti di nitro, tre di vitriuolo e cinque di sal marino distillati insieme. Ma il nitro che discioglie l'argento se vi si meschia il sal marino diviene inefficace: vero è che la flemma dell' acqua regia di fresco distillata, dopo che ha sciolto qualche pezzetto d'oro, può liquefar l'argento. E questa sperienza, che il caso scoprì, fu poi felicemente spiegata dall'Homberg a cui avvenne.

Di qua deriva che l'oro non è soggetto a rugine, perché del sal marino, non essendo egli volatile, non è pregna né l'aria né la terra: ma il nitro, che ha forza d'addentare l'argento, e di cui è sparsa l'aria e la terra, fa che l'argento sia sottoposto ad annerirsi ed a far rugine, quasi come i metalli inferiori. Per la stessa cagione l'aceto non doma l'oro, come Plinio avvertì, né il piombo, il mercurio, od altro minerale che usisi a purificarlo, ha forza di fargli fare scoria: il che non è dell'argento, il quale sebbene resista al piombo, dall'antimonio però è roso e vetrificato. In fine ambedue questi metalli, dopo il piombo e lo stagno, sono i più pieghevoli, i più facili a liquefarsi, e sono di prodigiosa arrendevolezza. Quella che rammenta Plinio farsi a' suoi tempi, è poca in confronto di quella che oggi si fa. Dice Plinio dell'oro: ((Nec aliud laxius dilatatur aut numerosius dividitur, utpote cuius unciae in septingenas, et quinquagenas, pluresve bracteas quaternum utroque digitorum spargantur)); cioè d'un'oncia si tiravano 12.000 pollici quadri. Oggi da' nostri battiloro, secondo le osservazioni accuratissime del francese Reaumour, si schiaccia un'oncia fino a coprire l'ampiezza di 146 piedi quadri, che sono sopra 21.000 pollici quadrati. Pure questa divisibilità dell'oro, quale e quanta ella siesi, non è nulla in comparazione di quella che ha l'oro quando essendo soprapposto ad indorare alcun metallo insieme con lui si distende; avendo questa naturalezza, che sebbene imprima fosse posto sovr'un pezzo di metallo assai corpulento, se questo per le trafile si slunga, l'oro anche indivisibilmente lo siegue, e si comparte sopra tutta la nuova superficie con maravigliosa esattezza ed equalità. E sino a quanto possa giungere questa divisibilità si può intendere dal vedere che un'oncia d'oro indora sensibilmente un pezzo d'argento che siasi disteso fino alla lunghezza di 360 miglia italiane. Ma su queste osservazioni, che a pochi oggi saranno ignote, non conviene che più mi trattenga: meglio sarà che facci conoscere ora quel che pochissimi avranno avvertito, che tutte queste proprietà ad altro non hanno conferito che a render più vile e meno prezioso l'oro e l'argento.

Certa cosa è che il lustro e la bellezza sola è quella che fa che gli uomini amino d'ornarsi con oro e con argento; né quando questi più presto si consumassero e meno si distendessero, sarebbero perciò le genti disposte ad astenersene: poiché si vede che godono di consumarlo, ed al prezzo più caro (com'è la natura degli uomini inclinati al lusso) trovano maggior compiacenza. Ora che l'oro e l'argento quasi a nostro dispetto sieno tanto difficili a distruggere, che acqua, ferro, fuoco, tempo, ruggine non gli consumi, e tanto sieno facili a distendersi che, scemandosi pochissimo, si adattino a ricoprir quanto ci piace del loro luminoso aspetto; egli non fa altro se non che meno rari divengano, e più lentamente, dopo che sono tratti dalle viscere della terra, ci spariscano davanti, e ne' primi semi risolvendosi, tornino di nuovo dentro la terra loro madre a riunirsi e, come noi diciamo, a rigenerarsi. Dunque se fosse l'oro dieci volte più sottoposto a perire di quel ch'egli non è, dell'oro dall'Indie recato assai meno ne avremmo noi ora, di quel che ne conserviamo: dunque e' sarebbe più caro. Né si può dire che sottoposto ch'ei fusse a questa incomodità sarebbe men prezzato, perciocché sempre ch'ei sarà bello, sarà prezzato. E che così sia si conosce dalle perle, le quali a me paiono men belle dell'oro; ma perché non durano, sono più rare, e quindi più care. Su questo ch'io ho accennato, meditando chi pensa dritto, senza meno al mio sentimento s'accosterà, distaccandosi dalla corrente la quale, perché vede l'oro usar per moneta, tosto enumera tutte le proprietà sue quante più ei n'ha, come quelle che indifferentemente lo aiutino ad esser moneta. Cose dette a caso. Perciò è bene venire a discorrere di quelle qualità che hanno i metalli, e che dalla materia che dee servir per moneta unicamente sono ricercate.

Dirò imprima quelle che richiede la moneta reale, o sia che compra. Perché una cosa possa aver quest'uso si richiede: I. Che sia universalmente accettata. II. Che non sia soverchio voluminosa, ed incomoda a trasportare e a cambiare: giacché non può una cosa servir per equivalente delle più preziose e desiderabili, onde gli uomini si privano, se ella non è comunemente ricevuta sempre, e con ciò faccia sicuro chi la possiede di non dover restar mai privo di quello ch'egli in mente ha figurato poter con essa conseguire. In oltre una mole troppo voluminosa si rende molesta ai cambi, e subito bisogna sostituirvene una più lieve che la rappresenti.

Per potere una cosa essere da tutti accettata quattro qualità io veggo che si richiedono: I. Che abbia un valore intrinseco e reale, e nel tempo stesso da tutti concordemente stimato. II. Che sia facile a sapersi la vera valuta. III. Che sia difficile a commettervisi frode. IV. Che abbia lunga conservazione. Non mi dilungo a provar la verità di questo che asserisco, perché o il mio lettore la conoscerà meditandovi, ed è inutile ch'io la spieghi, o non la intenderà, ed è inutile che quest'opera sia letta da lui.

Ora non mi resta che applicare questi requisiti, che ho esposti esser necessari alla moneta, ai generi che la natura produce, e si conoscerà quali siano quelli che la natura ha destinati a servir per moneta dotandogli convenientemente. Imprima restano esclusi tutti que' che non hanno valore intrinseco, ma convenzionale: perché essendo certissimo che è men sicuro avere in mano una merce la cui valuta dipende dalla publica convenzione e fede, che non l'aver quelle che vagliono perché sono necessarie o utili all'uomo: questa merce non può generalmente parlando divenir moneta. Così è che un paese non potrà mai servirsi di moneta di cuoio o di bullettini per lungo tempo. E sebbene i biglietti corrano in molte parti per moneta, pure io non so se, quando questo paese che usa i bullettini divenisse tributario di alcun popolo inimico vicino, non so io dico, se i conquistatori si contenterebbero di lasciarsi pagar co' bullettini, o se vorrebbero la moneta di metalli. Tanto è grande divario tra la fede pubblica e il pensare comune. Questo quanto è universale, tanto è immutabile; quella non si estende più in là di quelle persone e popoli che hanno convenuto, ed è sottoposta ad ogni minimo accidente a turbarsi, e spesso anche a disciogliersi: e perciò un popolo non può per lungo tempo usar solamente moneta rappresentata. Onde si conosce sempre più falso, che il valore de' metalli, e l'usarsi per moneta sia di convenzione umana.

In secondo luogo restano esclusi per lo stesso motivo tutti que' generi che soggiacciono alla tirannia della moda: mentre quanto è vacillante la fede pubblica, tanto è volubile la fantasia popolare. In terzo que' generi che colla diversità de' costumi o de' culti religiosi possono cambiar valuta: dalle quali eccezioni poche cose a me pare che siano libere dopo l'oro e l'argento. E questo è quanto al primo requisito.

Ma il secondo è quello che limita precisamente i metalli a doversi sol usar per moneta. Non si può saper con facilità la valuta d'alcun genere, se quelle tante ragioni componenti spiegate nel secondo capo non si riducano a numero più semplice. Or i metalli han questo di proprio e singolare, che in essi soli tutte le ragioni si riducono ad una, che è la loro quantità, non avendo ricevuto dalla natura diversa qualità né nell'interna loro costitnzione, né nell'esterna forma e fattura. Tutto l'oro del mondo è d'una medesima qualità e bontà; o per meglio dire ad essere d'una medesima qualità si può facilmente ridurre: perché è vero che mai non si trovano l'oro e l'argento nelle miniere o nelle sponde de' fiumi perfettamente puri, ma sono sempre con altro più basso metallo o minerale mischiati; ma è noto che si ponno questi metalli abbassare di carato con quanta lega si vuole, e purgarli al contrario fino alla perfezione: non è però così del vino, del grano, e di tanti altri generi. Non sono essi da per tutto dell'istessa qualità, né vi è arte per far che il vino d'Ischia diventi vino di Toccai: perciò con una stessa misura di peso non si possono vendere tutti i vini del mondo ad uno stesso prezzo. L'oro e l'argento non solo si possono, ma si debbono valutare attendendo alla sola quantità della mole: la quale la natura fa che si conosca ottimamente ed infallibilmente col peso. In oltre un pezzo di due pollici cubi d'oro vale quanto due pezzi d'un pollice l'uno: ma un diamante di dieci grani non vale quanto due di cinque l'uno. E questo è perché di due pezzi d'oro io posso farne uno, con congiungimento che non è incastratura o legatura dell'arte, ma unione che la natura fa, e l'arte non la può distinguere o percepire: ma di due diamanti non v'è arte di farne uno. Questo istesso dicasi sulla diversa grandezza degli animali, legni, marmi, gemme, rarità, le quali perciò non possono secondo la mole aritmeticamente apprezzarsi. E sebbene alcuni commestibili vendansi a peso, ognuno però sa che, subito che uno di essi, come per esempio un pesce, eccede l'ordinaria grandezza, non si valuta colla medesima ragion del peso, ma assai dippiù: il che non sarà mai ne' metalli. In terzo una verga d'oro spezzata, torta e malformata vale quanto la dritta e l'intera. Non è così d'un cristallo, d'una porcellana etc. perché all'oro non dà né toglie valuta l'esterna fattura, all'altre cose sì. Intendo qui di dire quanto alla fattura, che la natura non dà pregio di forma ai metalli, producendogli in polveri, o ramificazioni minutissime e di forma inutile: il fuoco le congiunge, l'arte le lavora, e questa forma vale; ma ella è interamente distinta dal valor della materia e ne è divisa affatto. Quindi sempre la materia siegue a valere secondo la ragion del suo peso, qualunque forma prenda, o se le tolga. Ma le gemme non hanno Valor di materia distinto dalla forma, e la qualità loro prende mille diversi gradi dalla limpidezza dell'acqua, colorito, fuoco, pagliuole, nuvolette, scheggiature. Perciò la legge non può fissarsi un valore universale, ed ognun conosce che un bravissimo gioielliere con lungo studio non conosce così bene il valore d'una gemma, come un orefice anche inesperto conosce quello dell'oro. Ora è certo che l'uomo non s'arrischia a contrattare che là dove vede chiaro e non teme inganno; e se la moneta interviene in ogni contratto, troppo è necessario ch'ella sia d'una materia di facile valuta. Ma io ho dimostrato che né più atta dell'oro e dell'argento si troverà, né più sicura: de' quali quanto sia facile conoscere la bontà ed il peso, lo dimostra l'esempio della nazione cinese, nella quale ognuno da per sé saggia e pesa l'oro, e lo sa perfettamente valutare. Nelle nazioni più culte si hanno i principi e le repubbliche presa la briga di conoscer essi della bontà e del peso de' metalli, e di assicurarne sulla loro fede ciascuno colla loro impronta; e così hanno l'uso de' metalli come moneta alla perfezione condotto, come nel seguente libro si dirà; ma non è questa cosa necessaria.

Mi resta ora a dire degli altri due requisiti della moneta; e quanto alla lunga conservazione che l'oro e l'argento l'abbiano sopra ogni altra cosa lunghissima, non si ricerca ch'io lo ripeta. Quanto al non potervisi far frode, io dirò brevemente ch'egli è noto quanto si siano gli uomini travagliati per imitar l'oro e multiplicarlo: ed è nella luce del nostro secolo divenuta così ridicola e vilipesa questa misteriosa scienza, che alchimia si dice, quanto forse fu in altri tempi venerata e culta. Tanto poco resiste al tempo ed alla verità un ingann o misterioso che promette utilità sproporzionate agli ordini della natura. Quello però che a me è paruto sempre strano, è il conoscere che questa scienza si disprezza non per lo fine ch'ella si propone, il quale anche agli stessi disprezzatori sembra grande ed eccellente, ma perché si sa non poter ella giungere a conseguirlo. Il suo fine è di convertire o tutte le sustanze, o almeno molte materie vili, quale è il ferro, e le pietre, in oro. Né io sento chi derida come ridicola e dannosa questa intrapresa quando ella riuscisse: sento solo ch'ella si ha per impossibile. In verità non si è geometricamente dimostrato finora ch'ella non possa riuscire. Ma siccome gli sforzi di tante migliaia d'uomini e d'anni non hanno prodotto nulla, e in oltre si vede che niuna produzione della natura ha potuto finora essere moltiplicata o rifatta dall'arte; né alcuno farà chimicamente un granel di grano, una pumice, un marmo, un legno; così vi è una tanta e tale verisimilitudine, ch'ella si tiene per dimostrazione. Un'altra ragione pure si adduce, che la semplicità somma de' metalli perfetti, siccome non permette che l'arte gli distrugga e disciolga, così non pare che possa sapergli moltiplicare: e questa ragione è stata potentissima fino a 50 anni sono, che cessò di esserla. La chimica acquistò nuove forze oltre l'antiche da operar su' corpi. Allo Tschirnahusen tedesco venne fatto di lavorare una lente di straordinaria e non più veduta grandezza, la quale acquistata dal duca d'Orléans e data ad usare agli Accademici delle Scienze, fece conoscere all'Homberg che l'oro poteasi da' raggi del sole o sciogliere, o diminuire, distruggere e vetrificare. Nelle Memorie del 1702 e del 1707 si potran leggere a lungo tutte le dispute ed osservazioni su questo maraviglioso fatto che a molti, ancorché vero, pareva affatto incredibile.

Or con queste nuove forze, delle quali ancora non è perfezionato l'uso, quel che si possa pervenire a fare è ignoto ancora: ma quello che potea esser noto sin dal principio, e non si è voluto conoscere, egli è il vizio del fine istesso dell'alchimia. Il suo fine non è già convertire il ferro in oro, ma l'oro in ferro: fine pernizioso e diretto unicamente ad impoverirci. Io dico così per far sentire quell'inganno che è il più universale e frequente nelle menti umane, ed il meno perseguitato. Quando si pone uno stato di cose diverso da quello in cui si vive, bisogna convertir le idee dello stato presente, ed appropriarle al supposto che si fa, e a quello stato. Allorché oggi noi diciamo oro ci suona nell'orecchio un non so che d'opulenza, di dovizia; in somma di desiderabile e buono. Quando diciamo ferro pensiamo subito a cosa vile e disprezzata; e certamente nello stato presente non c'inganniamo. Ma se tutto il ferro che uno vuole si può cambiare in oro vero e perfetto, allora dicendo oro si risveglierà l'idea secondaria istessa che viene quando oggi si dice ferro. Né la bellezza dell'oro, alla volgarità di lui resistendo, potria sostenerne la stima: perché il cristallo, il quale è certamente bello sopra ogni altra cosa, perché egli è un genere che, oltre a quello che nelle rupi si scava, si sa con l'arte fare, non vale più di quel che la sua poca rarità richiede ch'ei vaglia. Dunque sgombrando l'inganno delle parole, l'alchimia non promette altro che impoverirci; cioè rapire dal numero delle cose rare, e perciò preziose, l'oro e l'argento: il che se ella facesse anche delle gemme, ci spoglierebbe affatto d'ogni mezzo da ostentare la potenza, e da adornare la bellezza. Né il consumo dell'oro si accrescerebbe, ma anzi divenendo bassissimo il suo valore, il lusso non ricercherebbe più, e il naturale si staria ascoso nelle sue vene, l'artificiale nel suo ferro. Né questo danno sarebbe molto grave a paragone dell'altro, cioè di privarci di moneta. In quel caso tutta la moneta si ridurrebbe a moneta di rame, di ferro giallo e di ferro bianco: perciocché questo suonerebbero allora i due pregiati nomi d'oro e d'argento: e quanto fastidio apporti l'aver solo moneta di rame e di ferro si dirà altrove. In oltre non si potrebbe all'oro ed all'a